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Shumway: la voce dell’imperialismo

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Nicolas Shumway è un amabile professore nordamericano che nel 1975 compì un viaggio in Argentina per indagare su “la nascita del sentimento di identità nel paese sudamericano” nel XX secolo. Grazie alle ricerche compiute sul terreno pubblicò il libro “L’invenzione dell’Argentina”. In linea generale il giudizio sul lavoro di Shumway non può essere del tutto negativo: considerando che è opera di un non argentino che per giunta si è cimentato nell’impresa senza tener in nessun conto gli scritti di Jorge Abelardo Ramos. Lo stesso Ramos che già nel 1975 aveva dato alle stampe diverse edizioni di “Rivoluzione e Controrivoluzione” e di “Storia della Nazione Latinoamericana” e che si era presentato come candidato alla presidenza della Repubblica nelle fila del FIP. Un personaggio che all’epoca stava attraversando il periodo di maggior popolarità sia come politico sia come saggista storico. Shumway non poteva non conoscerlo, anche perché non si dimenticò di citare autori meno importanti, come Puiggrós o Feimann.

L’invenzione …” apprezza Artigas, ridimensiona Rivadavia e smitizza Mitre, anche se contiene delle inesattezze più o meno perdonabili (considera “positivo” il tentativo di Rivadavia di creare “uno Stato europeo nell’emisfero sud” e dichiara apertamente che José Hernández era “un rappresentante degli allevatori”, etc…). Però la disonestà intellettuale di Shumway (ossia: l’essere il rappresentante ideologico di una potenza dominante) viene fuori quando tenta di cancellare le colpe dell’imperialismo per l’arretratezza economica e per il fracasso della realtà argentina; ritenendo gli argentini come unici colpevoli dei propri mali.

En passant ammette “l’intromissione di potenze straniere come Gran Bretagna o Stati Uniti”; ma solo “l’intromissione”. Si dimentica però della colonizzazione pedagogica, dello sfruttamento e dell’appropriazione indebita delle nostre risorse naturali, né cita lo scambio ineguale. Parla solo di una piccola “intromissione”. Le denunce della nefasta subordinazione alle imprese transnazionali al Foreign Office prima e al Pentagono dopo, vengono relegate al rango di “teorie cospirative”. Shumway afferma che “i nazionalisti”, pur di non assumersi la proprie responsabilità, sarebbero capaci di demonizzare “gli inglesi, gli yankee, la CIA, il Vaticano, le multinazionali …” Tutte anime candide che non dovrebbero essere “demonizzate”, ovviamente. La tecnica per smontare il discorso dell’avversario è molto semplice: si porta all’estremo un’affermazione del rivale – in questo caso i bolivariani e “unitaristi” latinoamericani -, così facendo la si ridicolizza e quindi la si confuta facilmente. Nella fattispecie, l’imperialismo considera tutte le tendenze nazionali e antimperialiste come propugnatrici di “teorie cospirative”, una caratteristica propria del nazionalismo più arcaico, così facendo le discredita e elude di prendere in considerazione gli studi economici e sociali più seri che trattano il tema dell’occupazione straniera (Scalabrini Ortiz, gli Irazusta, Jorge Abelardo Ramos e decine di altri). Il buon cittadino nordamericano Shumway, lungi dal considerarsi un Noam Chomsky, non condanna ma anzi nasconde le responsabilità dell’imperialismo per la situazione di miseria e arretratezza in cui versano l’Argentina e l’America Latina in generale.

Durante una sua visita a Cordoba compiuta nel luglio scorso per indottrinare gli ignari cordobesi, Shumway ha nuovamente messo in mostra la sua malafede. In un’intervista rilasciata al periodico locale “La Voz del Interior” (11-07-2010), il simpatico professore yankee discredita con eccessiva disinvoltura i progetti di unificazione dell’America Latina che da sempre hanno visto impegnati le nostre migliori forze (menti); avendo la faccia tosta di affermare: “Credo che il termine Latinoamerica è molto fuorviante se lo si considera come una unità. La verità è che fa riferimento a molte nazioni differenti fra loro. Non esiste affatto una comunità capace di riunire in un tutt’uno l’insieme delle ex colonie inglesi. Sarebbe erroneo pensare di istituire un corso di cultura sui paesi anglofoni, essendo tanti e così differenti. Eppure alcuni pretendono di considerare l’America Latina come un’unità politica ed economica; in realtà non è così perché il concetto di unità va ben al di là della semplice prossimità geografica”.

Per quanto riguarda l’unità latinoamericana utilizza lo stesso metodo. Nega la possibilità del suo raggiungimento e la ridicolizza assimilandola all’impossibile tentativo di riunire “tutte le ex colonie inglesi come se fossero una cosa sola”. Avrebbe ragione se il nostro obiettivo fosse quello di unificare Argentina, Venezuela, le Filippine, le Isole Marianne (che il suo paese rubò alla Spagna nel 1898) e gli ebrei sefarditi ispanofoni… in realtà noi bolivariani non perseguiamo questo obiettivo. L’unica cosa che vogliamo è l’unità dell’America Latina; così che sembrerebbe più pertinente un parallelo non con tutte “le ex colonie inglesi”, come pretende Shumway ridicolizzando, ma solo con alcune di quelle colonie e precisamente quelle 13 colonie che si unificarono per fondare gli Stati Uniti d’America, suo paese natio. Del resto in America Latina non convivono “varie nazioni estremamente differenti fra loro”, bensì numerosi Stati molto diversi (uno dei quali, Panama, è un’invenzione dei suoi concittadini yankee); che evidentemente non è la stessa cosa. Decine di Stati però una sola Nazione Latinoamericana, la cui unità non si baserebbe esclusivamente sulla “prossimità geografica” (aspetto comunque importante considerando che anche le 13 colonie nordamericane sono geograficamente contigue, o no?) ma anche sull’economia in crescita, la cultura meticcia, la lingua spagnola parlata nella maggioranza dei paesi, l’ibridazione razziale e la religiosità popolare. In realtà, come recita lo stesso titolo dell’opera di Shumway in riferimento all’Argentina, sono “le nazioni” latinoamericane a poter essere considerate una “invenzione”; il frontespizio del libro dell’autore statunitense contiene più verità di quanta egli stesso abbia mai pronunciato. Queste “nazioni” sono un’invenzione delle oligarchie portuali delle grandi città europeizzate del litorale continentale, alleate e/o soggiogate all’imperialismo balcanizzatore di turno.

A tutto questo però l’accademico nordamericano non fa alcun cenno. Nel caso degli Stati Uniti, l’Unità rappresenta la base sulla quale fu costruito lo sviluppo del paese e della sua civilizzazione; però, come dice Trotsky, ora i civilizzatori chiudono il passo a quelli che vogliono civilizzarsi”. Shumway è appunto uno di questi “civilizzatori” ed è la voce dell’imperialismo, della CIA, dell’ALCA e del Dipartimento di Stato. Questo è quanto e tutto il resto – alcuna posizione condivisibile/corretta del suo testo – non è altro che fumo negli occhi per rendere più vendibile la sua marcia mercanzia.

Cordoba, 12 luglio 2010

(traduzione di Vincenzo Quagliariello)

* Roberto A. Ferrero è presidente del Centro de Estudios para la Emancipacion Nacional (CEPEN).

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Le altre Sakineh

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Sono ormai diverse settimane che, sulle prime pagine dei giornali di mezzo mondo, tiene banco il caso di Sakineh Ashtiani, la donna iraniana condannata a morte nel suo paese per aver assassinato, in complicità coll’amante, il proprio marito.

Fiumi d’inchiostro e di parole sono stati spesi per difendere la Ashtiani, il cui caso ha mobilitato personaggi più o meno famosi, che vanno dalla signora Carla Bruni in Sarkozy al calciatore Francesco Totti. Stridente è il contrasto col silenzio tombale che avvolge invece la sorte di molte altre “Sakineh”, donne che hanno affrontato o stanno per affrontare la pena di morte nel proprio paese.

Queste donne non hanno nomi orientali, non sono di religione musulmana e non hanno il capo velato. Incredibilmente, ciò sembra essere sufficiente perché i milioni di “attivisti dei diritti umani”, che si stracciano le vesti per la Ashtiani, si disinteressino totalmente della loro causa.

Il caso più eclatante è quello, attualissimo, di Teresa Lewis, che ha molte analogie con la vicenda della Ashtiani. La signora Lewis, infatti, è stata condannata per aver agevolato l’omicidio del marito e del figliastro al fine d’intascare il premio dell’assicurazione; gli assassini materiali sono due uomini che, per ammissione stessa d’uno di loro, hanno circuito la donna. Teresa Lewis, infatti, ha un fortissimo deficit intellettivo, dimostrato anche tramite la misurazione del quoziente d’intelligenza. Ciò malgrado, sarà giustiziata proprio in queste ore: il governatore della Virginia, Bob McDonnell, le ha rifiutato la grazia. È emblematico che il conservatore McDonnell si sia schierato apertamente in difesa dell’Ashtiani, e non stupisce che la stampa iraniana abbia sollevato il caso della Lewis, accusando quella occidentale d’applicare due pesi e due misure.

Ma il caso di Teresa Lewis è solo la punta di un iceberg, quello della pena di morte negli USA – paese non di meno tra i più impegnati nella causa pro-Ashtiani. All’inizio di quest’anno erano 3.261 i detenuti nei bracci della morte statunitensi: sei volte di più che nel 1968, il triplo del dato relativo al 1982. Dal 1900 ad oggi sono cinquanta le donne giustiziate negli USA: oltre un terzo erano nere o asiatiche, benché le loro etnie rappresentino, assieme, nemmeno il 17% della popolazione totale degli USA.

Inoltre, la storia del paese registra 364 esecuzioni di minorenni o condannati per reati compiuti durante la minore età. Nel Novecento il più giovane fu il nero George Junius Stinney Junior, ucciso nel 1944 a soli 14 anni. Il 23 marzo di quell’anno due bambine bianche furono trovate uccise nella Carolina del Sud: il giorno stesso il ragazzino di colore fu arrestato, interrogato da poliziotti bianchi in assenza del suo avvocato, ed in un’ora indotto a confessare il delitto. Il processo si tenne un mese dopo, e durò due ore in tutto: la giuria impiegò 10 minuti a raggiungere il verdetto di colpevolezza. Ottanta giorni dopo il delitto, il giovanissimo George Junius fu messo su una sedia elettrica, che l’uccise dopo circa 4 minuti d’agonia. A qualche migliaio di chilometri di distanza, le truppe statunitensi (coi neri rigidamente confinati in propri battaglioni, ma comandati da ufficiali bianchi) stavano combattendo contro la Germania nazista, in quella che sarebbe stata glorificata a posteriori come crociata anti-razzista d’una nazione che, tuttavia, a casa propria abolì la segregazione razziale solo nel 1968.

Dal 1976, anno in cui la pena di morte fu reintrodotta negli USA dopo la breve sospensione imposta dalla Corte Suprema, sono 22 le esecuzioni che hanno colpito minori all’epoca dei fatti incriminati, e talvolta persino dell’esecuzione. Il caso più recente è quello di Leonard Schockley, asfissiato in una camera a gas nel 1959, quand’era diciassettenne. Anche Schokley era nero. Nel 2005 la Corte Suprema ha proibito di comminare la pena di morte per reati compiuti durante la minore età: l’ultimo a subirla è stato quindi Scott Hain, giustiziato nel 2003.

Si è più volte sottolineata l’identità etnica dei condannati perché la questione del razzismo è spesso sollevata da chi critica il sistema giudiziario statunitense. I neri sono il 12% della popolazione, ma dal 1976 ad oggi le esecuzioni hanno riguardato per il 34% afro-americani. La tendenza non è destinata ad invertirsi, se consideriamo che il 41% degli attuali detenuti nei bracci della morte statunitense sono neri. Ancor più rilevante è la razza della vittima, dato che a tale proposito non vale l’obiezione che, forse, i neri delinquono più dei bianchi. Benché le vittime d’omicidio siano per metà bianche e per metà nere, l’80% delle condanne a morte (dal 1976 a oggi) sono state comminate per l’assassinio di un bianco.

L’omicidio non è l’unico reato punibile con la morte negli Stati Uniti d’America: sono passibili di pena capitale anche tradimento, spionaggio, terrorismo, stupro, rapimento, dirottamento, traffico di droga e spergiuro. L’ultimo condannato ad essere ucciso per un reato diverso dall’omicidio è stato il trentottenne James Coburn, nel 1964 mandato sulla sedia elettrica per una rapina. Demarcus Sears, attualmente detenuto in Georgia, potrebbe presto rubargli il poco invidiabile primato, essendo in attesa d’esecuzione dopo una condanna per rapimento aggravato.

Queste poche righe non vogliono sollevare il problema dell’accettabilità o meno della pena di morte. Su questo tema esiste un ampio dibattito, con opinioni contrapposte. Ciò che inquieta è la differenza di interesse, giudizio ed atteggiamento che l’opinione pubblica italiana (ed occidentale in genere) mostra di fronte a casi analoghi, ma riguardanti paesi diversi. La vicenda di Sakineh Ashtiani e quella di Teresa Lewis s’assomigliano fortemente: entrambe hanno aiutato il proprio amante ad uccidere il marito. Alcuni elementi, tuttavia, fanno pensare che il caso Lewis dovrebbe essere prioritario per gli oppositori della pena di morte. Infatti, la Lewis morrà in queste stesse ore, mentre il caso della Ashtiani è ancora al vaglio degl’inquirenti, e c’è pure la possibilità che finisca assolta. Si potrebbe aggiungere che la Lewis è mentalmente minorata, a differenza della Ashtiani, e ciò costituisce una sorta di attenuante per la giurisprudenza di numerosi paesi.

Eppure, tutte le voci o quasi si sono alzate solo per la Ashtiani. Cosa ha determinato questa differenza di trattamento, questo rovesciamento di priorità logiche? Presumibilmente, il comportamento dei media di massa. Il caso della Lewis ha valicato i confini degli USA solo negli ultimi giorni, mentre quello della Ashtiani tiene banco da settimane. Inoltre, vuoi per incompetenza vuoi per malafede, numerose sono state le imprecisioni giornalistiche nel raccontare la vicenda iraniana. Ancora oggi certi cronisti affermano che Sakineh Ashtiani sarebbe stata condannata (in realtà deve ancora arrivare la sentenza definitiva) per “adulterio” (in realtà per complicità in omicidio) alla “lapidazione” (in realtà rischia l’impiccagione: dal 2002 in Iràn c’è una moratoria su questa forma particolarmente brutale ed odiosa di esecuzione). Non è difficile capire perché i principali media di paesi del Patto Atlantico abbiano dato tanto risalto (e tanta distorsione) al caso Ashtiani, mentre con incredibile freddezza hanno taciuto del caso Lewis fino a pochi giorni prima dell’esecuzione. E non è difficile capire perché l’opinione pubblica di quei paesi si mobiliti facilmente in difesa d’una condannata del paese musulmano, ignorando la sua omologa del paese cristiano. Perché è più facile vedere la pagliuzza nell’occhio altrui, che ammettere d’avere una trave nel proprio.

* Daniele Scalea, redattore di “Eurasia”, è autore de La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali (Fuoco, Roma 2010).


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Sebastián Cutrona, La extranjerización de las zonas de seguridad en la República Argentina

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Sebastián Cutrona

La extranjerización de las zonas de seguridad en la República Argentina
Una aproximación a la situación de la region patagónica

Centro de Estudios Avanzado
Córdoba, 2010

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La Cina e la “perla” di Gwadar

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Le strategie cinesi nel contesto del nuovo “great game” che si sta giocando nelle acque dell’Oceano Indiano.

L’evento geopolitico caratterizzante degli ultimi anni è senz’altro l’ascesa della Cina. A partire dal 1979, con le liberalizzazioni introdotte da Deng Xiaoping, la Cina è cresciuta ad una velocità senza paragoni, divenendo così, complice il fatto di possedere una popolazione da 1,4 miliardi di abitanti, la seconda economia al mondo in termini assoluti.

Essa è inoltre la maggiore detentrice di riserve di denaro, il maggior produttore mondiale di beni, il secondo consumatore ed è subito dietro gli Stati Uniti per quel che concerne le spese militari (che, seppur ancora molto distante da quella statunitense, cresce a tassi dell’ordine del 14%).

Tutti questi elementi non possono che provocare serie ripercussioni sugli scenari internazionali, spostando i tradizionali equilibri e dando vita a nuove frizioni e nuovi schieramenti.

