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Channel: Wahhabismo – Pagina 253 – eurasia-rivista.org
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Slegare i nodi sino-indiani

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Due settimane di letture in giro per la Cina in aprile sono state rivelatrici a proposito di quanto i discorsi indiani fossero inclusi nei venti di cambiamento che attraversano il paese. Il giorno in cui sono arrivato a Pechino da Shanghai sulla strada per il Tibet, la capitale cinese riceveva una figura immensamente controversa nelle politiche di questa regione – il temibile “Amir”(presidente) del Jamiat Ulema-e-Islam (JUI-F) del Pakistan, Maulana Fazal-ur.Rehman, sospettato di essere il “padre dei Talebani.”
Due aspetti della visita del Sig. Rehman mi hanno intricato. IL JUI-F non ha alcuna controparte cinese ma Pechino ha risolto il dilemma facendo entrare in scena il Partito Comunista Cinese (CCP) a stringere le mani del Sig. Rehman. Il CCP e il JUI-F potrebbero sembrare acqua e olio ma la Cina di oggi spera di poterli mischiare. Durante la visita del Sig. Rehman, il CCP e il JUI-F hanno firmato insieme un memorandum di cooperazione. Dopo Pechino il Sig.Rehman si è diretto verso lo Xinjiang.
E’ stato un momento eccezionale – vedere l’energico Maulana esposto alle violente politiche di questa regione, grazie all’ideologia dell’Islam militante praticato dalla sua stirpe e alla pura audacità, o totale ingenuità, delle politiche pechinesi a invitarlo mentre lo Xinjiang si sta dissanguando per mano dei militanti islamici basati in Pakistan e sostiene a fatica gli intrighi della mafia della droga sulla strada del Karakorum.

Sicuramente il Pakistan è di un’importanza immensa per le strategie della Cina. E’ un amico di vecchia data, un mercato per le esportazioni cinesi, un ponte vitale per la nuova catena di comunicazioni che unisce il Golfo Persico, il Medio Oriente e l’Africa; ma soprattutto, una terra che ospita militanti Islamici cinesi che potrebbero essere caduti sotto l’influenza di potenze straniere. Non sorprendentemente, le comunicazioni di sicurezza con Islamabad hanno assunto un’alta priorità. Il seguente rapporto della settimana scorsa sul giornale quotidiano “China Daily” di proprietà del governo cinese, ha sottolineato la complessità della situazione: “Un numero crescente di membri del Movimento Islamico del Turkestan dell’Est (ETIM) che ha condotto gli scontri ed è segnalato come gruppo terrorista dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, stanno, secondo quanto si dice, fuggendo in Pakistan e sistemandosi là per i futuri piani. Secondo gli ultimi rapporti, l’ETIM ha stretto una vicina collaborazione con i talebani e con Osama Bin Laden. Pare che un capo dell’ETIM sia anche stato nascosto in Pakistan e vi sono notizie di un “battaglione cinese” costituito di circa 320 membri dell’ETIM delle forze talebane. “Non è difficile per loro nascondersi in Pakistan. Hanno credenze religiose, sembianze somatiche e lingue simili a quelle dei locali.” ha scritto il giornale di Pechino World News segnato al 1 luglio.
Inoltre, la Cina sta affrontando sfide geopolitiche senza precedenti nel portare avanti “l’amicizia perpetua” col Pakistan. Il Pakistan è diventato un terreno di caccia per le strategie regionali degli Usa. C’è una differenza qualitativa dalle iniziative di collaborazione Usa-Pakistane durante la Guerra Fredda. Gli Stati Uniti oggi dipendono dalle forze militari pakistane per mettere fine alla guerra afghana, così che, senza le inconvenienze della guerra che mettono a rischio l’opinione pubblica occidentale, la continuazione della presenza militare della NATO possa diventare sostenibile. In breve, il Pakistan è un alleato praticamente insostituibile per gli Usa nella presente fase geopolitica della regione, e rimarrà tale per il futuro prossimo, data la sua posizione geografica, l’economia politica e per la sua capacità unica nel dialogare coi gruppi terroristici. L’arrivo prossimo del segretario di stato Hillary Clinton a Islamabad per co-presenziare al dialogo strategico tra Usa e Pakistan – il secondo in quattro mesi – sottolinea di nuovo la centralità del Pakistan all’interno dei calcoli della politica estera di Washington.
Ciò che emerge è che non si da più il caso che qualsiasi cosa faccia la Cina in Pakistan sia per stimolare quache motivo ulteriore ad andare contro l’India o che la politica di Pechino verso il Pakistan sia ancora quintessenzialmente Indio-centrica. Di fatto, la tendenza per un certo periodo è stata quella di Pechino che cercava di mantenere un equilibrio nelle sue relazioni tra l’India e il Pakistan. Sfortunatamente, sezioni motivate della comunità strategica indiana nel loro diretto interesse a favorire le geo-strategie Usa, spesso offuscano deliberatamente queste realtà geopolitiche che fanno pensare. Il simbolismo nella politica del primo ministro cinese Wen Jiabao e degli altri leader che hanno ricevuto il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Shiv Shankar Menon a Pechino, e che con lui hanno intrattenuto discussioni in quanto inviato speciale del primo ministro, giusto prima dell’arrivo del presidente pakistano Asif Ali Zardari durante una settimana di “visite di lavoro”, non può passare inosservato – pur ammessa l’alta stima in cui si tiene conto del Sig. Menon in quanto studente diplomato sulla Cina.
Che è il motivo per cui le le osservazioni del Sig. Menon che hanno seguito le sue riunioni a Pechino, devono essere accolte come riflessive di una profonda comprensione agli alti livelli del policymaking indiano di New Delhi riguardo alla sfida più cruciale della politica estera indiana nel periodo a venire: Le relazioni con la Cina. Il Sig. Menon ha detto che l’India sta mirando a costruire “una relazione [con la Cina] che non sia controllata esternamente”.
Se tutto va bene, sarà stato messo un bel tappo al bartattolo di vermi che lo Zio Sam ha periodicamente tenuto di fronte ai nostri occhi – “un’alleanza di democrazie asiatiche” che includa anche il Giappone, gli Stati Uniti e l’Australia. Esiste una forte necessità di proteggere la fase di normalizzazione dell’India con la Cina dalle occasionali interferenze degli Stati Uniti. Ai margini del recente dialogo avvenuto a Washington sulle strategie Usa-Indiane, vecchi ufficiali americani hanno risuscitato le idee di George W. Bush sugli Stati Uniti e l’India che controllano l’Oceano Indiano collaborando insieme al Giappone e all’Australia – dottrine che sembravano diventate ormai irrilevanti e donchisciottesche dopo che è esplosa la crisi finanziaria mondiale e sono emerse nuove realtà nel sistema internazionale.