Tuttavia, occorre dire che la crescita cinese, è finora avvenuta in un clima pacifico che ne ha favorito l’espansione economica e che ha tranquillizzato gli altri attori internazionali. La Cina infatti, aveva ed ha tuttora troppo bisogno di pace e di buoni rapporti con gli altri paesi per poter consolidare una crescita tanto più necessaria, se si considerano i gravi disordini sociali interni e le dispute territoriali che la vedono coinvolta. Infatti, solamente una crescita sostenuta può permettere a Pechino di gestire in relativa tranquillità certe situazioni.

Nonostante dunque una politica per certi versi accondiscendente specie in relazione agli USA, comincia a delinearsi una strategia cinese di ampliamento della sua sfera d’influenza che finirà, molto probabilmente, col creare tensioni con gli altri attori internazionali.

Si prenda ad esempio l’intensificarsi della presenza cinese in Africa.

Gli interscambi con questo continente sono aumentati del 45% negli ultimi anni. Si prevede inoltre il raddoppio degli aiuti ai paesi africani con l’erogazione di 3 miliardi di prestiti preferenziali e 2 miliardi di crediti all’importazione di prodotti cinesi.

Pechino detiene delle relazioni diplomatiche molto strette con paesi quali il Sudan (il quale fornisce alla Cina l’8% del greggio che le occorre), lo Zimbabwe di Mugabe e l’Angola.

Senza soffermarsi sugli effetti ambigui di tali aiuti (i quali, pur costituendo una boccata d’ossigeno per le economie africane, finiscono spesso per rimpinguare le tasche di leader violenti e autoritari) non si può non notare come tale offensiva cinese vada a toccare zone d’influenza tradizionalmente attribuite a paesi come Usa, Gran Bretagna e Francia.

Stesso discorso e in misura forse anche maggiore, vale per l’America Latina e le isole del Pacifico poco distanti dal confine statunitense (Papua Nuova Guinea, Isole Salomone, Tonga), dove la Cina è riuscita ad accrescere la sua influenza, sfruttando l’enorme disponibilità di denaro a sua disposizione e il fatto di poterlo elargire senza interrogarsi sulle finalità per cui questo sarà utilizzato.

È dunque evidente come Pechino, spinta soprattutto dal suo crescente fabbisogno di materie prime, stia cercando di stringere rapporti privilegiati con paesi in grado di soddisfarla.

Discorso a parte andrebbe fatto invece per la sua influenza in Asia e dunque, nella sua area di vicinato. A tal proposito, occorre sottolineare come, utilizzando la sua forza politica ed economica in maniera indulgente e mantenendo un basso profilo, la Cina sia riuscita a migliorare le sue relazioni con i Paesi dell’area. Essa ha assunto una linea politica più accomodante, ha offerto lauti pacchetti di aiuti e si è mossa verso la creazione di una zona di libero scambio in ambito Asean.

Occorre sottolineare come Pechino sia riuscita anche a migliorare il suo rapporto col nemico storico, il Giappone, paese su cui si è sempre basato il nazionalismo cinese. Nel 2008 infatti, Hu Jintao e l’ex primo ministro giapponese Fukuda (l’attuale premier è il democratico Naoto Kan), hanno firmato un documento congiunto che riassume l’impegno dei due Paesi a rafforzare la mutua cooperazione sulla base di un ‘rapporto strategico di reciproca convenienza’.

Alla incontenibile crescita economica sta dunque seguendo la messa in pratica di una strategia tesa, da una parte a far sì che tale crescita non venga penalizzata dalla scarsità di materie prime e dall’altra, a ad accrescere la sua influenza politica su territori ritenuti strategici.

A tal proposito, la Cina è impegnata in un’opera di ristrutturazione e ammodernamento industriale e militare (concentrando i suoi sforzi su alcuni reparti aerei, navali e terrestri d’élite e tecnologicamente avanzati e alla componente strategica e tattica missilistica) e ha costruito la propria rete di potere geopolitico, assicurandosi il controllo o la semplice presenza in numerose aree strategiche (Thailandia, Myanmar, Sri Lanka, Cambogia).

Nella sua collezione di perle spicca il porto di Gwadar, territorio situato nella regione meridionale pakistana del Belucistan.

La strategia cinese della “collana di perle”: il porto di Gwadar

Storica via di comunicazione tra Medio Oriente e India, Gwadar è appartenuta al sultano dell’Oman fino al 1958, anno in cui è stata venduta al Pakistan per il valore di 3 milioni di sterline.

Nel 1992, il governo di Nawaz Sharif decise di costruirvi un porto e questo progetto ha subito una decisa accelerazione sotto Musharraf.

Gwadar ha assunto un rilievo sempre maggiore in questi ultimi anni a causa dell’interessamento mostrato da parte dei maggiori attori internazionali, in primo luogo, della Cina.

Pechino ha investito circa 200 milioni di dollari sulla costruzione di questo porto (la quale è cominciata nel 2002 ed è stata realizzata in tempi tanto brevi da renderlo operativo già nell’ottobre 2008) e ci si interroga dunque sugli scopi che l’hanno spinta a tale investimento.

Tanto per cominciare, la Cina è sprovvista di un porto in acque calde, il quale possa essere utilizzato tutto l’anno. Inoltre, Gwadar è piuttosto vicino al confine cinese (regione dello Xinyang) e potrebbe dunque inserirsi nel progetto del governo cinese del “go west”, teso a ridurre le differenze di sviluppo tra regioni orientali e occidentali e fermare le conseguenti migrazioni che creano non pochi problemi di ordine sociale.

Gwadar è inoltre situato in una zona assolutamente strategica: esso è divenuto la principale scelta cinese per il commercio di petrolio, dato che Hormuz si sta sempre più congestionando. Circa l’80% delle importazioni cinesi di greggio transita attraverso lo stretto di Malacca, il quale sta diventando sempre più insicuro a causa dei frequenti attacchi dei pirati. La posizione di Gwadar, a 400 km dagli stretti di Hormuz, fornisce alla Cina un’alternativa importante allo stretto di Malacca.

Il forte interessamento cinese nei confronti di Gwadar è inoltre probabilmente dovuto alla possibilità di possedere una postazione privilegiata da cui monitorare le attività della marina statunitense nel Golfo Persico, quelle indiane nel Mare arabico e l’eventuale cooperazione indo-statunitense nell’Oceano Indiano.

Strozzati da un filo di perle

I timori di Stati Uniti ed India sono evidenti. I primi temono che Gwadar possa costituire un altro passo importante nella strategia cinese di detenere una sempre maggiore influenza sull’area e sono inoltre sospettosi circa le relazioni intrattenute tra Pechino e Islamabad. Inoltre, dal punto di vista del Pentagono, ma anche della Nato, dopo la perdita del Khyber Pass nel nord-ovest del Pakistan, Gwadar sarebbe stata la via ideale per il rifornimento per le truppe di stanza nell’Afghanistan occidentale.

L’India condivide parte dei timori statunitensi e percepisce la collaborazione sino-pakistana in termini assolutamente negativi. Essa inoltre, teme di perdere posizioni per quel che concerne i traffici marittimi regionali ed è per questa ragione che si è impegnata nello sviluppo del porto iraniano di Chabahar e di una strada che lo metta in comunicazione con l’Afghanistan, ottenendo così accesso ai paesi dell’Asia centrale e bypassando il territorio pakistano.

Le preoccupazioni indiane si sono fatte ancora più fondate dopo la firma di un accordo dal valore di centinaia di milioni di dollari, tra Cina e Sri Lanka, per lo sviluppo della Hambantota Development Zone. Questo progetto, finanziato per l’85% dalla Cina e riguardante, tra le altre cose, anche la costruzione di un aeroporto e di una raffineria da ultimare entro il 2015, costituisce una vera e propria spina del fianco nella zona di vicinato dell’India e dunque, una potenziale minaccia per la sua sicurezza.

È dunque fuori discussione l’importanza strategica del porto di Gwadar. E negli ultimi mesi, tutto ciò si è reso palese agli occhi di tutti.

Lo scorso giugno infatti, Iran e Pakistan hanno siglato uno storico accordo per la costruzione di un gasdotto che dovrebbe trasportare 150 milioni di metri cubici al giorno di gas iraniano del ricco giacimento di Pars Sud per i prossimi 25 anni.

Il valore dell’accordo si aggira intorno ai 7,5 miliardi di dollari e comporterebbe delle importanti conseguenze a livello geopolitico.

Infatti, la costruzione di questo gasdotto costituirebbe un’alternativa ad altri due progetti: l’uno – il TAPI (Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India), detto anche “gasdotto della pace”, supportato dagli Stati Uniti- e l’altro – l’IPI (Iran, Pakistan , India), sostenuto attivamente dalla Russia.

Un gasdotto che collegasse Iran e Pakistan rappresenterebbe dunque una sconfitta per gli USA, i quali avrebbero preferito accentuare l’isolamento iraniano attraverso una maggiore integrazione degli altri paesi dell’area asiatico – mediorientale.

Statunitensi ed europei stanno infatti cercando di indebolire economicamente il regime di Teheran e questo gasdotto potrebbe invece vanificare, almeno parzialmente, questo loro tentativo. Infatti, qualora il gasdotto venisse prolungato per raggiungere l’India o la Cina, creerebbe una dipendenza politica ed economica di uno di questi paesi nei confronti dell’Iran e rimpinguerebbe le casse del tesoro iraniano.

Per quanto riguarda l’India, essa aveva deciso, in un primo momento, di partecipare a questo progetto. Tuttavia, ragionamenti soprattutto politici l’hanno spinta, almeno per il momento a tirarsene fuori. Essa infatti, non potrebbe tollerare di essere dipendente da Teheran per la fornitura e dal governo pakistano per la distribuzione del gas. Inoltre, su questa sua scelta potrebbero aver influito le pressioni del governo nord-americano il quale, non potrebbe tollerare un tale legame a doppio filo tra New Delhi e i suoi poco affidabili vicini. La situazione potrebbe però cambiare nei prossimi anni, considerando che in India ci sono al momento 400 milioni di persone che soffrono la scarsità di energia.

Allo stesso tempo, questo progetto costituisce l’ennesimo colpo per le ambizioni europee circa una maggiore diversificazione delle sue fonti di approvvigionamento. In effetti, venendo meno il gas iraniano ed essendo già venuto a mancare quello dell’Asia centrale per via degli accordi stretti da questi paesi con Russia e Cina, non ci sarebbero più molte speranze per il Nabucco di trovare delle valide soluzioni alternative. L’altra faccia della medaglia, vede dunque una Russia che , perduto il monopsonio che deteneva in Asia Centrale (per via dell’ingresso poderoso della Cina), vede però rafforzata la sua posizione di forza nei confronti del vecchio continente, sempre più dipendente dalle sue risorse.

Tuttavia, il paese che trarrebbe maggiori benefici da questo accordo è certamente la Cina.

Il gas iraniano affluirebbe verso il porto di Gwadar e da qui, potrebbe transitare verso i territori cinesi attraverso infrastrutture finanziate proprio dal governo di Pechino.

Il Pakistan è assolutamente il corridoio di transito ideale (il più breve) per la Cina al fine di importare petrolio e gas dall’Iran e dal Golfo Persico. Con la costruzione dell’IP, e con i multimiliardari accordi per la vendita di gas fra Teheran e Pechino, la Cina si potrebbe finalmente permettere di importare meno energia attraverso lo Stretto di Malacca, che Pechino considera eccessivamente pericoloso, e soggetto alla sfera di influenza di Washington.

Molto di quel che si è detto dipenderà da almeno due fattori: la raccolta dei fondi necessari (7,5 miliardi di dollari che potrebbero venire da Gazprom, la quale si è detta molto interessata al progetto, ma questo non è certo) e, soprattutto, la capacità del governo pakistano di regolare la situazione del Belucistan.

Gli ostacoli al progetto

Situata a sud del Pakistan, questa regione ha da sempre nutrito delle mire indipendentistiche e negli ultimi anni, gli scontri col governo centrale sono aumentati notevolmente.

Per spiegare le ragioni di questa tensione si dovrebbe forse risalire al 1893, anno in cui gli inglesi tracciarono la linea di divisione tra Afghanistan e Pakistan (Linea Durrand) e divisero di fatto la popolazione belucia in 3 diversi Stati (Afghanistan, Pakistan e Iran). Senza spingersi tanto indietro, basti sapere che le controversie derivano dalle lagnanze di questa regione nei confronti di un governo centrale colpevole di sfruttare le importanti risorse naturali di cui essa gode, senza darle nulla in cambio. Il Belucistan è infatti la regione più povera del Pakistan.

I ribelli beluci (nonostante una parvenza di tregua derivante dal fatto che nelle elezioni del 2008 abbia ottenuto la vittoria il PPP, tanto a livello nazionale, quanto a livello regionale) potrebbero prendere di mira il gasdotto, così come fanno da anni per tutte le infrastrutture (condutture dell’acqua e dell’energia) che attraversano il loro territorio. In questo modo, ci sarebbero nuove chances per la costruzione del TIPI, il quale non può però prescindere da una stabilizzazione della situazione afghana (dovrebbero infatti passare per Herat, Afghanistan occidentale).

E’ dunque essenziale un’azione del governo di Islamabad tesa a risolvere le tensioni e stemperare il clima di odio instauratosi a livello nazionale, specie tra beluci e punjabi.

In questa operazione potrebbe avvalersi, o comunque essere spinta, dal governo cinese. Questo infatti, oltre a nutrire ingenti interessi economici in questi territori, non potrebbe mai tollerare un’eventuale secessione del Belucistan dal Pakistan poiché ciò la priverebbe di un importante sbocco sull’Oceano indiano ed inoltre, questo costituirebbe un modello da cui gli uiguri della regione dello Xinyang potrebbero trarre ispirazione.

Tuttavia, oltre al separatismo belucio, a rendere molto delicata la situazione di questa regione, si aggiunge oggi la palpabile tensione tra Pakistan e India.

Il governo di Islamabad infatti, accusa New Delhi di fomentare la ribellione al fine di destabilizzare e dunque indebolire il paese. A questo proposito, i pakistani sottolineano la presenza, ad esempio, di ben 26 uffici consolari lungo il confine tra del Pakistan con Iran e Afghanistan. Essi temono infatti che questi uffici nascondano delle basi organizzative in cui si coordina e si finanzia l’azione degli indipendentisti beluci. D’altra parte, le dichiarazioni rilasciate da taluni esponenti beluci circa la riconoscenza nutrita dalla popolazione nei confronti dell’India, unico paese che si curerebbe realmente delle loro esigenze, non fanno che alimentare i sospetti di Islamabad.

Conclusioni

Il porto di Gwadar costituisce dunque uno snodo molto importante per i traffici marittimi e in prospettiva potrebbe divenire un fondamentale hub regionale, il cui possesso sarebbe in grado di alterare la distribuzione della potenza e dell’influenza regionale.

Esso quindi coagula attorno a sé molte tensioni e ci permette inoltre di cogliere le redistribuzioni di potere che sono in atto a livello globale: una Cina sempre più assertiva, gli Stati Uniti che arretrano, un’Europa incapace di incidere e tutti gli altri che tentano di trarre il massimo vantaggio dalle singole situazioni.

Tuttavia, aldilà delle questioni geopolitiche, appare evidente come Gwadar possa costituire una doppia opportunità per il Pakistan.

Da una parte, esso potrebbe trarre consistenti benefici economici dal transito di materie prime che sarebbero poi indirizzate verso la Cina (si stima che il paese potrà contare su entrate dell’ordine di 500 milioni di dollari all’anno per i soli diritti di transito) e potrebbe dunque accelerare la sua crescita economica. Inoltre, esso risolverebbe, per diversi decenni, il problema dell’approvvigionamento energetico.

In secondo luogo, Islamabad deve essere capace e soprattutto, avere la volontà, di spartire con la popolazione belucia parte delle entrate economiche, in modo da sollevare la regione dalla drammatica situazione socio-economica in cui versa.

In questo modo, ci sarebbero benefici immediati per la stabilità del paese poiché è probabile che le mire indipendentiste subirebbero un indebolimento.

Inoltre, un Belucistan più stabile gioverebbe a tutta la comunità internazionale e sarebbe un passo importante nella lotta contro il terrore. Infatti, se questa regione dovesse restare nell’attuale situazione di disperazione, diventerebbe sempre più vulnerabile nei confronti dei richiami dell’estremismo islamico, con immediate ripercussioni negative su tutta quanta la regione e non solo.