Allo stesso modo, l’India deve guardare ai legami sino-pakistani in prospettiva e con un nuovo modo di pensare. Il Sig. Menon è stato colto nell’affermare che la stretta relazione della Cina col Pakistan non dovrebbe avere alcuna relazione con lo slancio di Nuova Delhi mentre monta l’impeto dei legami Sino-Indiani. Di certo è un buon momento per sciogliere i nodi. “Non siamo più in una situazione di gioco del tipo o così o niente. La nostra relazione [indiana] con la Cina non dipende dallo stato dei nostri rapporti col Pakistan, o viceversa. E a giudicare da ciò che ho visto essere stato messo in pratica negli ultimi anni, credo valga anche per la Cina”. Ha detto questo mentre metteva l’accento sulla convergenza degli interessi indiani e cinesi su una scala di argomenti globali, che richiedono un “nuovo periodo della relazione”.

Il governo ha fatto bene a rifiutare di farsi attrarre dalle esortazioni suggerite da alcune sezioni della nostra [indiana] comunità strategica per unirci nella controversia sulla questione nucleare tra Cina e Pakistan a fianco di Pechino – nonostante le naturali preoccupazioni su chiunque faccia accordi col Pakistsan, che potrebbero essere collegati alla non-proliferazione nucleare. Il Sig. Menon ha detto:”Questo [accordo Sino-Pakistano] non è stato l’intero proposito della visita. Ha occupato meno di due frasi e mezzo in tutta la visita”. Gli opinionisti americani e la rumorosa lobby pro-americana della comunità strategica indiana hanno suggerito che l’accordo nucleare sino-pakistano fosse inizialmente diretto contro l’India. Per citare un articolo di un quotidiano occidentale, “la Cina e il Pakistan minacciano di distruggere le aspirazioni nucleari indiane iniziando una collaborazione tra loro stessi”. Comunque sia, i due reattori che la Cina si propone di costruire in Pakistan nel complesso di Chashma sotto la salvaguardia della IAEA non minaccia la sicurezza indiana né sbilancia “l’equilibrio strategico” tra India e Pakistan. Al contrario, se il Pakistan entra nella piega di un qualunque regime di non-proliferazione includendo la salvaguardia della IAEA che la Cina sembra avere in mente, potrebbe essere che succeda una cosa buona.
Di nuovo, i commentatori americani hanno cercato di insinuare che il dialogo tra Cina e Pakistan solleva apprensione nella comunità internazionale, che in cambio potrebbe rianimare i dubbi sulla saggezza degli Usa che stanno preparando un ordinamento speciale per l’India. Queste sono mere sciocchezze. La prova decisiva sarà la prontezza del Giappone ad aprire i negoziati per poter esplorare le possibilità di un commercio nucleare con l’India. Ciò che è sottovalutato è che l’NPT in quanto tale non ha sottoscritto un accordo di scambio con un paese non-firmatario come l’India. Piuttosto, sono stati il Gruppo di Rifornimento Nucleare (NSG) a mettere la “cortina di ferro”. L’NSG era una concussione al 100% americana mirata a penalizzare l’India sotto un regime multilaterale designato. In poche parole, come gli Usa hanno iniziato a sentire il bisogno pressante, nei termini della sua strategia globale, di creare un’alleanza con l’India come potenza emergente, le barriere sono divenute un inconveniente relitto del passato. Allo stesso modo, non ci dimentichiamo che gli Usa potrebbero probabilmente offrire un accordo sul nucleare al Pakistan a qualche punto.
In breve, Pechino si prende cura dei suoi legami col Pakistan in un momento cruciale come questo in cui figura come alleato chiave delle strategie regionali degli Usa. Il Pakistan, da parte sua, è un partner esemplare che elimina decisamente ogni intereferenza degli Usa nel suo rappporto con la Cina. Gli Stati Uniti sono stati abbastanza esperti da realizzare le virtù dello “slegare nodi” in questa complicata regione. Lo spettacolo offre un occasione di moralità all’India.

Traduzionea cura di Almerico Matteo Bartoli

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Vertice quadrilaterale a Sochi

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Fonte: Strategic Culture Foundation http://en.fondsk.ru/print.php?id=3221 22/08/2010

Il 18-19 agosto, i presidenti di Russia, Tagikistan, Afghanistan e Pakistan si sono riuniti per la seconda volta a Sochi. Il vertice è stato reso necessario soprattutto dalle recenti tensioni tra il Tagikistan e l’Uzbekistan e dal prossimo ritiro delle forze statunitensi dall’Afghanistan. Senza dubbio, il ritiro sbilancerà l’equilibrio geopolitico in Asia centrale e, in particolare, esporrà il Tagikistan – una repubblica che condivide un lungo e scarsamente sorvegliato confine con l’Afghanistan – a seri rischi. Essendo il paese che ospita la via di transito utilizzata per rifornire le forze della NATO in Afghanistan, il Tagikistan è di fatto coinvolto nella guerra afgana.

L’ordine del giorno del vertice riguardava la sistemazione dell’Afghanistan, la lotta contro il traffico di droga, l’assistenza tecnico-militare, e altre, della Russia verso Kabul, e numerosi progetti energetici e infrastrutturali. Attualmente il Tagikistan considera la costruzione di una superstrada tagiko-pakistana, e una linea di trasmissione per la fornitura di energia elettrica al Pakistan attraverso l’Afghanistan.

Le relazioni tra il Tagikistan e l’Uzbekistan sono tese per la costruzione della diga di Rogun. Tashkent teme che la diga permetterà al Tagikistan di manipolare il flusso di acqua consumata dal settore agricolo uzbeko, e quindi di esercitare una pressione politica sul Uzbekistan. Dalla fine del 2009, l’Uzbekistan ha imposto limitazioni al transito ferroviario verso il Tagikistan, ostacolando la consegna di materiali da costruzione necessari per costruire la diga di Rogun, praticamente paralizzando le forniture ferroviarie del Tagikistan.

Il Tagikistan ha già chiesto alle Nazioni Unite e all’OSCE di contribuire a risolvere il conflitto, e il blocco è stato parzialmente revocato, ma in seguito l’Uzbekistan tornato alla sua politica precedente. Inoltre, l’Uzbekistan sta esercitando una più ampia pressione economica sul Tagikistan. Due volte, l’anno scorso, Tashkent ha introdotto tariffe più elevate riguardo il trasporto ferroviario verso il Tagikistan, l’aumento è stato del 10% a partire dal 1° febbraio 2010, più un altro 11% a partire dal 9 agosto. I vettori stimano che le perdite risultano apri a 5,5 milioni di dollari. Il Tagikistan sostiene, inoltre, che il servizio della dogana uzbeka apre illegalmente i vagoni al valico di frontiera di Kudukli e confisca le merci non dichiarate.

Il conflitto tra l’Uzbekistan e il Tagikistan non si limita alla controversia del transito ferroviario. Quest’estate, le due repubbliche hanno delimitato lo spazio aereo e hanno iniziato ad accusarsi a vicenda per l’uso dello spazio aereo. In realtà, non ci sono voli diretti tra il Tagikistan e l’Uzbekistan da 18 anni. L’anno scorso l’Uzbekistan si è ritirato dal Sistema Energetico dell’Asia centrale, rendendo più difficile per il Tagikistan esportare energia elettrica. I problemi sorgono nel periodo estivo, quando il Tagikistan è costretto a scaricare inutilmente ingenti quantitativi di acqua dalle sue riserve. In cima a tutto, la delimitazione del confine tra le due repubbliche e la rimozione delle mine nelle vicinanze, ancora attendono una conclusione.

Le tensioni tra il Tagikistan e l’Uzbekistan hanno raggiunto una tale intensità che, di tanto in tanto, i media discutono la possibilità di un conflitto armato tra le due repubbliche. Militarmente, l’Uzbekistan è molto più forte di Tagikistan. In realtà, le forze armate uzbeke sono tra le più potenti dell’Asia centrale, ma il coinvolgimento probabile in potenziale conflitto di forze esterne – come i tagiki dell’Afghanistan – provocherebbe prontamente l’escalation delle ostilità di proporzioni regionali.

Nel corso degli ultimi 18 mesi, la controversia relativa al completamento della costruzione della diga di Rogun ha gettato un’ombra permanente sui rapporti tra Dushanbe e Mosca. I disaccordi tra la Russia e il Tagikistan ruotano intorno alla proprietà dell’impianto. La Russia chiede una partecipazione del 75% come, è stato fatto nel caso della Centrale idroelettrica Sangtuda 1, ma il piano incontra la resistenza do Dushanbe. Il Tagikistan, però, non riesce a completare la costruzione, attualmente congelata, in modo indipendente, neanche a costo di costringere la popolazione ad acquistare azioni della centrale idroelettrica di Rogun.

Gli interessi della Russia in Tagikistan non si limitano ai progetti energetica e infrastrutturali. Questioni importanti per la Russia sono il dispiegamento della sua base aerea di Aini, 25 km a sud di Dushanbe, la ripresa delle trasmissioni da parte del canale russo RTR-Planeta TV, che è stato sospesa un anno fa con il pretesto delle more, e la risoluzione del problema di indebitamento della centrale idroelettrica Sangutda 1, di proprietà dell’INTER RAO UES della Russia.

Maggiore complessità derivano dal fatto che il miglioramento delle relazioni della Russia con una delle due repubbliche – Uzbekistan o Tajikistan – invariabilmente riecheggia tensioni nei rapporti con l’altra. Le relazioni di Mosca con Tashkent non sono esattamente prive di problemi. Dopo aver lasciato la Comunità economica eurasiatica, due anni fa, l’Uzbekistan rimane nell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, ma sembra riluttante a collaborare realmente con essa. Media affermano che gli investimenti russi sono sempre più sgraditi in Uzbekistan.

La Russia è improbabile che adotti tutti i provvedimenti decisi dopo il vertice di Sochi, ma Mosca è costantemente alla ricerca di soluzioni innovative in Asia centrale, che renderebbero possibile la costruzione di relazioni di lungo termine e reciprocamente gratificanti con una delle repubbliche della regione, senza danni per i legami con l’altra.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Russia e Pakistan dopo il vertice quadrilaterale di Sochi

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Fonte: Strategic Culture Foundation
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23/08/2010

Il vertice di Sochi del 18-19 agosto, cui hanno partecipato i leader di Russia, Pakistan, Afghanistan e Tajikistan – il secondo dall’incontro di Dushanbe del luglio 2009 – ha mostrato che questo formato aiuta, in effetti, ad affrontare i problemi geopolitici dell’Asia centrale e a rafforzare la pace e la sicurezza nella regione.