* Daniele Grassi, dottore in Scienze Politiche presso la LUISS “Guido Carli” e attualmente ricercatore presso l’Istituto di Studi Strategici di Islamabad.

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Pio Filippani Ronconi, Zarathustra e il mazdeismo

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Pio Filippani Ronconi, Zarathustra e il mazdeismo, Irradiazioni, Roma 2007

Pio Filippani Ronconi ci presenta l’esordio della “leggenda di Zarathustra” sullo sfondo di un Iran che, secondo una prospettiva squisitamente spirituale, corrisponde alla “terra centrale”: quel settimo karshvar della geografia sacra mazdaica che la tradizione iranica identifica col mitico Airyanem Vaêjô. “La tradizione religiosa – egli avverte – non poteva ammettere la nascita, o la rivelazione, del Profeta, in altro luogo sulla terra che in un sito sacerrimo e puro, una specie di umbilicus mundi, ove gli archetipi divini immediatamente si riflettessero nella realtà terrena” (p. 56). In casi come questo, spiega ulteriormente l’Autore, la terminologia neopersiana ricorre all’espressione “luogo del senza-dove” (na-kojâ âbâd), tipica di una “geografia dell’anima” in cui il reperimento di regioni e contrade “è soprattutto un atto di orientamento spirituale” (p. 58). Da questa originaria sede degli Ariani, bagnata dalle acque paradisiache, il messaggio profetico primordiale si diffonderà nel territorio storico dell’Iran, fulcro del primo grande impero eurasiatico, esteso fra la Tracia ed il Turkestan.

Ad illuminare il significato metapolitico di questo impero è la stessa dottrina mazdaica. In base ad essa, le generazioni persiane successive a quelle di Ciro II e di Dario figlio d’Istaspe “ravviseranno nel Gran Re (xshâyathiya vazraka), Re dei Re (xshâyathiya xshâyathiyânâm), l’immagine riflessa sulla terra e attualizzata nel presente” (p. 82) di Yimô Xshaêtô.  E’ questi il Re Primordiale, epifania vivente del principio solare che discende sulla terra, il cui mito costituisce per l’Iran il fondamento della morale e della politica: “la primordiale condizione di vita celeste in terra che il mito ario attribuisce a Yimô Xshaêtô” (p. 201) è lo scopo delle lotte e delle sofferenze affrontate con animo eroico dall’uomo consapevole e responsabile. La possibilità di realizzare sulla terra l’originaria natura celeste è simboleggiata dalla figura paradigmatica del Re, il quale deriva la propria saggezza e forza dall’aureola di gloria (hvarenô) che Ahura Mazdâh gli conferisce, dopo averla tratta dalle Luci Infinite. Questo trascendente principio di luce è “la forza motrice del mondo, incarnatasi con particolare purezza nella persona del re, e, come particella divina, presente in ogni uomo” (p. 144).

Fu proprio con Zarathustra che la religione ario-iranica sviluppò “un orientamento energicamente monoteistico” (p. 191). Fra i testi avestici, infatti, sono proprio le Gâthâ (i “Canti” in cui consiste la parte più autentica del messaggio zoroastriano), quelli in cui scompare ogni residua menzione della pluralità degli dèi. Ciò consentirà all’Islam di annoverare Zarathustra nel novero dei profeti e l’Avesta tra i libri rivelati prima del Corano, sicché l’Iran ci attesta in maniera caratteristica la possibilità della Sophia perennis di esprimersi attraverso la molteplicità delle sue forme storiche.

Editrice Irridazioni – Roma
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La Russia e gli echi di guerra fredda all’indomani dei grandi incendi

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Quella del 2010, è un’estate che in Russia, difficilmente verrà scordata. Ricordiamo tra luglio e agosto, l’imperversare nell’area occidentale del paese di incendi devastanti con almeno 368 focolai. A fine luglio le vittime accertate erano quasi una trentina, ad agosto i fumi erano arrivati a Mosca. La Russia, che è il terzo produttore mondiale di grano, ne vede sparire nel giro di poco una quantità stimata intorno a un quarto del raccolto. Nel tentativo di calmierare i prezzi interni, il 15 luglio entra in vigore un embargo sulla sua esportazione, la cui durata è prevista fino almeno al 31 dicembre. Sono seguite la paura che gli incendi si estendessero fino alle foreste di Chernobyl, contaminate dalle radiazioni, e l’imposizione del silenzio a medici e obitori sulla dichiarazione del numero effettivo di vittime.

Di tutto questo si è ampiamente parlato a mezzo stampa e ad oggi, l’autunno è arrivato e l’allarme rientrato da tempo. Meno si è parlato, del fatto che l’11 agosto, nella generale confusione, la Federazione Russa abbia sospeso i test sui missili Iskander. Gli incendi si propagavano a poco più di un centinaio di km da Mosca e il centro di ricerca di Kolomna poteva correre dei rischi. Meno chiare le ragioni che hanno portato al pressoché immediato spostamento dei missili S-300 nel territorio dell’Abkhazia.

Cos’è il Programma Iskander

Gli Iskander sono missili a lunga gittata con un raggio d’azione di oltre 500 km. Insieme al sistema di difesa aerea e anti-missilistica S-400 Triumf, fanno parte delle nuove tecnologie militari studiate per contrastare lo Scudo Spaziale americano. L’idea di Scudo Spaziale, o meglio la Strategic Defense Initiative nasce nel 1983 con Ronald Reagan, e trova le sue ragioni in un contesto, all’epoca, dominato dalla Guerra Fredda.

A quasi trent’anni di distanza, equilibri geopolitici e priorità sono cambiati: l’11 settembre 2001, la Global War on Terrorism e la nascita di nuovi fronti in Afghanistan e Iraq, hanno portato gli Stati Uniti a spostare timori e attenzioni verso l’asse dei cosiddetti stati canaglia. Questa, ufficialmente, la ragione che ha portato nell’agosto del 2008 a siglare un accordo con Polonia e Repubblica Ceca per l’installazione, nei loro territori, di basi di sistema di difesa anti-missilistica. Restano ovviamente dei dubi leciti circa l’effettiva coerenza tra la misura adottata e lo scopo dichiarato, a meno che il programma di installazione missilistica non nasconda invece altre ragioni, di natura strategica.

Solo una manciata di giorni prima infatti, l’8 agosto, la Russia di Medvedev attaccava la Repubblica transcaucasica della Georgia, rea di aver oltrepassato i confini della ribelle Ossezia Meridionale, invaso la capitale, devastato villaggi. Seguiva la smentita del presidente georgiano Saakishvili e l’ accusa alla Russia di attacco indiscriminato.

Le dinamiche non sono effettivamente mai state chiarite. Resta comunque difficile pensare che l’accelerata americana sullo schieramento dei missili balistici in territorio Ceco e Polacco, sia completamente slegata dalla crisi caucasica e dal massiccio ricorso russo alle armi.

Solo anno dopo, nel gennaio 2009, il contesto geopolitico era già nuovamente mutato. Il neo-eletto presidente americano Barack Obama non sembrava più intenzionato a installare le difese anti-missilistiche in territorio ceco e polacco, e Mosca decise così di sospendere il dispiegamento di missili nel territorio di Kaliningrad (tra Polonia e Lituania).

Perché dunque, in un momento in apparenza fertile per la distensione dei rapporti, spostare gli S-300 in Abkhazia? Cioè in una regione dalle forti spinte indipendentiste, alle porte della filo-americana Georgia e della filo-russa e sempre tumultuosa Ossezia?

Uno sguardo su Abkhazia, Ossezia e Georgia (*)

Conosciuta in epoca sovietica come Repubblica socialista sovietica georgiana, la Georgia si è dichiarata indipendente nel 1991. Insieme ad Armenia e Azerbaigian fa parte delle Repubbliche indipendenti del Caucaso Meridionale.

Le regioni di Abkhazia e Ossezia del Sud, con essa confinanti, da tempo si appoggiano alla vicina Russia nel tentativo di liberarsi completamente dall’influenza georgiana. Pur con le rispettive peculiarità, in entrambi i casi si può parlare di regioni su cui la Georgia rivendica la propria autorità, ma indipendenti de facto.


Pur mantenendo Abkhazia e Ossezia Meridionale quali interlocutori privilegiati nel Caucaso del Sud, fino a tempi recenti Mosca ha sempre badato a non sbilanciarsi eccessivamente. Questa politica ambigua è riconducibile alla difficoltà di mantenere saldo il controllo su un impero multietnico, e in secondo luogo all’esigenza di mantenere aperte le porte della diplomazia con paesi come Georgia e Azerbaigian, grandi protagonisti dei nuovi scenari in politica energetica.

In questo senso, le inaugurazioni della pipeline Baku-Supsa nel 1999, e della Baku-Tblisi-Cheyan nel 2006, non hanno certo contribuito a una distensione dei rapporti. Queste linee infatti coinvolgono rispettivamente Azerbaigian e Georgia, e Azerbaigian, Georgia e Turchia, by-passando completamente grandi interlocutori come Armenia, e soprattutto Russia e Iran.

Che un deterioramento dei rapporti senza appello tra Russia e Georgia fosse già in atto, era stato già esplicitato dalle elezioni georgiane del 2004, con la clamorosa ascesa al potere del favoritissimo Mikheil Saakishvili nell’ambito della cosiddetta Rivoluzione delle Rose.

Ampliando il quadro, si può dire che il biennio 2004-2005 è stato segnato dalle rivoluzioni più significative di questo nuovo secolo. La già citata Rivoluzione delle Rose in Georgia, l’onda della Rivoluzione Arancione all’indomani delle presidenziali ucraine, la Rivoluzione dei Tulipani in Kirghizistan, e il tentativo abortito di rivoluzione in Moldavia.

Il desiderio di distacco delle ex Repubbliche sovietiche dalla sfera d’influenza russa, all’insegna di un progressivo spostamento politico e ideologico verso ovest, sembrava inarrestabile. Difficilmente Mosca poteva non sentirsi minacciata.

Anche a questi elementi, e all’appoggio costante degli Stati Uniti alla tendenza al distacco dall’ex URSS, è da ricondurre lo scoppio del conflitto-lampo del 2008, e l’esacerbarsi generalizzato dei rapporti Russia-Georgia.

I Missili di Ieri e quelli di Oggi

La questione del programma missilistico Iskander in contrapposizione alla Strategic Defense Initiative, ricorda scenari che pensavamo di esserci lasciati alle spalle con la caduta del Muro di Berlino. Anzi, un attimo prima.

Risale al 1987 il trattato INF tra Ronald Reagan e Mikhail Gorbačëv. Con esso, si metteva la parola fine alla questione degli Euromissili.

Si trattava ai tempi, di missili nucleari installati da USA e URSS su territorio europeo. Il conflitto era freddo, ma dichiarato, si trattava di una sfida tra le due superpotenze che ha poco a che fare con la composita situazione geopolitica attuale, ricca peraltro di elementi e agenti nuovi.

Inoltre, la corsa agli armamenti degli anni ’70-’80, è stato uno degli elementi che hanno concorso al logoramento dell’economia russa, e ad accelerare il percorso verso lo sfascio dell’Unione Sovietica. Difficile immaginare, anche dopo il pesante colpo inferto dagli incendi estivi, che la Russia di Medvedev e Putin possa arrivare a trovarsi in una analoga situazione.

A poco più di vent’anni di distanza, sembra comunque che quella chiusura sia stata portata avanti più su un piano teorico che pratico. La rincorsa agli armamenti e la ricerca militare non sono mai cessate, così come la conquista di nuovi spazi strategici in cui inserire basi militari.

Conclusioni

Per quanto sia azzardato parlare di una seconda Guerra Fredda, i segnali sembrano quelli di una politica fatta ancora in buona parte con lo schieramento contrapposto degli armamenti e portata avanti grazie agli strascichi di quella teoria della Distruzione Mutuale Assicurata che accompagnò la storia degli Euromissili.

La sempre presente, e attualmente irrealistica, aspirazione della Georgia ad affermarsi come potenza autonoma e ad entrare nell’Unione Europea; i movimenti interni che vedono Abkhazia e Ossezia del Sud spingere per slegarsi ufficialmente dalla Georgia e, nel caso dell’Ossezia del Sud, tornare a far parte della Federazione Russa; la presenza, sin dal 2002, di militari americani in territorio georgiano, sono tutti elementi che concorrono a mantenere la situazione in uno stato di stallo e tensione.

Anche se la situazione in Abkhazia non è chiara, il fatto che Mosca oggi abbia deciso di spostare i suoi S-300 in territorio caucasico, dimostra che gli apparenti presupposti di distensione non hanno ancora una base solida. E difficilmente potrebbero averla, dato il frammentato panorama transcaucasico, per affrontare il quale sembra ancora non esistere un piano politico preciso che non preveda risvolti militari.

(*) Per le note storiche relative alla Georgia si veda “Caucaso. Popoli e conflitti di una frontiera europea”, Aldo Ferrari, Edizioni Lavoro.

* Ginevra Lamberti è laureanda in Lingue e Culture dell’Eurasia e del Mediterraneo (Università Ca’ Foscari di Venezia)

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Egitto: gli ultimi giorni del Faraone

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L’Egitto di Muhammad Husnī Mubārak è in ginocchio. Silenziosamente sta vivendo un periodo caratterizzato da caos e violenza, una fase molto simile a quella vissuta dall’Iran pre-rivoluzionario, quando il governo dello scià stava per essere rovesciato dalla rivoluzione khomeinista. Come avvenne nel 1979 a Teheran la legittimità dello Stato egiziano è messa totalmente in discussione, mentre si fa strada un combinato di malcontento popolare e fervore islamico.

Per la prima volta non sono scesi in piazza soltanto i pochi tartassati militanti per i diritti umani, contro Mubarak non lavorano silenziosamente solo i Fratelli Musulmani (la formazione politica islamica che il presidente da trent’anni fa cuocere a fuoco lento), ma anche diverse classi sociali hanno cominciato a ribellarsi e a ricorrere agli scioperi per fare pressione sul governo a difesa dei loro interessi.

Il grande colosso arabo è in fermento almeno dal 2005, quando il movimento per il cambiamento, Kifaya (in arabo significa ‘abbastanza’), avendone letteralmente abbastanza del regime è sceso più volte in piazza al Cairo, prendendo di mira il presidente accusato di impedire al Paese di evolversi e di ostruire il processo per il ricambio generazionale.

Un fenomeno di questa portata è nuovo per l’apatica società egiziana: mai sentita una sola espressione di collera da parte della società civile, ad eccezione delle manifestazioni degli studenti universitari duramente represse, quindi, progressivamente diminuite.

Tra le ragioni che hanno portato alla trasformazione del movimento sociale egiziano, e favorito le classi sociali ad uscire dal loro abituale silenzio ve ne sono due sostanziali:

La prima è l’estrema durezza delle condizioni di vita che gravano su queste fasce sociali. La classe media si è impoverita, ed i poveri sono ormai schiacciati; la seconda ragione è il ruolo esercitato dai giornali indipendenti e di opposizione nel criticare le autorità e nello smascherare le sue pratiche che ha incoraggiato le masse a svegliarsi ed a far sentire la propria collera senza timore.

Sotto Mubārak, soprattutto negli anni novanta, l’Egitto ha conosciuto una pericolosa escalation del terrorismo estremista islamico che avevano come obiettivi non solo simboli istituzionali, ma la stessa popolazione egiziana e soprattutto gli stranieri (1). La cieca furia del terrorismo ha tuttavia isolato gli islamisti presso la stessa maggioranza musulmana della popolazione. Questa perdita di contatto con la base popolare ha condotto a una sconfitta del terrorismo interno. La repressione capillare condotta dalle forza di polizia e dall’esercito ha fatto il resto. Nonostante lo Stato di Mubārak sia uscito rafforzato dalla lotta contro il terrorismo, conserva parecchie debolezze: le difficoltà permanenti dell’economia e le continue sperequazioni sociali; le inquietudini della società civile, ansiosa di una maggiore democratizzazione; la fragilità dell’assetto istituzionale; la diminuzione del peso dell’Egitto sul piano della diplomazia internazionale (2).