L’ordine del giorno di Sochi era sovrastata dalla lotta contro il traffico di droga e il terrorismo e dalla cooperazione economica tra i paesi della regione. La tragica situazione in Pakistan, paese in cui un diluvio senza precedenti ha provocato un disastro nazionale, ha attirato l’attenzione particolare del vertice. I leader dei quattro paesi hanno, inoltre, discusso gli sforzi congiunti antinarcotici e le prospettive per stabilizzare l’Afghanistan – in particolare la sua zona di confine adiacente al Pakistan – e la zona tribale del Pakistan della provincia del Khyber Pakhtunkhwa (precedentemente conosciuta come North-West Frontier Province).

Il presidente russo Dmitrij Medvedev e il suo omologo pakistano Asif Ali Zardari, hanno confermato, in un incontro bilaterale nel corso del vertice, che i due paesi sono interessati a una maggiore cooperazione nell’economia e nella politica internazionale. In apertura della riunione, i Presidenti si sono scambiate le condoglianze poiché la Russia aveva di recente affrontato una siccità e degli incendi boschivi insolitamente intensi, e il Pakistan ha subito un’alluvione devastante. A causa della critica situazione in Pakistan, il presidente Zardari ha dovuto lasciare il vertice diverse ore prima, invece di restare per due giorni, come precedentemente previsto. Sottolineando che la Russia è alla ricerca di una più stretta partnership economica con il Pakistan, il presidente Medvedev ha espresso rammarico per il poco era stato fatto finora, e sperava che la collaborazione si sviluppi con maggior dinamismo nel prossimo futuro.

Il Pakistan colpito dal diluvio è guardato con compassione in tutto il mondo. Le conseguenze socio-economiche della catastrofe si diffondono oltre i confini del Pakistan e colpiscono l’intera Asia centrale. Stando alle stime attuali, circa 20 milioni sono le persone colpite dalla catastrofe, che ha provocato quasi 1.700 morti e 2.090 feriti e ricoverati in ospedale. L’alluvione in Pakistan ha distrutto 576.000 abitazioni e il paese è stato costretto a creare 1.520 campi provvisori, ma un gran numero di persone ancora non ha rifugio e deve sopravvivere con piccoli pezzi di terra non allagati. Al momento, il Pakistan sta affrontando le minacce di carestie ed epidemie. Il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, ha descritto la situazione nel paese terribile e straziante. Ha detto che non aveva mai visto una catastrofe naturale di tali proporzioni, e ha chiesto più rapidi aiuti internazionali.

Anche se la maggior parte dei paesi e delle organizzazioni internazionali hanno già risposto alla richiesta di aiuto del Pakistan, al momento l’assistenza internazionale potrebbe essere ancora più estesa. L’Asian Development Bank prevede di estendere un prestito di emergenza di 2 miliardi al Pakistan, la Banca Mondiale ha già dato al paese 900 milioni di dollari, e l’ONU intende fornirne 460 milioni, di cui 272 milioni sono già stati consegnati. L’Arabia Saudita e l’Organizzazione della Conferenza Islamica si sono impegnate per 70 e 11 milioni rispettivamente, (l’ultima è l’assegnazione dei fondi attraverso la Islamic Development Bank). La Russia ha anche assunto un ruolo attivo nella campagna di aiuti – alcuni aerei Il-76 del ministero russo per le situazioni di emergenza, hanno già sbarcato aiuti umanitari in Pakistan.

Per quanto riguarda l’attuale stato delle relazioni economiche tra la Russia e il Pakistan, è vero che lascia molto a desiderare, e i presidenti dei Paesi, hanno dovuto ammettere a Sochi che nessun progresso è stato fatto. Il fatturato del commercio tra la Russia e il Pakistan a malapena ha superato la soglia dei 400 milioni di dollari (in netto contrasto, il fatturato del commercio del Pakistan con l’India – il paese che Islamabad chiaramente non può contare tra i suoi amici – ha superato la quota dei 2 miliardi, e continua a registrare una crescita costante). E’ un risultato serio del vertice di Sochi, che – come i leader della Russia e del Pakistan hanno deciso – la Commissione Inter-governativa sulla Cooperazione Bilaterale, istituita da diversi anni, finalmente terrà la sua prima conferenza operativa, nel mese di settembre, dopo un lungo periodo di inattività. Il Presidente Medvedev ha espresso l’interesse della Russia nel partecipare con 7,6 miliardi di dollari, alla costruzione del progettato gasdotto Iran-Pakistan-India (il gasdotto si estenderà per oltre 1.000 km) e per aiutare l’aggiornamento dell’impianto metallurgico del Pakistan, che Karachi ha costruito nel 1985 con l’assistenza sovietica (la capacità dell’impianto, attualmente supera 1,1 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, e dovrebbe raggiungere 1,5 milioni di tonnellate e dopo la prima fase di aggiornamento, e 3 milioni di tonnellate, dopo la seconda fase di aggiornamento). Russia e Pakistan prenderanno anche in considerazione le opportunità esistenti per la cooperazione nel trasporto ferroviario e nel settore energetico. Il presidente russo ha suggerito che un maggior numero di studenti pakistani chiedano l’ammissione alle università russe. Con una significativa iniziativa, le banche russe probabilmente apriranno divisioni in Pakistan, per servizi operazioni import-export. il ministro degli esteri della Russia, S. Lavrov, ha detto ai media che la cooperazione economica dovrebbe essere il motore delle relazioni tra la Russia e il Pakistan.

Il presidente Zardari ha invitato la Russia a investire nel settore energetico pakistano, nell’industria delle montagne e nella produzione di infrastrutture. Si è convenuto che il Presidente Medvedev si recherà in visita in Pakistan, e il presidente Zardari ha sottolineato che una superpotenza come la Russia sta giocando un ruolo importante nel mantenimento della stabilità in Asia centrale e meridionale.

Questa non è la prima volta che viene invitato un leader russo in Pakistan – finora le visite da parte di funzionari russi di rango inferiore hanno prodotto risultati minimi. Quale potrebbe essere la spiegazione dietro la stagnazione? Ho passato anni alla ricerca di una risposta come studioso professionalmente interessato al Pakistan. La Russia può divenire un osservatore delle organizzazioni internazionali in cui il Pakistan è presente? In passato, la Russia ha sostenuto con successo l’offerta del Pakistan di aderire alla Shanghai Cooperation Organization in qualità di osservatore. Il Pakistan ha assistito la Russia nell’adesione all’Organizzazione della Conferenza Islamica, dove la Russia ha attualmente il ruolo di osservatore.

Dal punto di vista dello sviluppo delle relazioni tra la Russia e il Pakistan, sarebbe utile per Mosca ottenere l’adesione in gruppi come il SAARC (South Asian Association of Regional Cooperation) e gli Amici del Pakistan Democratico (che attualmente comprende Australia, Gran Bretagna, Italia, Canada, Cina, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Stati Uniti, Turchia, Francia, Giappone, e rappresentanti delle Nazioni Unite e dell’UE).

Al momento il Pakistan è guidato da un nuovo Presidente civile e da un nuovo governo, ribadisce il proprio impegno allo sviluppo delle relazioni economiche e politiche con la Russia, e anche l’apertura di negoziati con Mosca sul commercio delle armi. In qualche modo, Mosca sembra evitare provvedimenti pratici e limita alla routine il suo coinvolgimento in pacate discussioni improduttive. Occorre rendersi conto che la preoccupazione per il potenziale malcontento a Delhi, che senza dubbio avrebbe reagito negativamente al riavvicinamento della Russia al Pakistan, riflette una visione politica obsoleta. Per anni l’India non ha considerato la Russia quale il numero uno dei partner in molti ambiti; il suo accordo del 2010 sull’energia nucleare con gli Stati Uniti e il Canada, e le massicce acquisizioni d’elettronica militare israeliana, ne esemplificano la tendenza. Per la Russia, ignorare il Pakistan – il paese con la popolazione di 175.000.000 situato in una regione strategica e vicino a Afghanistan, India e Cina – è stata una strategia mal concepita. Inoltre, la propensione di Delhi nel normalizzare i rapporti con Islamabad, s’è dimostrata chiaramente durante i colloqui tra il i ministri degli esteri indiano e del Pakistan, il 15 luglio, dovrebbe essere presa in considerazione. Oggi, ampie opportunità sono a disposizione della promozione dello sviluppo economico – e anche politica – delle relazioni tra la Russia e il Pakistan.

Sergei Kamenev è il direttore del settore Pakistan dell’Istituto di Studi Orientali dell’Accademia Russa delle Scienze.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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La Saga di Bushehr sta per finire

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Fonte: Strategic Culture Foundation
http://en.fondsk.ru/print.php?id=3220 20/08/2010