Il 2005 è stato l’anno della svolta: il vecchio sistema politico egiziano era caratterizzato da uno stesso capo di Stato dall’assassinio di Sadat nel 1981, una successione incerta, un sistema politico bloccato, una burocrazia corrotta, un partito di maggioranza (il Partito nazionale democratico) ridotto ormai a “cinghia di trasmissione” del potere presidenziale. Le elezioni che si svolsero tra ottobre e dicembre di quell’anno portarono la Fratellanza musulmana a diventare il secondo gruppo parlamentare dell’Assemblea del popolo. Per la prima volta da molti anni esisteva, quindi, in Egitto un’opposizione. L’imprevisto successo ottenuto da questo movimento ha spaventato in primis gli Stati Uniti che hanno quindi immediatamente smesso di insistere sulla democratizzazione egiziana, consentendo al raìs di escludere questo movimento dalle elezioni legislative del 2007. (3)

L’Egitto di oggi sta vivendo una situazione particolare: una crisi politica e partitica. Al suo interno vi sono 24 partiti riconosciuti, ma non esiste una vita politica vera e propria. Vi sono elezioni parlamentari ed elezioni locali, vi è un Consiglio del Popolo e un Consiglio della Shura (i due rami del parlamento egiziano), e vi sono dei consigli locali. Nonostante ciò, non vi è alcuna partecipazione politica, alcuna alternanza al potere, alcun controllo sull’operato del governo (4).

I partiti vengono fondati solo con il beneplacito delle forze di sicurezza, e non dall’appoggio popolare. È dunque l’autorità statale che costituisce i partiti, e non i partiti che danno vita all’autorità statale. L’altro problema fondamentale è che essi, in base alla legge, non possono svolgere il ruolo di un partito , cioè entrare in contatto con la società: non possono organizzare un comizio o un incontro popolare al di fuori della propria sede. Essi sono continuamente sottoposti al controllo ed alla censura. Qualsiasi deviazione da questo contesto espone il partito o alla chiusura ed al sequestro da parte del governo oppure si fa esplodere il partito alimentando le divisioni interne.

Ciò che è accaduto con i partiti si sta ripetendo con i sindacati. Vi sono sindacati sospesi ormai da almeno 16 anni, fra cui si possono ricordare quello dei medici, ingegneri, dei farmacisti, dei dentisti, degli insegnanti, dei commercianti e degli agricoltori.

In sostanza, il regime non si è accontentato soltanto di monopolizzare il potere, ma ha voluto “nazionalizzare” il settore pubblico, affinché nessuna voce in Egitto si levasse al di sopra di quella del partito di governo.(5)

Nel 2011 scadrà il sesto mandato presidenziale del longevo faraone. Nel corso del suo lungo regno Mubarak ha reso l’Egitto un sistema apparentemente impermeabile al cambiamento, infrangibile e invulnerabile, impassibile a qualsiasi sfida politica. Il faraone è alla fine non solo del suo mandato, ma forse anche dei suoi giorni, anche se il segreto della sua malattia viene tenuto nascosto. L’Egitto e tutta la regione si interrogano non su un fenomeno inevitabile ovvero la morte di un leader, ma sulla sua successione, sul sistema che rimarrà in piedi dopo la sua scomparsa.

Per anni i possibili candidati designati alla successione del raìs sono stati: Gamal Mubarak, 47 anni, banchiere, ha studiato a Londra e negli Stati Uniti, e Omar Suleiman, 74 anni, non solo è il capo dei servizi segreti egiziani, ma anche coordinatore di tutto l’apparato militare e di sicurezza che governa il Paese con lo stato d’emergenza dai tempi di Sadat.

È da almeno sei anni che il vecchio leader prepara il figlio alla successione: lo ha nominato segretario generale del comitato politico del Partito nazionale Democratico e lo ha più volte spinto all’estero. Sono tanti gli esempi di autocrazia araba simili a questo: dal giovane Assad in Siria, a Saif el Islam che sostituirà Muhammar Gheddafi in Libia. Ma Gamal Mubarak non sembrerebbe in grado di svolgere questo ruolo per svariati motivi. In primis perché il delfino si è sempre occupato solo di affari e mai di geopolitica, sicurezza interna e gestione del potere. Nelle relazioni con gli altri paesi arabi, con Israele e sulla questione palestinese egli non si è mai pronunciato. Il rischio è che nella regione di fronte a una crescita di peso impressionante come quella della Turchia, l’Egitto possa assumere una posizione di secondo piano.

L’altro problema è che cresce nell’opinione pubblica egiziana l’opposizione al tawrith al sulta (la successione dinastica della carica presidenziale) ritenendola offensiva per il paese che nel 1952 si proclamò repubblica presidenziale (6). Inoltre, Gamal non è nemmeno visto di buon occhio dalle forze armate dove i suoi sostenitori sono piuttosto scarsi.

Ma c’è un evento che ha cambiato le carte in tavola: il ritorno al Cairo di Mohammed El Baredei il 19 febbraio scorso, accolto da circa mille persone all’aeroporto del Cairo. Si tratta dell’ex segretario generale dell’agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) che, dopo dodici anni di assenza dal paese, è comparso nell’arena politica egiziana dichiarandosi pronto a partecipare alla corsa presidenziale, a condizione che il governo approvi una nuova costituzione che garantisca una competizione leale e onesta (7).


Il quadro che si può fare sui futuri sviluppi della situazione è questo: il faraone continuerà a esercitare i suoi poteri fino alla fine dei suoi giorni, quando si aprirà un periodo transitorio gestito dall’esercito che si concluderà con l’approvazione di un nuovo documento costituzionale. Sarà probabilmente Omar Suleiman l’uomo di potere in questo periodo di passaggio. La nazione è divenuta proprietà di un’elite, che l’amministra e se la trasmette in via ereditaria di generazione in generazione.

La società egiziana è divenuta un corpo senza testa, dunque, sono molti gli egiziani che cercano un nuovo eroe. Il dittatore ha già scelto chi lo sostituirà con l’appoggio dei servizi segreti e dell’esercito. Ma stavolta si trova contro una nuova generazione di egiziani, i ragazzi in nero, che combattono violenze e ingiustizie soprattutto grazie ad internet e che sperano che El Baradei possa essere l’uomo in grado di riformare il sistema politico egiziano.

* Chiara Cherchi è dottoressa in Scienze politiche

Note:

(1) L’attentato più clamoroso fu compiuto a Luxor nel 1997 e causò la morte di una sessantina di turisti;

(2) Nonostante il paese sia stato riammesso sia nella Lega Araba sia nella Conferenza islamica fin dagli anni ottanta, il suo schieramento sempre più netto a favore degli USA ha indebolito enormemente la sua capacità contrattuale soprattutto nei confronti dei paesi emergenti o nei confronti del contenzioso israelo-palestinese;

(3) Sergio Romano, Con gli occhi dell’Islam, Longanesi, Milano, 2007, pp.144-146;

(4) www.aljazeera.net;

(5) www.medarabnews.com;

(6) Nel 1952 Gamal Abd el-Nasser rovesciò la monarchia di re Farouk;

(7) www.temi.repubblica.it/limes.

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La Thatcher bloccò gli aiuti sovietici ai minatori in sciopero

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Fonte: Voltairenet

Documenti declassificati dopo una processo durato cinque anni nel Regno Unito, mostrano un piano preventivo della prima ministra Margaret Thatcher, per spezzare lo sciopero dei minatori (1984-85).

Anticipando la violenza della reazione popolare alla chiusura delle miniere di carbone, la prima ministra era passata, con sei mesi in anticipo, con un consiglio ristretto, un piano che prevedeva (1) lo stoccaggio del carbone, (2) la costruzione di linee di alta tensione verso la Francia, con l’accordo di Electricité de France, per evitare la mancata fornitura di energia dalla British Coal, (3) modifiche legislative per sanzionare lo sciopero dei minatori, soprattutto per quanto riguarda l’esecuzione dei mutui immobiliari.

Ancora più sorprendente: quando, dopo diversi mesi di scioperi, i sindacati esangui non potevano più sostenere i bisogni degli scioperanti, Mosca ha cercato di aiutarli fornendo contanti. Un tentativo di trasferimento internazionale fallì, la Prima Ministra venne informata. Margaret Thatcher entrò in contatto con l’allora vice di Konstantin Cernenko, Mikhail Gorbaciov, e lo dissuase dal proseguire l’operazione, minacciando ritorsioni diplomatiche.

«How Margaret Thatcher planned to undermine miners’ union» e «Margaret Thatcher blocked Soviet aid for striking miners, files reveal», di Rob Evans e David Hencke, The Guardian, 29 agosto 2010.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Putin si felicità con Kiriyenko prima della consegna della centrale di Bushehr

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Fonte: Voltairenet

Il primo ministro russo Vladimir Putin, ha ricevuto il 19 agosto 2010 Sergei Kiriyenko, direttore generale della società statale Rosatom.

Lo scopo del colloquio era duplice. Si trattava, da una parte, di mostrare all’opinione pubblica nazionale che i siti nucleari sono stati correttamente protetti durante i grandi incendi e, dall’altro, mostrare a Stati Uniti, Israele, Canada e Unione europea, di aver personalmente ordinato la consegna definitiva degli impianti di Bushehr all’Iran, nonostante la loro opposizione e quella del Presidente Medvedev.

Una volta terminata l’intervista, il signor Kiriyenko è andato in Iran per effettuare la consegna dell’impianto.

Turchia, Vietnam e Bangladesh stanno attualmente negoziando l’acquisto di centrali dalla Rosatom.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Medevedev creerà un gruppo alla Duma

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Fonte: Voltairenet

Gli amici del presidente Dmitry Medvedev dovrebbero costituire un’associazione parlamentare trans-partito, il 25 settembre prossimo.

Tale gruppo, denominato Go Russia, riferendosi al famoso articolo di Medvedev sulla necessità di modernizzare il paese secondo i metodi occidentali, non avrà il tempo di influenzare le prossime elezioni locali.

Il gruppo dovrebbe essere presieduto da Gennady Gudkov, ex ufficiale del KGB divenuto uomo d’affari e deputato influente.

Se i commentatori vedono in questa iniziativa l’embrione di un futuro partito medvedeviano, per un secondo mandato presidenziale, altri osservano che questa iniziativa privarà, soprattutto, il Primo Ministro Vladimir Putin del suo principale mezzo di pressione sul suo rivale.

Se il presidente Medvedev decidesse di licenziare il primo ministro, la Duma (Parlamento) potrebbe destituirlo con la maggioranza dei due terzi finora detenuta dagli amici di Putin.

Non è quindi necessario per il momento, che Go Russia riunisca molti deputati, è sufficiente per indebolire leggermente i putiniani, affinché i rapporti al vertice dello stato siano ammorbiditi.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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“Il fallimento dell’ONU è la vittoria degli USA”– Graziani all’IRNA

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In data 23 settembre il direttore di “Eurasia” Tiberio Graziani è stato interpellato dall’IRNA (agenzia di stampa nazionale dell’Iràn) per commentare la partecipazione del presidente Ahmadinejad all’Assemblea Generale dell’ONU. La notizia (in farsi) è visibile al seguente indirizzo:

http://www.irna.ir/NewsShow.aspx?NID=287341

Quella che segue è la versione italiana ed integrale dell’intervista.


Cosa pensa della proposta del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, di battezzare l’attuale come “il decennio della governance globale”? È considerata dagli esperti una proposta innovativa che avrà il consenso della popolazione mondiale.

La proposta del presidente iraniano Ahmadinejad è corretta ed adeguata ai tempi. Essa tiene lucidamente conto del mutamento in atto a livello globale. Le analisi geopolitiche e geoeconomiche, infatti, ci indicano che siamo nella fase di strutturazione di un nuovo sistema multipolare .

Ciò è dovuto, in primo luogo, per quanto riguarda il continente eurasiatico, al riemergere della Russia come grande attore globale, alla crescente importanza su scala mondiale della Cina e dell’India, all’autonomia dell’Iran e, negli ultimi tempi, ai nuovi orientamenti del governo di Erdogan in materia di politica estera e posizionamento geopolitico della Turchia. Inoltre, dobbiamo considerare che in America Indiolatina (Sudamerica), importanti paesi come il Brasile, il Venezuela e l’Argentina integrano sempre più le proprie economie e – sul piano internazionale – aumentano le relazioni strategiche con i paesi eurasiatici.

Gli analisti ed esperti politici ritengono che la proposta di Ahmadinejad verrà accolta positivamente da tutti, tranne i 5 paesi membri del consiglio di sicurezza dell’Onu. Lei cosa ne pensa?

La proposta verrà accolta da tutti quei Paesi che mal sopportano l’ingerenza degli USA nelle proprie politiche nazionali.

La vera natura dell’Onu e delle organizzazioni che parlano dei diritti umani, è evitare i conflitti tra i paesi e i popoli del mondo, ma la situazione mondiale è peggiorata rispetto al passato. Può essere la prova della loro sconfitta?

L’ONU è una creatura dei vincitori del secondo conflitto mondiale. In particolare è uno strumento degli USA, malgrado nel suo Consiglio di Sicurezza siedano paesi come la Russia e la Cina.

Da quando è stata istituita l’Onu, in base alle ricerche scientifiche, il mondo non ha visto guerre soltanto per tre settimane, dimostrando che l’Onu non ha raggiunto i suoi obbiettivi.

L’ONU non ha raggiunto i propri obiettivi dichiarati. Ciò è strettamente funzionale alla strategia statunitense per il dominio planetario. La strategia degli USA viene attuata mediante la cosiddetta “geopolitica del caos”. Gli USA sono l’unica potenza di dimensioni continentali che controlla i propri litorali (oceani Pacifico e Atlantico). È dunque una potenza bi-oceanica. Sostanzialmente una grande isola. La strategia di dominazione globale obbliga gli USA a perturbare – mediante guerre, conflitti sociali – sia lo spazio eurasiatico che quello sudamericano. In ciò ricalca la strategia che la Gran Bretagna ha applicato nei secoli scorsi contro ogni ipotesi di unificazione dell’Europa continentale.

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IEMASVO, iniziano i corsi di lingua araba

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CORSI DI LINGUA ARABA
Riconosciuti dal Ministero dell’ Istruzione, dell’ Università della Ricercacon decreto del 13 luglio 2010

1) CORSO PER PRINCIPIANTI
(120 ore con Attestato o Diploma finale)
Prof. ssa Rosanna Budelli – Leggi il curriculum
Il corso è diviso in due trimestri: primo trimestre, 60 ore per l’apprendimento degli aspetti fondamentali della lingua araba spiegati attraverso unità pratico-situazionali e per mezzo di audio-visivi (metodo Rosetta Stone e al-Kitàb fi ta‘allum al-‘arabiyya with DVD’s, A Textbook for Beginning Arabic). Secondo trimestre, 60 ore, per l’approfondimento delle strutture linguistiche con produzione di testi semplici e c onversazione (metodo Mahdi Alosh, Ahlan wa-Sahlan, Functional Modern Standard Arabic for Intermediate Learners) – Tre unità di lezione a settimana, di due ore cadauna. Costo € 450 + 450.

Inizio del corso:
12 OTTOBRE
Giorni:
MARTEDI’, GIOVEDI’, VENERDI’
Orario:14,30-16,30
Via Pompeo Magno 25
(Roma – a 250 metri dalla stazione metro Lepanto)

2) L’ARABO DEI MASS MEDIA
Leggere e parlare l’arabo (50 ore con Attestato o Diploma finale)
Prof. ssa Rosanna Budelli – Leggi il curriculum e Dr. Nasser El-Gilani – Leggi il curriculum
Il corso si rivolge a chi possiede già una buona conoscenza della lingua araba e intende approfondire il linguaggio moderno dei mass media. Si avvarrà della collaborazione-docenza di Nasser el-Gilani, inviato speciale di numerose testate giornalistiche ed emittenti televisive arabe. Le lezioni si incentreranno soprattutto sull’ ascolto e la traduzione di testi tratti da internet e dalla televisione; sulla visione di film; sulla pratica di conversazione. Tre unità di lezione a settimana, di due ore cadauna. Costo € 450.
Inizio del corso:
19 OTTOBRE
Giorni:
MARTEDI’, GIOVEDI’, VENERDI’
Orario:17-19
Via Pompeo Magno 25
(Roma – a 250 metri dalla stazione metro Lepanto)

PER INFORMAZIONI
www.mastermatteimedioriente.it
iemasvo@tiscali.it
377 1520 283

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Roberto Pelo – Vittorio Torrembini, Sdelano V Italii

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Roberto Pelo, Vittorio Torrembini

Sdelano V Italii

Edizioni Il Sole 24 ORE, Milano 2010

La storia della presenza delle imprese italiane in Russia è vecchia di almeno cinquanta anni, ma solo negli ultimi anni, quelli che hanno visto la presidenza di Putin, ha conosciuto una vera e propria esplosione in termini di numero di imprese e fatturato.