Segnando la conclusione della saga che ha avuto inizio a metà del secolo XX, il 21 agosto l’Iran avrà ufficialmente avviato il reattore nucleare di fabbricazione russa della centrale nucleare di Bushehr. L’accensione del reattore nucleare è un punto culminante in qualsiasi paese, ma nel caso dell’Iran è un ulteriore fattore per la situazione, secondo cui l’avvio possa essere considerato una sconfitta della politica internazionale di Washington. Recentemente, l’ex ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, John Bolton, provocatoriamente ha chiesto a Israele di attaccare Bushehr prima del 21 agosto, termine ultimo, quando le barre nucleari saranno caricate nel nocciolo del reattore.
J. Bolton è famoso per le sue opinioni da falco estremista. Ha sostenuto attivamente il mito scorte s delle armi di distruzione di massa di S. Hussein, nell’escalation della guerra in Iraq, e nel mese di agosto 2008, ha affermato che la Russia era l’aggressore nel conflitto con “la piccola e totalmente innocua” Georgia.
Il cinismo non è raro nelle file dei politici statunitensi. Al momento, gli Stati Uniti sostengono accuse contro l’Iran – così come contro la Russia – e cercano di convincere il mondo che, dopo l’avvio della centrale di Bushehr, avrà di fronte un nuovo mostro dotato di armi nucleari. E’ opportuno ricordare, nel contesto, le forze che hanno aiutato l’Iran ad acquisire reali ambizioni nucleari, in passato.
L’Iran guidato dello shah pro-USA si messo in contatto con gli Stati Uniti per l’accesso alle tecnologie dell’energia nucleare, ben prima dei progetti nucleari congiunti con la Russia. Nel 1957, Washington e Teheran firmarono un accordo sull’energia nucleare, in cui gli Stati Uniti avrebbero fornito materiale nucleare all’Iran e contribuito a formare ingegneri nel paese, e l’Iran, da parte sua, acconsentì agli Stati Uniti di monitorare i suoi impianti nucleari. Washington e Teheran hanno firmato un altro accordo, con l’assistenza dell’IAE, nel 1967 e gli Stati Uniti fornirono un reattore nucleare di piccola potenza (5 MW), per il centro di ricerca dell’Iran. Il reattore è stato avviato un anno più tardi che utilizzava uranio arricchito al 93% come combustibile. Successivamente, gli Stati Uniti hanno venduto all’Iran le camere per l’estrazione del plutonio dal combustibile nucleare esaurito. In netto contrasto, il combustibile nucleare (82 tonnellate) per il piano di Bushehr, che è stato fornito nel 2008 e attualmente è conservato in un sito speciale monitorato dall’IAE, è arricchito solo all’1,6-3,6%.
Per tutto il regno dello scià iraniano, gli Stati Uniti non espressero obiezioni nei confronti dell’Iran, per l’attuazione del ciclo completo del combustibile nucleare che poteva essere utilizzato per generare plutonio e, tecnicamente, poteva servire come base per la creazione di armi nucleari. Inoltre, Washington e Teheran hanno discusso la fornitura di un massimo di 8 reattori nucleari, del valore di 6,5 miliardi dollari, all’Iran. Gli Stati Uniti non hanno avuto problemi con le operazioni in Iran degli altri paesi della Nato – in particolare, con la Germania e la Francia – nel quadro del programma nucleare. L’ultimo Scià dell’Iran, Mohammad Reza Pahlavi, impostò l’energia nucleare come una priorità del suo programma di riforma. Nel 1974, l’Iran ha adottato un programma a lungo termine, volto a costruire 23 reattori nucleari con una capacità totale di oltre 20 MW, basandosi su tecnologie occidentali (e non sovietiche!). L’Iran ha firmato contratti con Stati Uniti, Germania e Francia, e in quest’ultimo caso ha anche acquistato una partecipazione del 10% nell’impianto di arricchimento dell’uranio di Tricastin. L’accordo ha aperto l’accesso dell’Iran alle tecnologie di arricchimento dell’uranio, e ha dato al paese il diritto di acquistare la produzione dell’impianto.
Per quanto riguarda la centrale nucleare di Bushehr, in origine il contratto per la costruzione si concluse nel 1974 con la Kraftwerk Union. La società tedesca avrebbe costruito due reattori da 1.300 MW, addestrato gli ingegneri nucleari iraniani e organizzato la produzione e l’uso degli isotopi del sito. Il primo e il secondo reattori dovevano essere avviati nel 1980 e nel 1981.
La Francia ha avuto anche un contatto 2 miliardi di dollari per la costruzione di una centrale nucleare in Iran. Situata ad Ahwaz, doveva comprendere due reattori da 950 MW che sarebbero stati avviati nel tardo 1983 – inizio 1984. Inoltre, nel 1974 la Francia iniziò la costruzione di un centro di ricerca con un reattore nucleare sperimentale a Isfahan, in Iran, l’avvio era previsto per il 1980.
Ovviamente, l’Occidente non ha battuto ciglio sul programma nucleare dell’Iran – almeno per quanto riguarda l’Iran come un potenziale mostro dotato di armi nucleari – in un’epoca in cui il paese rimaneva nell’orbita degli Stati Uniti e della NATO. La situazione ha preso una piega diversa dopo la Rivoluzione islamica del 1979 in Iran, quando il paese ruppe con l’Occidente. I contratti nucleari furono annullati e la costruzione degli impianti nucleari – congelata. Secondo diverse stime, al momento i reattori della centrale di Bushehr erano completi al 70-90% e 40-75%. Il cantiere era pronto ad Ahwaz, ma all’Iran venne rifiutato l’accesso alle tecnologie e ai prodotti dello stabilimento di Tricastin.
Per molto tempo, dopo la Rivoluzione Islamica, l’Iran ha dovuto affrontare problemi più pressanti che costruire centrali nucleari. L’incompiuta centrale di Bushehr finì sotto le bombe 9 volte, durante la lunga guerra con l’Iraq, e subì notevoli danni, di conseguenza.
Teheran rianimò il suo programma di energia nucleare dopo la guerra, ma numerosi tentativi di raggiungere accordi con la Spagna, Argentina, Brasile, Pakistan, e persino con la Cina non hanno prodotto alcun risultato. Sotto la pressione degli Stati Uniti, i potenziali partner evitarono di farsi coinvolgere da Teheran. Immune alle pressioni di Washington, nel 1992 la Russia stipulò un accordo sul nucleare civile con l’Iran, che prevedeva la costruzione della centrale di Bushehr. Il contratto russo-iraniano per costruire la sua prima unità fu – dopo degli abbastanza difficili colloqui sui dettagli – firmato il 5 gennaio 1995 a Teheran. Le società russe hanno dovuto ricostruire l’impianto per adattarlo al reattore acqua-acqua russo VVER-1000, da 1000 MW. I contratti con la Russia prevedono la costruzione di altri tre reattori a Bushehr, in futuro. Mosca e Teheran hanno firmarono un accordo con cui la Russia avrebbe fornito 2.000 tonnellate di uranio all’Iran e addestrato ingegneri iraniani negli istituti russi.
A quel tempo e al momento, il contratto di Bushehr era di grande importanza per la Russia. Il costo del primo reattore è stato fissato a 800-850 milioni di dollari, e il totale della costruzione è stato stimato a circa 1 miliardo. L’Iran avrebbe pagato l’80% dell’importo in contanti e il 20% sotto forma di forniture varie. L’elenco degli appaltatori russi conta oltre 300 imprese e il contratto ha creato 20.000 nuovi posti di lavoro. Inizialmente, il piano era che la centrale elettrica di Bushehr sarebbe divenuta operativa nel 2003, ma la scadenza è stata più volte rinviata a causa di vari motivi. Gli Stati Uniti hanno esercitato una pressione permanente su Mosca affinché quest’ultima abbandonasse il contratto, e in un certo numero di casi, l’Iran non ha rispettato il calendario dei pagamenti. Tuttavia, la saga di Bushehr, si spera si concluda il 21 agosto 2010. L’Iran avrà la sua prima centrale nucleare e la Russia dimostrerà la sua capacità di attuare importanti contratti internazionali ad alta tecnologia. Per quanto riguarda le accuse che la Russia stia giocando dalla parte di un paese aggressivo, è un punto importante che il contratto della Russia con l’Iran – in contrasto con quelli che Stati Uniti, Francia e Germania hanno firmato con il paese, in passato – non implichi il trasferimento all’Iran di tecnologie di arricchimento dell’uranio, la costruzione di un impianto autofertilizzante o per la rigenerazione di plutonio. Quello che l’Iran avrà – in piena conformità con il diritto internazionale e senza minacciare la pace e la sicurezza internazionale – è uno una semplice infrastruttura civile per l’industria elettrica. Le minacce alla pace e alla sicurezza internazionale, come ad esempio, le affermazioni di John Bolton mostrano chiaramente, sono poste da un altro paese.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Unione Europea: un’alternativa potenziale nell’area del Pacifico?