I traguardi che le nostre imprese hanno saputo raggiungere in Russia negli ultimi cinque-sei anni sono straordinari: l’Italia è il secondo fornitore europeo e il terzo cliente della Federazione Russa; le aziende italiane controllano il mercato nella maggior parte dei settori che hanno fatto e rendono grande lo stile italiano nel mondo: mobili, abbigliamento, calzature, macchinari industriali.

Sono quasi 400 le imprese italiane che operano stabilmente nel Paese, per un fatturato superiore ai 2,5 miliardi di euro: numeri significativi, ma ancora inferiori rispetto alle enormi possibilità che la Russia offre a chi esporta in tutto il mondo qualità, conoscenza e stile di vita.

Molte di queste storie sono state raccolte da Roberto Pelo e Vittorio Torrembini, un lavoro attento e curato, che ripercorre le principali tappe dell’internazionalizzazione del nostro Sistema Paese nella Federazione Russa.

Questo utilissimo libro non solamente mette in evidenza le esperienze produttive nel settore industriale ma fornisce un quadro generale della stabile presenza italiana in Russia: dai grandi investimenti industriali alle alleanze strategiche in settori chiave per le due economie; dalle società miste ai partenariati di distribuzione dei beni di consumo; dal settore del credito alla ristorazione.

Pagine che raccontano di scelte lungimiranti, di successi imprenditoriali, della capacità che il mondo della impresa italiana ha avuto di guardare al di là delle difficoltà e degli ostacoli, riuscendo a stabilire in Russia una presenza che porta alto il nome e il valore del nostro Paese.

In conclusione, è assolutamente indispensabile la conoscenza della realtà socio-economica dei Paesi in cui si va ad operare se si vogliono stabilire solide relazioni che permettano alle nostre imprese di crescere sempre di più in questi mercati emergenti.

La Russia, che questo libro di Roberto Pelo e Vittorio Torrembini ci permette di conoscere più da vicino, è certamente uno di questi.

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Il discorso di Ahmadinejad all’ONU, 23 settembre 2010

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Fonte: Luogo comune

Questa è la traduzione dello “scandaloso” discorso di Mahmoud Ahmadinejad tenuto alle Nazioni Unite il 23 settembre 2010. La cosa curiosa è che il presidente iraniano, contrariamente a quanto è stato scritto e detto un po’ dappertutto, non ha affatto “accusato gli Stati Uniti di aver perpetrato gli attacchi dell’11 settembre”, ma ha semplicemente elencato questa possibilità fra le diverse tesi esistenti oggi sugli attentati di quel giorno. Evidentemente questo è bastato per dare fuoco alla gigantesca coda di paglia dei governi e dei giornalisti occidentali, che hanno fatto da soli tutto il resto.

Il discorso di Mahmoud Ahmadinejad alle Nazioni Unite – 23 settembre 2010

[Introduzione, saluti e ringraziamenti formali].

Negli anni passati vi ho parlato di alcune delle speranze e delle preoccupazioni, compreso la crisi della famiglia, la sicurezza, la dignità umana, l’economia mondiale, i mutamenti del clima, come delle aspirazioni per la giustizia e per una pace duratura.

Dopo circa 100 anni di predominio, il sistema capitalistico e l’attuale ordine mondiale si sono dimostrati incapaci di offrire soluzioni valide ai problemi delle società, e sono quindi giunti alla fine. Cercherò di esaminare i due principali motivi per questo fallimento, e di descrivere alcuni aspetti di un futuro ordine ideale.

Come ben sapete, i profeti divini avevano la missione di chiamare tutti al monoteismo, all’amore e alla giustizia, e di mostrare all’umanità la strada verso la prosperità. Essi invitavano gli uomini alla contemplazione e alla conoscenza, per poter meglio apprezzare la verità, e per evitare l’ateismo e l’egoismo. La natura essenziale del messaggio di tutti i profeti è sempre stata la stessa. Ogni profeta ha ripreso il messaggio di quello che lo ha preceduto, …

… e ha dato indicazioni su quello che lo avrebbe seguito, presentando ogni volta una versione sempre più completa della religione, in misura della capacità dell’uomo [di comprenderla] in quel momento. Questo è continuato fino all’ultimo messaggero divino, che ci ha portato la religione perfetta e onnicomprensiva. Contro di essa si sono sollevati gli egoisti e gli avidi, nel tentativo di combattere il suo limpido messaggio. Nimrod ha combattuto il profeta Abramo, il Faraone ha combattuto il profeta Mosè, e gli avidi hanno combattuto il profeta Gesù Cristo ed il profeta Maometto (che la Pace sia con tutti loro).

Nei secoli più recenti l’etica ed i valori umani sono stati respinti in quanto rallentavano il progresso. Sono stati persino dipinti come nemici della saggezza e della scienza, per il modo in cui essi furono imposti dai propugnatori delle religioni nei secoli bui dell’Occidente.

Il distacco dell’uomo da Dio lo ha separato dalla sua vera essenza.

L’uomo, con la sua capacità di comprendere i segreti dell’universo, il suo istinto nel cercare la verità, le sue aspirazioni verso la giustizia e la perfezione, la sua ricerca della bellezza e della purezza, e la sua capacità di rappresentare Dio sulla terra, fu ridotto ad una creatura limitata al mondo materialistico, il cui compito era di soddisfare al massimo il piacere individuale. Fu così che l’istinto prese il posto della natura umana.

Gli esseri umani e le nazioni furono trasformati in rivali, e la felicità di un individuo o di una nazione venivano definite dal conflitto e dall’eliminazione degli altri. La cooperazione costruttiva ed evolutiva fu sostituita da uno scontro distruttivo per la sopravvivenza. L’avidità per la ricchezza e per il potere sostituirono il rispetto di Dio [lett. “il monoteismo”], che è la chiave verso l’amore e l’unità.

Il diffondersi del divario fra l’egoismo e i valori divini diede origine alla schiavitù e al colonialismo. Una grande porzione del mondo fu sottomessa al dominio di pochi stati occidentali. Decine di milioni di persone furono fatte schiave, e decine di milioni di famiglie furono distrutte come conseguenza. Tutte le ricchezze, i diritti e le culture delle nazioni colonizzate furono saccheggiati. Molte terre furono occupate, e gli abitanti di quelle terre furono umiliati e decimati.

Nonostante questo, certe nazioni si ribellarono, il colonialismo fu respinto, e l’indipendenza delle nazioni fu riconosciuta. Fu allora che rinacque la speranza per il rispetto, per la prosperità e per la sicurezza. All’inizio del secolo scorso belle parole come libertà, diritti umani e democrazia crearono la speranza di poter guarire le profonde ferite del passato. Ma oggi purtroppo quei sogni non sono stati realizzati, e abbiamo anzi aggiunto ricordi a volte ancora peggiori di quelli precedenti. Come conseguenza delle due guerre mondiali, dell’occupazione della Palestina, delle guerre di Corea e del Viet-Nam, della guerra dell’Iraq contro l’Iran, dell’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq, come di molte altre guerre in Africa, centinaia di milioni di persone sono state uccise, ferite o eradicate dal loro territorio.

Il terrorismo, le droghe illegali, la povertà e il divario sociale sono aumentati. Le dittature e i governi nati dai colpi di stato in America latina hanno commesso crimini mai conosciuti prima, con il supporto dell’occidente. Invece del disarmo, la proliferazione e l’accumulo di armi atomiche, biologiche e chimiche sono aumentati, ponendo il mondo sotto una minaccia sempre maggiore. Come risultato, gli stessi esatti scopi del colonialisti di una volta sono stati perseguiti sotto questa nuova facciata.

IL GOVERNO GLOBALE E LE STRUTTURE DI COMANDO.

La Lega delle Nazioni e poi le Nazioni Unite furono istituite con la promessa di diffondere la pace, la sicurezza e l’affermazione dei diritti umani, che di fatto significava governare il mondo.

Per analizzare l’attuale situazione di controllo del mondo, si possono esaminare questi tre eventi:

Primo, i fatti dell’11 settembre 2001, che hanno condizionato la storia del mondo per quasi un decennio. Da un momento all’altro le notizie degli attacchi alle Torri Gemelle sono state trasmesse con la diffusione delle numerose immagini dell’incidente.

Quasi tutti i governi e i personaggi importanti hanno condannato con forza questa azione. Poi però è stata messa in moto una macchina della propaganda nella quale si implicava che l’intero mondo fosse ora esposto ad un pericolo enorme, quello del terrorismo, e che l’unico modo per salvare il mondo sarebbe stato quello di mandare forze armate in Afghanistan.

In seguito l’Afghanistan, e poco dopo l’Iraq, furono occupati.

Vi prego di fare attenzione: è stato detto che circa tremila persone furono uccise l’11 settembre, fatto per il quale siamo tutti molto rattristati. Fino ad oggi però in Afghanistan e Iraq centinaia di migliaia di persone sono state uccise, milioni sono stati feriti o eradicati dal loro territorio, e il conflitto è ancora in corso, ed in via di espansione.

Nel ricercare i responsabili dell’attacco terroristico, vi furono tre punti di vista:

1 – Che un gruppo terrorista molto potente e sofisticato, in grado di perforare tutti i livelli di intelligence e sicurezza americani, abbia portato a termine gli attacchi. Questa è la tesi principale sostenuta dagli uomini di governo americani.

2 – Che alcuni settori, all’interno del governo americano, abbiano orchestrato l’attacco, per capovolgere il corso negativo dell’economia americana, legata al Medio Oriente, salvando nel contempo il regime sionista. La maggioranza degli americani, come la gente e i politici di altre nazioni, condividono questo punto di vista.

3 – Che gli attacchi siano stati portati a termine da un gruppo terrorista, ma che il governo americano li abbia supportati e abbia tratto vantaggio dalla situazione. Apparentemente questa versione non ha molti sostenitori. La prova più importante, relativa a questi attacchi, furono alcuni passaporti trovati nella montagna di macerie, e il video di un certo individuo, il cui luogo di domicilio era sconosciuto, ma del quale si sapeva che avesse partecipato ad accordi petroliferi con alcuni importanti personaggi americani. C’è stato anche un insabbiamento, nel senso che è stato detto che a causa dell’esplosione e del fuoco non si è trovata altra traccia degli aggressori- suicida.

Rimangono però alcune questioni a cui dare una risposta.

Non sarebbe stato più logico condurre prima una completa investigazione, da parte di gruppi indipendenti, per identificare con certezza i responsabili degli attacchi, e poi mettere a punto un piano razionale per prendere misure contro di loro?

Pur dando per buona la versione del governo americano, vi sembra logico scatenare una classica guerra, con ampio impiego di truppe – che hanno portato alla morte di centinaia di migliaia di persone – per combattere un gruppo terrorista?

Perché non si è agito nello stesso modo in cui ha fatto l’Iran, contro il gruppo terrorista Riggi, che aveva ucciso o ferito 400 persone innocenti in Iran? In questa operazione condotta dall’Iran nessun innocente è stato toccato.

Voglio annunciare che l’anno prossimo si terrà nella repubblica islamica dell’Iran una conferenza per studiare il terrorismo e i modi per combatterlo. Invito i responsabili governativi, gli studiosi, i pensatori, i ricercatori e gli istituti di ricerca di tutte le nazioni a partecipare.

Secondo argomento: l’occupazione dei territori palestinesi.

Il popolo oppresso della Palestina ha vissuto per sessant’anni sotto il giogo di un regime di occupazione, avendo perduto la libertà, la sicurezza e il diritto all’autodeterminazione, mentre gli occupanti vengono legittimati.

Quotidianamente vengono distrutte le case che danno riparo a donne e bambini innocenti. La gente è privata di acqua, cibo e medicine in casa propria. I sionisti hanno scatenato cinque guerre totali contro i paesi confinanti e contro il popolo palestinese. I sionisti hanno commesso crimini orribili contro popoli indifesi, nelle guerre contro il Libano e a Gaza.

Il regime sionista ha aggredito una flottiglia umanitaria, in palese disprezzo di tutte le norme internazionali, uccidendo dei civili.

Questo regime, che gode del totale supporto di alcuni paesi occidentali, minaccia continuamente le nazioni vicine, e prosegue negli assassini annunciati pubblicamente di personaggi palestinesi e di altri, mentre coloro che difendono i palestinesi vengono sottoposti a pressioni ed etichettati come terroristi e antisemiti. Tutti i valori, compreso quello della libertà di espressione, in Europa e negli Stati Uniti vengono sacrificati sull’altare del sionismo.

Tutte le soluzioni sono destinate a fallire, poiché non contemplano i diritti del popolo palestinese.

Avremmo davvero assistito a questi crimini orribili, se invece di legittimare l’occupazione fosse stato riconosciuto il diritto sovrano del popolo di Palestina? Noi proponiamo senza ambiguità il ritorno degli esuli palestinesi alla loro terra madre, per poter esercitare il diritto di voto del popolo palestinese, con il quale riaffermare la propria sovranità e decidere il proprio tipo di governo.

Terzo: La questione dell’energia nucleare

L’energia nucleare è pulita e poco costosa, ed è un dono divino fra le più accessibili alternative per ridurre l’inquinamento prodotto dai combustibili fossili.

Il trattato di non proliferazione nucleare permette agli stati membri di utilizzare l’energia atomica senza limiti, mentre l’agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA) ha il compito di assistere gli stati membri, con supporto tecnico e legale.

La bomba atomica è la peggiore arma disumana mai inventata, e va completamente eliminata. Il trattato di non proliferazione nucleare proibisce lo sviluppo e l’accumulo di armi atomiche] e invita al disarmo nucleare. Nonostante questo vorrei far notare quello che hanno fatto alcuni membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, che sono anche possessori di armi atomiche.

Hanno equiparato l’energia nucleare alla bomba atomica, distanziando molte nazioni dall’accesso a questo tipo di energia, grazie al monopolio ed alle pressioni esercitate sulla IAEA. Nel frattempo hanno continuato a mantenere, espandere e migliorare i propri arsenali nucleari.

Questo ha comportato ciò che segue:

Non solo il disarmo nucleare non è stato realizzato, ma le bombe atomiche sono proliferate in molte regioni, compreso il regime sionista, invasore e intimidatorio.

Vorrei proporre qui che l’anno 2011 sia proclamato anno del disarmo nucleare, con “energia atomica per tutti, armi atomiche per nessuno.”

Nelle diverse situazioni le Nazioni Unite non sono state in grado di mettere in atto nulla di effettivo. Sfortunatamente, nel decennio definito “Decennio internazionale della cultura e della pace” centinaia di migliaia di persone sono state uccise o ferite a causa di guerre,di aggressioni e di occupazioni, mentre le ostilità e gli antagonismi sono aumentati.

Stimati amici, per anni abbiamo assistito all’inefficienza del capitalismo e delle attuali strutture di governo del mondo, e la maggioranza degli stati e delle nazioni sono da tempo alla ricerca di cambiamenti radicali, affinché possa prevalere la giustizia nelle relazioni globali.

La causa dell’inettitudine delle Nazioni Unite sta nella sua ingiusta strutturazione. La maggioranza del potere viene monopolizzato dal Consiglio di Sicurezza, grazie al diritto di veto, mentre il pilastro fondamentale dell’organizzazione, e cioè l’assemblea generale, viene ignorata. In molti dei decenni trascorsi, almeno uno dei membri del consiglio di sicurezza è stato anche parte in causa delle varie dispute.

Il diritto di veto garantisce impunità all’aggressione e all’occupazione. Come ci si può attendere una gestione competente, quando il giudice e l’accusatore sono parti in causa nella disputa? Se l’Iran avesse goduto del diritto di veto, secondo voi il consiglio di sicurezza e il direttore generale della IAEA avrebbero assunto le stesse posizioni sulla questione nucleare?

Cari amici, le Nazioni Unite sono il centro focale per il coordinamento della gestione globale. La sua struttura va riformata, in modo che tutti gli stati e le nazioni indipendenti possano prendere parte attiva e costruttiva alla gestione globale.