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Le relazioni internazionali e la geopolitica del XXI secolo si caratterizzano indubbiamente per la centralità e la strategicità del continente asiatico: se il Medio Oriente e l’Asia Centrale sono tra gli scenari politico-economici più importanti a livello globale, il Sud Est asiatico appare oggi essere una regione cruciale sia per le relazioni economiche che per quelle politico-militari su scala regionale e mondiale. In un contesto in cui si inseriscono e crescono le influenze provenienti dalla Cina e, in minor misura dagli Stati Uniti, l’Unione Europea è chiamata a svolgere un ruolo importante: continuare ad essere per i Paesi appartenenti a quest’area un interlocutore fondamentale, non solo dal punto di vista economico, ma anche politico. Solo in questo modo Bruxelles potrebbe essere in grado di assicurare un’effettività al dialogo inter-regionale fra Europa e Asia Sud-Orientale e di garantire la presenza degli interessi europei nel Pacifico.

Il modello europeo

Il modello e l’idea di organizzazione “regionale” europea – sorta dopo la seconda guerra mondiale e dopo la decolonizzazione, e intrecciatasi con le logiche della Guerra Fredda – ha giovato nell’avviare all’interno di quei Paesi asiatici, che per lungo tempo sono stati legati all’Europa a causa degli imperi coloniali, un processo di costruzione propria regionale e ha contributo a definire in un secondo momento, come vedremo, un’identità del Sud-Est asiatico.

Mentre l’Europa muoveva i primi passi verso lo spazio economico comune e, soprattutto, il tentativo di creare un’entità sovranazionale anche in materia di difesa (Unione Europea Occidentale e Comunità Europea di Difesa, la quale non ha mai visto la luce) in un continente segnato dalla logica dei blocchi contrapposti, i Paesi del Sud-Est asiatico aderivano alla “Southeast Asian Treaty Organization” (SEATO, 1954): questa prima forma organizzativa a carattere strategico – militare nacque per fronteggiare il pericolo proveniente dai Paesi comunisti dell’Asia, Cina in primis. Il fallimento della SEATO, come fu evidente durante la guerra del Vietnam, portò i Paesi di quest’area a cercare nuove vie autonome e concordate per una più ampia integrazione regionale: l’“Association of Southeast Asia” (ASA), la “Maphilindo” (un’associazione fra Malaysia, Filippine ed Indonesia) e l’“Asian Pacific Council” (ASPAC) negli anni Sessanta, sulla scia del dibattito che animava le prime politiche comunitarie, furono gli esempi di realizzazione autodeterminata di un’effettiva organizzazione regionale dedita alla cooperazione economica e culturale fra i Paesi membri. L’ulteriore insuccesso di queste formule associative portò alla creazione della forma più matura di integrazione regionale del Sud-Est asiatico: l’“Associazione delle Nazioni dell’Asia Sud-Orientale” (ASEAN, 1967, di cui fanno parte Thailandia, Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore e a cui si sono aggiunti successivamente anche Brunei, Vietnam, Laos, Birmania e Cambogia).

Questa nuova entità, data la sua strategicità tra l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico, ben presto non solo ha stipulato accordi di cooperazione e associazione con la Comunità Europea instaurando un’importante partnership economica, ma è diventata – come l’“Asean Regional Forum” (ARF, 1994) e, soprattutto, l’“Asia-Pacific Economic Cooperation” (APEC, 1989, di cui fanno parte anche Cina, Russia e Stati Uniti) dimostrano – anche una regione fondamentale negli equilibri geostrategici del Pacifico in cui, date alcune fondamentali premesse, l’Unione Europea ha tentato di estendere la sua presenza.

Il dialogo inter-regionale

Infatti, dopo l’accresciuta visibilità internazionale conferita dal Trattato di Maastricht e l’avvio a livello globale da parte dei Paesi asiatici sud-orientali dell’“Asean dialogue partners”, il modello europeo è rimasto un punto di riferimento per il Sud-Est asiatico dopo la fine della contrapposizione est-ovest e fino al momento della crisi finanziaria che l’ha colpito fra il 1997 e il 1998: su proposta del Primo Ministro di Singapore è stato avviato l’“Asia-Europe Meeting” (ASEM, 1995), un dialogo inter-regionale con lo scopo di creare non solo più stretti legami commerciali e politici con un’Unione Europea all’epoca in corso di espansione, ma anche per far crescere il Sud Est asiatico sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista strategico, cercando cioè di bilanciare il potere di Giappone e Cina e di limitare l’influenza americana nel Pacifico.