Il diritto di veto dovrebbe essere revocato, l’assemblea generale dovrebbe diventare il corpo più importante, il segretario [delle Nazioni Unite] dovrebbe essere in posizione di totale indipendenza, e tutte le sue decisioni dovrebbero essere prese con l’approvazione dell’assemblea generale, e debbono essere dirette alla promozione della giustizia e all’eliminazione delle discriminazioni.

Il segretario delle Nazioni Unite non dovrebbe essere sottoposto a pressioni da parte dei poteri del paese che ospita l’Organizzazione, quando afferma la verità e amministra la giustizia. Suggerisco che entro un anno, nell’ambito di un programma di sessione straordinaria, l’assemblea generale completi la riforma strutturale di questa Organizzazione.

La repubblica islamica dell’Iran ha delle proposte precise in questo senso, ed è pronta a partecipare in modo attivo e costruttivo al processo di riforma.

Signore e signori, io proclamo chiaramente che l’occupazione di altri paesi, sotto il pretesto di libertà e democrazia, sia un crimine imperdonabile. Il mondo ha bisogno della logica della compassione e della giustizia, e della partecipazione inclusiva, e non della logica della forza, del predominio, dell’unilateralità, della guerra e dell’intimidazione.

Il mondo deve essere governato da gente virtuosa come i Profeti divini.

Due grandi zone geografiche, l’Africa e l’America latina, hanno avuto uno sviluppo radicale nel corso degli ultimi decenni. Il nuovo atteggiamento in questi due continenti, basato su un accresciuto livello di integrazione e di unità, come sulla localizzazione dei modelli di crescita e sviluppo, ha portato frutti notevoli ai popoli di quelle regioni. La saggezza e la lungimiranza dei leader di questi due continenti hanno superato i problemi delle crisi della regione, senza l’interferenza di poteri non regionali.

La repubblica islamica dell’Iran ha incrementato le proprie relazioni con l’America latina e con l’Africa, negli anni scorsi, sotto tutti i punti di vista.

Parliamo ora del glorioso Iran.

La Dichiarazione di Teheran è stata un passo fortemente costruttivo verso la fiducia reciproca, che è stato reso possibile dalla ammirevole buona volontà dei governi del Brasile e della Turchia, insieme alla sincera collaborazione del governo iraniano. Per quanto la dichiarazione sia stata ricevuta in modo inappropriato da alcuni, e sia stata seguita da una risoluzione illegale, rimane del tutto valida. Noi abbiamo rispettato i regolamenti della IAEA ben oltre le nostre intenzioni, né peraltro ci siamo mai sottomessi a pressioni imposte in modo illegale, e mai lo faremo.

È stato detto che qualcuno vuole obbligare l’Iran al dialogo. Bene, prima di tutto l’Iran è sempre stato pronto ad un dialogo che sia basato sul rispetto e sulla giustizia. In secondo luogo, i metodi basati sulla mancanza di rispetto delle nazioni sono diventati da tempo inefficaci. Coloro che hanno usato l’intimidazione e le sanzioni come risposta alla chiara logica della nazione iraniana, stanno di fatto distruggendo quel poco che rimane della credibilità del Consiglio di Sicurezza, e della fiducia delle nazioni in questa organizzazione, dimostrando ancora una volta quanto ingiusta sia la funzione del Consiglio. Quando costoro minacciano una grande nazione come l’Iran, che è conosciuta nella storia per i suoi scienziati, poeti, artisti e filosofi, la cui cultura e civiltà sono sinonimo di purezza, di rispetto di Dio e di ricerca della giustizia, come possono aspettarsi di veder crescere la fiducia delle altre nazioni verso di loro?

È del tutto superfluo affermare che i metodi aggressivi nel cercare di governare il mondo sono falliti. Non solo l’epoca della schiavitù, del colonialismo e del dominio del mondo è tramontata, ma perfino la strada per cercare di restaurare vecchi imperi è ormai bloccata. Abbiamo annunciato che siamo pronti ad un serio ed aperto confronto con il governo americano, per poter esprimere in modo trasparente le nostre opinioni su argomenti di grande importanza per il mondo, in questa stessa sede.

Proponiamo qui che per avere un dialogo costruttivo venga anche istituito annualmente un dibattito all’interno dell’assemblea generale.

In conclusione:

Amici e colleghi, la nazione iraniana e la maggioranza delle nazioni e dei governi nel mondo sono contrari all’attuale tipo di controllo discriminatorio del mondo. E la natura disumana di questo tipo di controllo l’ha portato in un vicolo cieco, ed ora richiede di essere rivisto alla radice.

Per ricostruire le relazioni globali e per riportare la tranquillità e la prosperità sono necessari la partecipazione di tutti, intenzioni oneste, e il contributo umano e divino.

Condividiamo tutti questa idea: la giustizia è l’elemento fondamentale per la pace e per una sicurezza duratura, e per il diffondersi dell’amore fra i popoli e le nazioni. E’ nella giustizia che l’umanità cerca la realizzazione delle proprie aspirazioni, dei diritti e della dignità, mentre soffre nell’oppressione, nell’umiliazione e nel maltrattamento.

La vera natura dell’umanità si manifesta nell’amore per gli altri esseri umani e nell’amore per tutto ciò che è bene nel mondo. L’amore è l’elemento fondamentale su cui costruire le relazioni fra i popoli e le nazioni.

Come disse Vahshi Bafqi, il grande poeta iraniano, “Potrai bere mille volte alla fontana della giovinezza, ma comunque morirai se non sei nelle mani dell’amore”.

Nel riempire il mondo di purezza, di sicurezza e di prosperità, gli uomini non sono più rivali, ma compagni.

Coloro che vedono la propria felicità soltanto nelle sofferenze altrui, e il proprio benessere e la sicurezza soltanto nell’insicurezza altrui, coloro che si ritengono superiori agli altri non stanno sul cammino dell’umanità, ma su quello del maligno.

L’economia e i mezzi materiali sono soltanto strumenti per servirne altri, per creare amicizia e per rafforzare i rapporti umani, al fine di raggiungere la perfezione spirituale, e non sono strumenti per vantarsi nè un mezzo per dominare gli altri.

L’uomo e la donna si conplementano a vicenda, e l’unità familiare, con una duratura ammirevole e pura relazione fra gli sposi, sta al centro ed è la garanzia per la continuità e la crescita delle nuove generazioni, per i veri piaceri, per difendere l’amore e per migliorare la società.

La donna è riflesso della bellezza divina, è sorgente di amore e di attenzioni. Lei è la depositaria della purezza e della squisitezza della società.

La libertà è un diritto divino che deve servire alla pace e al perfezionamento dell’essere umano. I pensieri puri e la volontà dei giusti sono le chiavi per accedere ad una vita pura, piena di speranza, di vitalità e di bellezza.

Questa è la promessa di Dio, che la terra resterà in mano ai puri e ai giusti. La gente priva di egoismo prenderà in mano il controllo del mondo, e allora non vi saranno più tracce di dolore, discriminazione, povertà, insicurezza e aggressione. Sta per arrivare il momento della vera felicità e della realizzazione della vera natura dell’umanità, come Dio l’ha sempre intesa.

Tutti coloro che cercano la giustizia e tutti gli spiriti liberi hanno atteso a lungo questo momento, con la promessa di un tempo glorioso.

Il completo essere umano, il vero servo di Dio, il vero amico dell’umanità, il cui padre apparteneva alla generazione dell’amato Profeta dell’Islam, e la cui madre era fra i devoti di Gesù Cristo, attenderà insieme a Gesù figlio di Maria e agli altri giusti di apparire nei tempi luminosi, e di aiutare l’umanità.

Nel dare loro il benvenuto dovranno unirsi tutti e cercare la giustizia.

Onore all’amore e al rispetto della giustizia e della libertà, onore alla vera umanità, all’essere umano completo, al vero compagno dell’umanità, e che la pace sia su tutti voi, e su tutti i giusti e puri.

Grazie.

Leggi l’originale in inglese:
Ahmadinejad_Address_ONU_23_09_2010_en

Traduzione di Massimo Mazzucco per luogocomune.net

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Dall’individualismo economico all’ “individualismo sociale” dell’impresa manageriale

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Con Marx,  l’analisi  economica diventò “una non scienza”, così come veniva intesa nelle “scienze esatte” della fisica e  matematica,  da relegare ad un agglomerato di campi di ricerca mal circoscritti e scoordinati tra di loro, in un alternarsi di  teorie economiche speculative, dove l’uso della parola “causa” assunse una suggestione metafisica.

Karl Marx

Inoltre, Marx svelò il nascondimento dei rapporti sociali posti al servizio di una classe dominante  rivolta  a pianificare scientemente ogni forma di dominio; oltre a manifestare  ideologie  tese a glorificare le azioni e gli interessi delle classi borghesi al potere: un principio da imporre  ad ogni realtà istituzionale (mutevole), le cui leggi vanno (ri)scritte in continuum secondo una filigrana storica di un dominio variegato.

L’Occidente ha inaugurato  delle  tipologie di capitalismi irripetibili per il resto del mondo, lasciando dietro di se i detriti  di civiltà superate, nell’espressione più compiuta di un grande dominio di ininterrotto “Occidentalismo”  e che, tra vecchi e nuovi capitalismi, è stato in grado di imporre una propria civilizzazione con  forti radici economiche,  trasferite su una  “dialogante ideologia economica”.

L’ideologia “dell’economica” prese piede  con i caratteri del  liberismo economico grazie, non solo da un imprimatur della sua formazione, quanto ai modi più diversi di (im)porsi, in associazione alle più importanti correnti di pensiero politico del secolo scorso.

Carl Schmitt

L’importante testo di Carl Schmitt, “Le Categorie del Politico” (raccolta degli scritti, dal 1922 al 1953), può dirimere, con una indubbia incidenza, le caratterizzazioni liberiste, in una sorta di polimorfismo politico, storicamente pervenutaci, attraverso alcune idee cardine dell’autore, che possono essere riassunte in: “Tutte le concezioni politiche sono state mutate e snaturate dal liberismo dell’ultimo secolo (Ottocento) in modo peculiare e sistematico”; e da questa proposizione principale si dipana un’insieme di riflessioni che si allungano, attraverso ed a cavallo dei due secoli (Otto-Novecento), non senza aleggiare, con  suggestione evocativa,  questo primo scorcio di secolo Ventunesimo.

Come realtà storica il liberalismo si è sottratto al ‘politico’ …ed anche le sue neutralizzazioni e spoliticizzazioni (dell’educazione, dell’economia e così via) hanno un significato politico: i liberali di tutti i paesi hanno fatto politica come gli altri uomini e si sono coalizzati nei modi più diversi con elementi ed idee non liberali, come nazional liberali, social-liberali, liberali conservatori, cattolici liberal e così via.” In questo riscontro storico, Schmitt rileva una negazione del politico dietro il concetto puro e conseguente  del “liberalismo individualistico”: base essenziale di ogni politica liberale.

Questa idiosincrasia del pensiero schmittiano nei confronti del liberalismo individualistico è l’idra mitologica delle “nove teste” ‘pensanti’,  da cui nascono e si irradiano le tante politiche ridotte a  forme di inestricabili di esasperate ideologie economiche, dove il liberismo diventa il comune denominatore di ogni forma politica; è sotteso, in Schmitt  che  una politica, in quanto tale, può essere realizzata soltanto tagliando, metaforicamente, “le nove teste ”; e poter realizzare con ciò una più incisiva decostruzione di tutto il pensiero politico contaminato da ogni forma di individualismo. “La teoria sistematica del liberalismo riguarda quasi soltanto la lotta politica interna contro il potere dello Stato e produce una serie di metodi, per ostacolare e controllare questo potere dello Stato in difesa della libertà individuale e della proprietà privata, per ridurre lo Stato ad un ‘compromesso’ e le istituzioni statali ad una ‘valvola di sicurezza’..

Sempre secondo Schmitt, il pensiero liberale sorvola lo Stato e la politica che devono muoversi entro una “polarità tipica, autorinnovantesi, tra due sfere, eterogenee tra di loro, tra etica ed economia, spirito e commercio, cultura e proprietà. E dove il singolo deve rimane il termine centrale per ogni interesse iniziale e finale di ogni discorso politico. Insomma tutto lo spirito liberale si ribella alla violenza ed alla mancanza di libertà, arrivando ad un sistema politico di “concetti smilitarizzati e spoliticizzati”.

E così “ il concetto politico di lotta diventa nel pensiero liberale, sul piano economico, concorrenza e sul piano ‘spirituale’ discussione…..lo Stato diventa società, e precisamente sul piano etico-spirituale, si trasforma in una concezione ideologico-umanitaria dell’umanità, e, sull’altro piano, nell’unità tecnico-economica di un sistema unitario di produzione e di scambio…Il popolo politicamente unito si trasforma, sul piano spirituale, in un pubblico culturalmente interessato e sul piano economico in parte in un personale di fabbrica e di lavoro ed in parte in una massa di consumatori. Dominio e potere diventano nel polo spirituale programma e suggestione di massa, nel polo economico controlli..”

Ben si comprende  che  Stato e  politica, secondo il  liberalismo, vengono ridotti ad “una morale individualistica e perciò giusprivatistica, in parte a categorie economiche, privandoli così del loro significato specifico.. la morale diviene autonoma nei confronti della metafisica e della religione, la scienza nei confronti della religione.. una realtà in autonomia delle norme e delle leggi dell’economia …Poiché  nella realtà concreta dell’esistenza politica non governano ordinamenti e insiemi di norme astratti, ma vi sono sempre e soltanto uomini o gruppi concreti, così anche qui naturalmente dal punto di vista politico, il ‘dominio’ della morale, del diritto, dell’economia e della ‘norma’ ha sempre e soltanto un significato politico concreto.”

Del resto, il liberalismo, secondo Schmitt, ricalca i principi del liberalismo individualistico borghese, di matrice inglese; un modello sociale sulla base del quale si andò configurando, un diverso sviluppo capitalistico di tipo Usa; e con esso la conferma di un processo immanente che presiede allo sviluppo capitalistico e  contribuisce alla formazione dei vari capitalismi nazionali; la forma impresa con le sue  caratterizzazioni aziendali (la superficie, soltanto, di più profondi processi capitalistici “particolari”), ebbe il suo inizio  nell’espressione concreta dell’impresa borghese: una individualità imprenditoriale fisicamente proprietaria, e trasmissibile perciò, secondo i canoni di un diritto ereditario, così da configurarsi come un portato essenziale di un lungo processo storico, che attraversò l’intero secolo ottocentesco; e da cui si rese  possibile, la  trasformazione imprenditoriale, da un ‘individualismo economico (borghese)’, ad un ‘individualismo sociale’ dell’agente capitalistico: un cambio di funzione dell’impresa, realizzato in uno  (s)nodo interazionale, entro cui condensare i saperi manageriali; e nel contempo, un travalicamento storico dell’azione imprenditoriale  verso  un più ampio spazio sociale, con un nuovo “(s)oggetto sociale”, del tipo “Impresa Manageriale”: una determinazione di una stretta connessione  tra le visioni strategiche dell’agente capitalistico e le  basi materiali dell’ organizzazione imprenditoriale.

Il Capitalismo Manageriale Usa, con i suoi “ agenti e/o funzionari del capitale”, rappresentò il terminale di un lungo processo storico iniziato in Usa con la Seconda Rivoluzione Industriale (1870); e che venne a ramificarsi ed estendersi in Europa, fin dall’inizio della Prima Guerra Mondiale(1914), con una inedita forma imprenditoriale di ‘azienda politica’, non dissimile ad una comune organizzazione partitica; una sintesi aziendale-politica ‘perfetta’, del complesso strategico delle corporations (società per azioni) statunitensi, che ebbe modo di espandere tutto il suo potenziale pervasivo durante l’epoca policentrica, dei primi del Novecento; un “passaggio del testimone”, (da un individualismo economico, all’individualismo sociale dell’agente capitalistico) della nuova formazione economica-sociale, con un’inedita democrazia economica di massa, i cui caratteri di democraticità sono iscritti nelle libertà individuali del libero accesso, in compartecipazione, ai rischi dell’impresa; e con un altrettanto inedito supporto fondamentale, a più estesi investimenti di capitali, grazie alle libere sottoscrizioni effettuate da una  miriade infinita  di soci azionisti (della corporate Usa),  controllati e guidati dalle grandi quote, in possesso, di pochi azionisti,  cui demandare  il controllo  formale e reale  dell’impresa: “agenti” mandanti nonché componenti politici fondamentali dell’insieme strategico imprenditoriale, sempre attento a far ricadere l’incertezza degli investimenti sull’azionariato popolare, beota e inconsapevole, da immolare sull’altare della perdita conflittuale (competizione) dell’impresa.

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La Fondazione Alferov Italia a Cuba

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Dall’8 al 12 settembre, su invito del professor Fidel Castro Balart, Consigliere di Stato per la Scienza della Repubblica di Cuba, figlio primogenito di Fidel Castro, si è recato a L’Avana il Premio Nobel per la Fisica Zhores Alferov, vicepresidente dell’Accademia delle Scienze russa, decano della Duma, rettore dell’Università di San Pietroburgo e recentemente nominato dal Presidente Medvedev responsabile scientifico del megaprogetto denominato “Silicon Valley Russa”. Accompagnato dall’editore Sandro Teti, presidente della Fondazione Alferov Italia , ha inaugurato, assieme a premio Nobel David Gross, il Terzo Seminario Internazionale di Nanoscienze e Nanotecnologie di Cuba.

Alla missione, organizzata dalla Fondazione Alferov Italia, hanno preso parte anche i vertici di due aziende italiane ad alto contenuto tecnologico, il Gruppo Beghelli e la società Akhela, che hanno anche incontrato l’ambasciatore d’Italia a Cuba S.E. Marco Baccin.

I vertici di Beghelli hanno visitato assieme ai professori Alferov e Castro Balart il Centro de Estudios Avanzados de Cuba (CEAC) e il relativo parco scientifico-tecnologico, in grande espansione, del Ministerio de Ciencia, Tecnología y Medio Ambiente (CITMA).

Il Gruppo Beghelli ha convenuto in via definitiva con i Professori che entro maggio 2011, sia inaugurata una centrale fotovoltaica, interamente realizzata in Italia, donata congiuntamente a Cuba dal Gruppo Beghelli e dalla Fondazione Alferov. L’avanzatissima tecnologia della centrale sarà basata sul fotovoltaico a concentrazione di ultima generazione, concepito dal professor Alferov, la cui resa è di gran lunga superiore a quella dei tradizionali pannelli solari al silicio.

L’ing. Piercarlo Ravasio, a.d. di Akhela, e il professor Fidel Castro Balart hanno discusso un progetto di collaborazione che dovrebbe prevedere sia attività formative nel settore della Information Technology sia sviluppi congiunti con particolare riguardo alle tecniche di simulazione per il settore delle nano tecnologie.

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Federico Trocini, L’invenzione della “Realpolitik”

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L’invenzione della “Realpolitik” e la scoperta delle “legge del potere”
August Ludwig von Rochau tra radicalismo e nazional-liberalismo

Collana “Quaderni dell’Istituto storico italo-germanico in Trento”

pp. 264, € 20,00

978-88-15-13178-2
anno di pubblicazione 2009

Sullo sfondo dei complessi processi di rinnovamento politico, sociale, economico e culturale che si verificarono in Germania nel corso dell’Ottocento e, in particolare, dal 1848 in poi, il volume ripercorre la biografia intellettuale di August Ludwig von Rochau (1810-1873).

Rochau ha introdotto nel lessico politico tedesco le nozioni, estremamente fortunate, di Socialismus e di Realpolitik, ma nonostante ciò risulta tuttora, rispetto ad altri pubblicisti politici della stessa generazione, un autore scarsamente noto sia in Italia sia in Germania.

Attraverso l’analisi del talora contraddittorio profilo politico e intellettuale di von Rochau – dagli anni giovanili dell’attiva militanza tra le fila delle associazioni studentesche sino agli anni della controversa conversione alla politica bismarckiana “del ferro e del fuoco” – il volume intende quindi ricostruire una porzione rilevante dei dibattiti che accompagnarono il processo di formazione dello Stato nazionale tedesco e al contempo le linee essenziali entro cui prese avvio, all’indomani del 1848, la riconfigurazione del nesso tra politica, morale e diritto alla luce del progressivo affermarsi del paradigma naturalistico della Realpolitik.

Federico Trocini, dottore di ricerca in Storia delle dottrine politiche, è attualmente borsista presso FBK – Studi storici italo-germanici. Il suo principale campo d’indagine è costituito dalla storia delle dottrine politiche in Italia e in Germania a cavallo tra Otto e Novecento.

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L’avvertimento

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Stavolta è toccato all’ambasciatore israeliano in Italia, Mr. Gideon Meir, ribadire esplicitamente le posizioni e i desiderata di Tel Aviv nei confronti del nostro Paese.

Con bastone e carota, con la sicumera propria di chi comanda e dispone, Meir richiama praticamente al rispetto dei ruoli assegnati e dei compiti da svolgere.

In un intervista del 23 settembre a Il Riformista la mette così: “Siete i nostri migliori amici ma attenti a non sgarrare”.

Oggetto del monitoraggio sono le relazioni economiche italo-iraniane, che non garbano agli israelo-americani innanzitutto sul piano geo-economico prima ancora che sul piano delle strette contingenze legate al discorso delle sanzioni e delle manovre ostili che, a cominciare dai Paesi occidentali, dovrebbero attuarsi nei confronti dell’ ”indisciplinato” Iran.

Mr. Meir snocciola prima il refrain dei consolidati legami che intercorrono tra Italia e Israele, anche alla luce delle più recenti iniziative e delle ribadite manifestazioni fideistiche del nostro Governo, poi va al nocciolo della questione in maniera succinta ma non eludibile: l’Italia ha promesso di limitare gli affari con gli iraniani oltre il territorio tracciato dalle stesse sanzioni Onu, e dunque deve rispettare la parola data e conformarsi alla strategia prestabilita, o meglio imposta.

E’ evidente che Tel Aviv conosce bene una certa italica ambiguità e non è disposta a tollerare oltremisura furberie da filibustieri.

Lo spunto per quest’ordine di considerazioni è offerto dai nuovi dati Istat e ripresi appositamente dal quotidiano israeliano Yediot Aharonot.

Mentre Berlusconi e il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini hanno dichiarato di comprendere la necessità di compromettere la capacità dell’Iran di sviluppare armi nucleari, la politica del loro governo sembra favorire le relazioni commerciali con Teheran, aiutando a consolidare il regime degli ayatollah. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica dell’Italia, l’import italiano dall’Iran è più che raddoppiato nel primo semestre del 2010 per un totale notevole di € 2.000.000.000. Confrontando, tutto l’import italiano nello stesso periodo del 2009 è pari a € 847.000.000. L’export verso l’Iran è inoltre aumentato significativamente, passando da 892 milioni di euro nel 2009 a oltre 1 miliardo di euro. I dati mostrano inoltre che i due paesi non scambiano maggiormente prodotti di base, ma prodotti utilizzati per le infrastrutture, l’energia e l’industria, come pure per le comunicazioni satellitari e vari prodotti tecnologici.

L’interesse degli Stati Uniti

Le prime relazioni indicano che le imprese italiane hanno sostenuto l’esercito iraniano. Il CEO del fornitore di energia in Italia ENI è stato convocato al Dipartimento di Stato Usa, all’inizio di quest’anno, al fine di spiegare l’ enorme portata degli scambi commerciali tra i due paesi. La questione è stata discussa negli ultimi quattro anni e continua ad essere fonte di preoccupazione, nonostante le sanzioni Onu all’Iran, le promesse italiane al governo degli Stati Uniti e la visita di Berlusconi in Israele”.

Tutto ciò conferma e ci riporta una volta di più all’intelaiatura di argomentazioni e considerazioni che ab ovo stiamo delineando in merito agli assetti interni, alla proiezione estera e agli interessi del nostro Paese nel globo e in particolare nel Vicino Oriente, tradizionale delicatissima area dove si misurano fondamentali equilibri geopolitici e strategici dai quali l’Italia per naturale predisposizione non può restare estranea.

Israele, concentrata nel mantenere gli effetti derivanti dalle sue posizioni di forza, continua a porre nei confronti di tutti i partners l’essenzialità del suo (e riconosciuto tale) eccezionalismo con la susseguente attenzione per la prioritaria questione della sicurezza nazionale, la quale passa per un controllo regionale supportato dalla supervisione globale americana.

Anche agli Usa preme che dati attori internazionali non cimentino legami economico-industriali che, oltre a veicolare elementi di sviluppo all’interno degli stessi, fungano da moltiplicatore di rapporti e di iniziative più squisitamente politiche.

Il quadro generale di instabilità e incertezza complica significativamente le letture da parte di tutti i protagonisti e quindi può verificarsi che scelte più dure e intransigenti possano sembrare le più opportune e sicure, a discapito, però, di soluzioni possibilmente ponderate.

Da parte sua, l’Italia continua a subire una politica dei diktat che persiste non solo per i conclamati rapporti di forza atlantici sussistenti, ma anche in virtù di una ormai insufficiente pseudo-strategia nazionale, o meglio, in virtù di una ormai antistorica carenza sul piano della pianificazione strategica a fronte dell’avanzante multipolarismo.

Gli affari con l’Iran non sono di poco conto e l’Italia è pur sempre il secondo partner commerciale europeo dopo la Germania. Ma non solo, l’accento va posto, come gli stessi israeliani e americani fanno, sul dato delle infrastrutture e dei prodotti scambiati che concerne certamente la fondamentale questione energetica, ma anche quella particolarmente delicata degli sviluppi e delle forniture tecnologico-militari. Su questi terreni di competizione e a seconda dei contesti regionali, le forze dominanti necessitano oltre che del controllo persino della supremazia.

Allo stato attuale dell’arte, consapevoli della limitatezza delle classi dirigenti e di riflesso della loro capacità di azione, rimane un dato positivo che, per quanto sbandierata e fatta ben risuonare, l’immediata ritirata dal suolo persiano non sia avvenuta e che, anzi, i dati ci forniscano indicazioni di altro segno.

Da qui, due pesanti punti in sospeso.

Alla luce delle pressioni continue, della nostra debolezza geopolitica strutturale e della buia classe politica, se e fino a dove possiamo permetterci un andamento cripto-doppiogiochista, fermo restando che sarebbe ora di svincolarsi e predisporsi finalmente in maniera assertiva?

Alla luce degli eventi interni inestricabili dai giochi di forza internazionali (come da tempo evidenziamo), l’avvertimento ed il disappunto di Meir, gli ennesimi pervenuti dai noti ambienti,

in che modo si materializzeranno?

Possiamo immaginare… L’ultimatum è già suonato.

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Vinod Saighal, Third Millennium Equipoise

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“IL CONTRAPPESO DEL TERZO MILLENNIO”

Nel dibattito mondiale su cosa potrebbe essere e cosa potrebbe rappresentare il Terzo Millennio per la storia dell’umanità e del pianeta nel suo insieme, l’insigne militare e analista politico indiano, il Generale Vinod Saighal, come il più impegnato  tra gli uomini della nostra epoca, fa sfoggio di un pensiero profondo ed esatto. Non è raro, né fortuito, nel senso della pura casualità, il caso di geni-militari – come Giulio Cesare e Napoleone Bonaparte – che hanno anche lasciato un importante contributo letterario, o ancora quello del Generale Lewis Wallace (1827 – 1905) romanziere e autore, tra le altre, della popolare opera portata  sugli schermi “Ben Hur”, che fu – egli stesso – un rappresentante diplomatico statunitense presso il governo turco tra il 1881 e il 1885. Sir Winston Churchill, meriterebbe un commento a parte, ma il semplice fatto di citarlo, mi esime dal farlo. Il Maggiore Generale Vinod Saighal, che nella sua rilevante carriera militare nel Contingente Militare dell’India a Parigi non è un romanziere né uno statista dello stampo dei primi, la cui gestione politica tuttavia suscita polemiche e controversie. Vinod Saighal è un’umanista. È uno stratega nato e un acuto analista politico. Ma egli è, prima di tutto, un pensatore di larghe vedute; avanza proposte che scuotono il mondo delle idee e stuzzicano l’immaginazione fino ad indurre il lettore a domandarsi: perché no…? Perché non pensare ad un mondo migliore e più giusto, in un nuovo ordine mondiale; un mondo, evocando il Mahatma Gandhi, nel quale ognuno debba essere il cambiamento che pretende e cerca.

Scrivo questo saggio a proposito della sua recente pubblicazione “Third Millennium Equipoise”, nonostante l’importanza del contributo di altre sue opere come “La ristrutturazione della sicurezza nel Sud-est asiatico”, “La ristrutturazione del Pakistan”, “Affrontare il terrorismo globale: il cammino in avanti e i paradossi della sicurezza globale: 2000-2020”,  così  come i numerosi articoli  e le diverse pubblicazioni, tutti di uno spessore molto simile e con proposte ed alternative chiare, oltre a un’analisi contestuale sintetica e ben equilibrata. Il millennio al quale si fa riferimento, è il terzo dopo la nascita di Gesù.

Saighal, sceglie i vocaboli in inglese nel modo  attento con cui seleziona la sua strumentazione teoretica e delinea le sue idee fondamentali. Il filo conduttore della sua analisi è l’essere umano, la sua vita in società e la relazione amorosa dei due attori con il pianeta, che diventa fondamentale per la sopravvivenza di tutti. È così che sceglie il vocabolo equipoise, con un patrimonio etimologico che viene dal latino e dal francese e che ci riporta ad un concetto basilare: lo stesso peso, diremmo anche, ‘la stessa misura’, che rende possibile il contrappeso e da cui deriva l’idea di ‘equilibrio’ e che giustifica la traduzione in castigliano di LeopoldoTaylhardat “Equilibrio nel Terzo Millennio”, impeccabile e corretta.

Senza dubbio, si potrebbe dire che la permanenza di Saighal a Parigi, così come la sua lettura sollecita e profonda de “Lo spirito delle Leggi” del Barone di Montesquieu, Charles Louis de Secondat, permetterebbero di spiegare e comprendere meglio il perché della scelta del vocabolo equipoise. Secondo Montesquieu, la necessità di contrappesi per l’equilibrio dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) è la condizione necessaria per la libertà, tanto per la sua esistenza quanto per il suo predominio, soprattutto in un sistema democratico, benché egli fosse un monarchico.

Ricordando Montesquieu, con una parafrasi non particolarmente forzata, diremmo che non si potrebbe affrontare questo nuovo millennio, il terzo della nostra attuale esistenza, con il ‘timore’ del dispotismo, fosse questo legato al nucleare o discendesse dalle superpotenze o da economie altamente sviluppate o ancora in via di sviluppo, e molto meno ancora dal crimine organizzato internazionale; ‘l’onore’ delle  monarchie invecchiate ha ceduto il passo alla dignità dell’individuo che da vita ai popoli, dignità che sostiene il rispetto incondizionato e pieno dei diritti umani che devono predominare nelle nostre società. Mentre la ‘virtù’ delle repubbliche si tutela oggi con una gestione governativa trasparente e di conseguenza con il garantire un generale benessere, attraverso uno sviluppo sostenibile delle risorse naturali, di ogni unità statale e della totalità del pianeta.

In questo senso e parallelamente a quello spirito delle leggi, Saighal propone misure concrete e lucide in una sequenza di tappe definite nel tempo e non si astiene dal prospettare l’abolizione totale degli arsenali nucleari. Per esempio, mentre ricorda il rischio che comporta il traffico illegale di armi leggere, in cui è implicata anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite, che fanno e autorizzano la maggior parte degli attori tradizionali dello scenario mondiale, gli Stati, insieme con i nuovi organismi internazionali e le recenti e singolari ONG, che pure hanno posto in questa nuova struttura mondiale del Terzo Millennio. Riguardo a ciò, Saighal ha fondato una ONG di particolare importanza: il Movimento per la Restaurazione di un Buon Governo Mondiale (Movement for Restoration of Good Government) ed è direttore di un’altra, la Società di Controllo Ambientale (Eco Monitor Society) i cui lavori ribadiscono in che modo gli individui possano oggi affrontare le loro relazioni con gli Stati e le organizzazioni internazionali, come nuovi attori delle questioni internazionali.

“Nella loro maggioranza, i militari del mondo intero hanno guardato ai periodi di pace come a degli intervalli tra le guerre. Questo modo di pensare distruggerebbe il mondo del terzo millennio (…)”[1].

“È tempo che, così come si pianificano le azioni di guerra, si creino dei ministeri per fare e mantenere la pace”[2].

Entrambe le citazioni sono cruciali per comprendere questo nuovo millennio che ci tocca vivere e per mettere in pratica il valore della vita in una visione universale.

Le epoche del potere militare e della diplomazia, nel senso machiavellico o Kautilyano[3] del termine, sono finite. C’è bisogno di una nuova diplomazia, una diplomazia di pace per la pace e un’educazione sociale e individuale sulla stessa linea. Precisamente in questo stesso senso, il motto del Servizio Diplomatico del Perù dice: JUS ECCE PAX. Un ricordo più sintetico della citazione del grande messicano don Benito Juárez: “Il rispetto al diritto altrui è la pace”, ne deriverebbe che, in questo terzo millennio, ciò che è d’altri è di tutti, e, merita lo stesso identico rispetto tanto se è nostro quanto se è d’altri. Non possiamo compromettere il futuro delle generazioni che verranno e ipotecare la sopravvivenza del pianeta per soddisfare appena le statistiche.

Nella prima parte della sua opera “La ricerca”, due capitoli sintetizzano la sua visione d’insieme: “il grande dibattito sul nucleare” e “le riforme del Consiglio di Sicurezza”. Per quanto riguarda il primo, si tratta di “ottenere la pace, anziché fare la guerra”[4] e si affronta un tema cruciale come quello della ‘scioglimento delle sovranità’ da parte delle nazioni e dice testualmente: “ A meno che esse non accettino certi limiti alla loro sovranità nazionale, il mondo che conosciamo cesserà d’esistere”.[5]

Quindi, dovrà verificarsi un salto evolutivo dal concetto superiore di ‘interessi nazionali’ a quello più ampio di ‘interessi globali’, in altre parole, approdare ai ‘supremi interessi planetari’, come egli stesso li chiama[6].

Tra i ‘supremi interessi planetari’, Saighal  elenca indirettamente (a) “non-mettere in pericolo il futuro dell’umanità o della biodiversità ecologica, o portare all’estinzione le specie viventi”; (b) “-eliminare – le minacce contro l’ambiente o qualsiasi azione capace di produrre un olocausto mondiale”; (c) “-sradicare- il terrorismo nucleare o atti analoghi perpetrati da qualsiasi gruppo o individuo in qualsiasi parte del mondo”; (d) “-prevenire- attentati contro il patrimonio dell’umanità”; (e) “ ottenere o favorire- la trasparenza, la giusta applicazione delle decisioni della Corte Internazionale di Giustizia e l’eliminazione dell’arbitrarietà”[7] come temi iniziali del dibattito mondiale per approdare alla sottoscrizione di accordi globali.

A tale scopo, e nel sottotitolo “La negoziazione dei Trattati”, Saighal afferma categoricamente che “l’eliminazione totale delle armi nucleari è attualmente l’imperativo globale più importante” ,  ci conduce attraverso misure provvisorie, oggettive e soggettive, come la restaurazione del buon senso, la riduzione degli arsenali, la restrizione nucleare e lo sradicamento degli eccessi vendicativi. Poi, partendo da una premessa speranzosa, nel senso che “il mondo è preparato a rendere realtà l’armonizzazione globale”,[8] fa una critica frontale agli Stati Uniti, per l’ostentata indifferenza del governo di questo paese nei riguardi dell’ONU, verso la fine del 1996, quando un gruppo di senatori statunitensi umiliarono non solo l’istituzione ma anche l’insieme dei suoi rappresentanti. Pertanto l’ONU dovrebbe imparare a vivere senza l’appoggio di questa superpotenza, in modo proporzionale sollecitare l’aumento dei contributi degli altri paesi membri  e ridurre le sue spese.

La critica di Saighal al Giappone è certamente terribile, quando predice che “nel giro di cento anni nessuno più parlerà di una caratteristica identità giapponese” e conclude – con una affermazione  che non condivido –  ribadendo: “il Giappone, la vittima di Hiroshima e Nagasaki, apparentemente non ha alcun ruolo da sbrigare, a livello di governo, nello sforzo per ottenere un mondo libero  dalla minaccia nucleare all’interno di un calendario definibile[9].

Vinod Saighal propone formule per il boicottaggio mondiale degli attuali membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, da rinnovare annualmente finché  non raggiungeranno i loro obiettivi, perché mettano da parte il loro atteggiamento autocratico nel governo dell’organizzazione. Le riforme di questo Consiglio devono essere precedute da un dibattito globale al quale partecipino tutti gli attori della nuova scena mondiale, incluse le ONG, le università, i media, gli intellettuali, le corporazioni dei professionisti, quelli che devono tenere in considerazione “le aspirazioni dell’umanità per il prossimo millennio[10]. Da un punto di vista tecnologico, questo sarebbe possibile e fattibile. Le riforme da realizzare nelle Nazioni Unite non sono riforme ad hoc per l’organizzazione bensì quelle che l’umanità chiede per il suo futuro e la sopravvivenza di entrambe, dell’umanità e dell’organizzazione. In questo senso Saighal pensa ad una forma di governo diversa per l’ONU, che non sia il Consiglio di Sicurezza, e avanza la possibilità che, per evitare il trauma di alcuni Stati, che perderebbero immediatamente la loro posizione, questi potrebbero restare 10 anni nello stesso come membri semipermanenti senza diritto di veto.

In una prima tappa della transizione, il Consiglio di Sicurezza potrebbe iniziare con un’espansione provvisoria che includa nuovi membri: Germania, Brasile, Egitto, India, Indonesia, Giappone, Messico, Sudafrica e Vietnam. In questa tappa, sia la Francia che il Regno Unito perderebbero il loro diritto al veto su questioni globali e lo conserverebbero solo nei casi relativi ai loro territori e interessi nazionali. Il diritto di veto di Stati Uniti, Russia e Cina potrà essere annullato con un voto di rifiuto di 18 membri del nuovo Consiglio di Sicurezza ampliato. Naturalmente avremmo in questo caso un grande dibattito a favore e contro, a seconda della prospettiva degli interessi in gioco.

Saighal afferma che, in una tappa successiva, il Giappone e la Germania, dato che l’emisfero occidentale sarebbe sufficientemente rappresentato, non richiederebbero più posti separati;[11]infine, Stati Uniti, Cina e Russia, entro il 2005, dovrebbero perdere il diritto individuale al veto, e quest’ultimo dovrebbe essere completamente eliminato dallo schema dell’ONU. Le decisioni, quindi, verrebbero prese a maggioranza semplice o di 2/3 a seconda del caso.

Il nostro illustre autore propone la creazione di un Consiglio Nucleare Mondiale (World Nuclear Council) come un corpo autonomo e indipendente dell’Organizzazione con uno statuto i cui principi siano raccolti in una sequenza logica e ben ordinata e si concludano con una citazione testuale degli slokas (versetti) 8, 30, 35, 45 e 58 de “l’Inno alla Terra” di Atharva Veda[12], la cui visione e il cui fondamento ecologico sono veramente stupefacenti se si pensa a quanti millenni sono passati dal momento in cui furono creati per la prima volta.

La seconda parte ha come titolo “Progetto per un’era di umanismo” e questo progetto prevede, in primo luogo, la trasformazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e poi la totale abolizione dell’arsenale nucleare. Se entrambe le prospettive appaiono troppo utopiche, Saighal riporta in modo dettagliato i modi per uscire dall’impasse nucleare. Riguardo alla prima, stabilisce un cronogramma della transizione di 40 anni, la prima tappa è già trascorsa (andava dal 2000 al 2007) ma niente impedisce una sua applicazione posteriore adeguata; della seconda,

che è anche un processo, segnala e approfondisce i passi e le tappe così come i modi per una risoluzione nel giro di 50 anni, che non mi soffermo a descrivere né a commentare più approfonditamente, per limiti di tempo e di spazio. Dirò soltanto che tutto quanto è esposto appare molto sensato e perfettamente realizzabile, potendo contare sulla buona volontà di tutte le parti, e specialmente sulla volontà politica di quelle più direttamente coinvolte.

Lo sguardo in lontananza, che ispira il titolo della terza parte, non è meno concreto e ammirevole dei precedenti e ha una sfumatura quasi futuristica o fantascientifica quando si leggono le parole “Consiglio Planetario”; certamente, ancora una volta, le sue proposte appaiono pratiche e realizzabili, sorprendenti per la loro semplicità e chiarezza.

I piani per la resurrezione ecologica del pianeta non sono meno importanti rispetto a tutto quanto esposto  sinora e il tono poetico, così come la confidenza intimista  del suo Epilogo, non possono smettere di ricordarci lo stesso Rabindranath Tagore, che egli cita sin dal principio. Nel terminare la lettura di Saighal ci faremo una domanda in più (e questa sì che è una questione definitiva): qual è il contrappeso per il Terzo Millennio?

In linea generale, fatte salve le esigenze di dettaglio e la precisione storica, si potrebbe dire che il primo millennio è stato caratterizzato dalla creazione, la nascita e la crescita delle entità nazionali che si sono sviluppate in maniera graduale ma che sono rimaste confinate soprattutto a livello regionale, eventualmente supra-regionale, e che hanno scoperto modelli politici ed economici singolari: gli Stati nazionali. Il secondo millennio è segnato dalle scoperte geografiche e dall’appropriazione totale del territorio planetario sotto forma degli imperi e delle colonie, seguendo i modelli del primo millennio, conformati già ai moderni Stati nazionali, che però  immagineranno la graduale riaffermazione di un Diritto Internazionale che tenterà di superare la “legge del più forte” o “il diritto che nasce dalla vittoria”, così tipici del primo millennio e in misura decrescente in questo secondo millennio che è terminato da appena una decade.

In entrambi i casi, gli Stati nazionali erano gli unici attori validi sullo scenario internazionale, ma vero la fine del secondo millennio, appaiono gli organismi e le organizzazioni internazionali, i quali hanno assunto questo nuovo carattere di attori che contrappongono interessi comuni a posizioni minoritarie per potenti che siano. Gli inizi del terzo millennio vedono un’esplosione cosmica di un nuovo genere di entità, le ONG, e la maggiore rivoluzione nella storia dell’umanità: la tecnologia mediatica. L’individuo è formato,  autorizzato e potenziato tecnologicamente (via internet e altri mezzi) ad affrontare le sue relazioni con gli Stati, per partecipare in maniera attiva e diretta nell’arena mondiale e anche per integrare, in qualità di membri delle ONG osservatrici, diversi organismi e organizzazioni internazionali.

Il vero contrappeso del terzo millennio, benché Saighal non lo dica espressamente, l’equipoise non è altro che l’essere umano in maniera individuale, ubicato al centro di una nuova forma di organizzazione determinata – sia essa una ONG, o anche un gruppo sociale cibernetico – per partecipare e gravitare nelle grandi questioni mondiali. Se prima c’erano il clan e la tribù, poi la Nazione e lo Stato, oggi, sembra che sia il gruppo sociale nel cyberspazio, a costituire la base strutturale di quello che è la famiglia, sociologicamente parlando, a causa di questa proiezione planetaria dell’individuo nel terzo millennio.

In ogni caso, lo stesso autore apre un tremendo interrogativo rispetto al proprio paese, l’India, quando si riferisce agli Stati nell’architrave nucleare e include i paesi geograficamente vicini, chi più, chi meno in un’ambivalenza esistenziale degna dell’Amleto che scriverebbe William Shakespeare. Penso che, per Saighal, un’India convertita al potere nucleare mondiale sarebbe qualcosa di tanto contraddittorio quanto il “corpo di Rahu”[13] che però, ovviamente, esiste.

L’India è un modello multinazionale, multietnico e multiculturale che viene fuori da un trascendentale lavoro di artigiani sociali dello spessore di Sankaracharya, Mahavira, Buddha e Ashoka, Aurobindo e Ramakrishna, quando non dello stesso Akhbar e del Mahatma Gandhi. Le loro fonti di conoscenza scientifica e spirituale sono enormi e devono ancora essere studiate e comprese  del tutto, senza i pregiudizi dei colonialisti e degli imperialisti così tipici del secondo millennio.

Questa recente opera di Vinod Saighal, è un esempio più che interessante di tutto quello che ci si può aspettare come contrappeso nell’equipoise del terzo millennio.

Nuova Delhi, agosto 2010

Generale Vinod Saighal

Già direttore generale della formazione militare dell’esercito indiano, è stato membro del contingente militare dell’ambasciata dell’Unione Indiana in Francia e nei Paesi Bassi. Attualmente ha fondato il Movement for Restoration of Good Government (MRGG) ed è direttore della Eco Monitors Society (EMS). Autore di numerose opere di strategia e analisi politica: Equilibrio del Terzo Millennio; La Ristrutturazione della Sicurezza nel Sud dell’Asia, La ristrutturazione del Pakistan, Affrontare il terrorismo globale: Il cammino in avanti e i paradossi della sicurezza globale: 2000-2020. Sito web www.vinodsaighal.com


[1] Op. cit. III par., p.26

[2] Op. cit. IV par., p.26

[3] ] Kautilya o Chanakya, statista indiano, autore dell’ ‘Artha Shastra’, filosofo, Primo Ministro e consigliere dell’Imperatore Chandragupta (320-297 a.C.), nonno del grande Imperatore Asoka.

[4] Equilibrio nel terzo millennio, Vinod Saighal, Timeli Editions, Venezuela, 2008, I par, p. 29.

[5] Op. cit., IV par, p. 41.

[6] Op. cit., títolo, p. 71

[7] Op. cit., IV par, p. 71 e succ. alla p. 72.

[8] Op. cit., I par, p. 73

[9] Op. cit., III par, p. 76

[10] Op. cit., II par, p. 80

[11] Secondo Saighal, il Giappone è un paese più statunitense che asiatico, ved. Nota 5.

[12] Atharva Veda, il quarto dei Veda Indù, che include preghiere e formule rituali.

[13] Rahu, è il Nodo Lunare Nord, che la tradizione dei veda ricorda come un Asura –demonio- che riuscì a bere il sacro nettare dell’immortalità, l’Amrita, riservato ai Deva –gli dei – e prima che attraversasse la gola e giungesse al corpo, fu decapitato; per cui, oggi è soltanto una testa che sopravvive senza il corpo, che fu alla fine distrutto…

Traduzionea cura di Ilaria Poerio

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Mosca e Pechino coordinano gli sforzi sul piano internazionale

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Fonte: Global Research (http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=21210) 27 Settembre 2010 – Russia Today

L’intensità dei contatti tra le dirigenze russa e cinese va incontro “agli interessi del partenariato strategico“, ha detto il presidente Dmitry Medvedev. “Questo è il nostro quinto contatto dell’anno”, ha detto il presidente in un incontro con il leader cinese Hu Jintao . I contatti continueranno per soddisfare gli interessi di entrambi i paesi, il presidente russo ha aggiunto. Hu Jintao ha risposto, dicendo che la visita di Medvedev avrà un forte impatto sullo sviluppo delle relazioni russo-cinesi. La precedente visita del presidente russo in Cina, ha avuto luogo nel maggio 2008.
A Pechino, Medvedev e Hu hanno discusso una serie di questioni internazionali, tra cui la situazione nella penisola coreana e il programma nucleare iraniano. Mosca e Pechino cercano di coordinare le posizioni sul problema della penisola coreana, che si è intensificato di recente, ha detto il consigliere del presidente russo Sergej Prikhodko all’agenzia Itar-Tass. I due paesi coopereranno attivamente  anche sui problemi connessi alla questione nucleare iraniana. Russia e Cina vogliono che l’attuazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sia “intesa a riportare la parte iraniana a una fruttuosa collaborazione con la comunità mondiale e l’Aiea“, ha sottolineato il consigliere presidenziale.
La Cina è uno dei partner più attivi della Russia nel garantire la stabilità strategica, Prikhodko ha osservato. Secondo lui, i leader firmeranno una dichiarazione congiunta sul rafforzamento a tutto tondo delle relazioni di partenariato e di cooperazione strategica russo-cinesi, insieme ad altri documenti politici. “La direzione  più importante del partenariato strategico è la cooperazione sulla scena internazionale”, ha osservato il consigliere. E’ volta a “consolidare la multi-polarità e alla formazione di un nuovo ordine mondiale democratico, basato su approcci collettivi, l’uguaglianza, le norme generalmente riconosciute e i principi del diritto internazionale“, ha detto all’agenzia Prikhodko.
I leader di Russia e Cina firmeranno un accordo sulla cooperazione nella lotta contro il terrorismo, l’estremismo e il separatismo. Diversi accordi sono stati firmati nel settore dell’energia, durante la visita di Medvedev.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://www.bollettinoaurora.da.ru
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/

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