L’ASEM ha rappresentato nel corso degli anni Novanta (e potrebbe rappresentare ancora oggi) uno degli strumenti principali della politica estera dell’Unione Europea ed ha indubbiamente contribuito allo sviluppo dell’Asia Sud-Orientale in più sensi: in primo luogo, l’ASEM ha permesso di rafforzare i vincoli commerciali, facendo dell’UE il secondo mercato di esportazione dei prodotti dei Paesi dell’ASEAM e il terzo partner commerciale dopo Stati Uniti e Giappone. Inoltre, il dialogo inter-regionale, avendo come presupposto il tentativo di costruire un’interdipendenza economica e politica fra Europa e un terzo polo regionale nel Pacifico, ha contribuito a creare e a diffondere un senso di identità regionale dell’Asia Sud-Orientale. Infine, l’ASEM ha permesso all’Unione Europea non solo di ridefinire le proprie relazioni con l’intero continente asiatico – a cominciare dall’“Associazione Sud-Asiatica per la Cooperazione Regionale” (SAARC) –, ma anche di creare un blocco di relazioni geopolitiche alternativo all’APEC, concorrendo direttamente con gli interessi di Stati Uniti e Cina su scala regionale e mondiale e costituendo un ambizioso progetto di gestione delle relazioni in un mondo globalizzato. La forza dell’ASEM è sembrata risiedere nel fatto che essa offre un nuovo canale di comunicazione e la possibilità di connettere fra loro Stati e organizzazioni appartenenti a due aree geografiche differenti e con una storia politica ed economica distante. Ma quanto è stato ed è effettivo questo inter-regionalismo? L’Europa è ancora così influente nella regione asiatica?

La crisi del modello europeo

La crisi economica che ha colpito i mercati finanziari sud-orientali alla fine degli anni Novanta sembra aver segnato, infatti, una svolta nei rapporti UE-ASEAN e, soprattutto, nell’idea che i Paesi dell’ASEAN hanno dell’Unione Europea stessa. I Paesi del Sud-Est asiatico sono sembrati progressivamente allontanarsi dell’Europa, manifestando scetticismo nei confronti della sua capacità di assurgere ad un ruolo di potenza globale con riferimento alle problematiche dell’area pacifica e allacciando forti relazioni con altri Paesi.

Come un rapporto del Comitato Economico e Sociale Europeo dello scorso mese di maggio ha sottolineato, il dialogo inter-regionale degli ultimi anni è risultato piuttosto debole e il dialogo con e tra le società civili ha dimostrato di essere ancora al di sotto delle potenzialità. Così anche le relazioni economiche non hanno fatto il salto di qualità che si auspicava. Emblematico ed allarmante è il caso del negoziato commerciale: mentre l’UE e l’ASEAN hanno concordato una pausa nei negoziati, l’ASEAN ha stretto accordi commerciali con le altre principali realtà geo-economiche mondiali (Cina, India, Australia; negoziati sono in corso con USA, Corea del Sud, Giappone).

L’Unione Europea, in effetti, nel corso degli ultimi dieci anni non è sembrata sforzarsi più di tanto nel consolidare il dialogo inter-regionale. Essa, piuttosto, è sembrata concentrarsi da un lato sul processo di allargamento interno e sulla ridefinizione della propria architettura costituzionale (cosa che ha richiesto tempo e denaro) e, dall’altro, sull’instaurazione di rapporti bilaterali con le altre potenze mondiali. Inoltre, nel corso delle conferenze dell’ASEM sono venute a galla differenze di fondo tra le due regioni, come il nodo del rispetto dei diritti umani in alcuni Paesi del Sud-est asiatico (innanzitutto il Myanmar) e l’eccessiva eterogeneità dei Paesi asiatici in questione che impedirebbe l’adozione di misure e politiche effettivamente incisive. Non di meno, la presenza di regimi dittatoriali all’interno dei Paesi asiatici sud-orientali e la mancanza di un principio di sovranazionalità nella organizzazione politica asiatica costituiscono un ostacolo per i leader politici europei e per il perseguimento degli obiettivi che l’inter-regionalismo si era prefisso. Infine, la progressiva ingerenza economica, politica, militare e culturale in quest’area dell’Asia da parte della Cina dopo l’ingresso nella World Trade Organization, unita alla crisi (e alla ricerca) di identità dell’Unione Europea e alla sua incapacità di adottare una visione globale nelle sue relazioni con l’Asia, hanno fatto in modo che l’ultimo decennio sia stato più “un’occasione mancata” che l’occasione per rafforzare la partnership con un’area considerata strategica per gli interessi dell’UE nel mondo.

L’ASEM, dunque, è sembrata essere una formula più simbolica che di sostanza e, quanto alla sua capacità di concorrere con l’APEC, essa, non essendo un’alleanza strategica, non è riuscita ad incidere sul bilanciamento dei poteri nel Pacifico, configurandosi, piuttosto, come uno strumento di “soft power”. Come l’Unione Europea può rispondere, allora, alla perdita di centralità nelle politiche asiatiche sud-orientali?

Le prospettive future

Probabilmente il futuro del dialogo inter-regionale fra Europa e ASEAM dipenderà da una serie di circostanze: innanzitutto dalla capacità dei due blocchi regionali di istituzionalizzare l’ASEM – eventualmente instaurando un meccanismo di “dialogo permanente” fra i leader politici – facendo si che si possa, da un lato, sviluppare il dibattito e l’effettività del rispetto dei diritti umani e, dall’altro, si possano colmare alcune differenze politiche e sociali tra i Paesi del Sud-Est asiatico e tra questi stessi e l’Unione Europea. Solo una comunanza di prospettive a livello politico e culturale potrebbe permettere il rilancio e l’implementazione della cooperazione economica, di un’area di libero scambio e della politica di cooperazione allo sviluppo. In secondo luogo, il futuro dell’ASEM dipenderà dall’evoluzione delle relazioni dell’Unione Europea con Cina e Giappone, nonché anche dalle relazioni fra Cina e Giappone stessi e dall’eventuale realizzazione del recente progetto americano di estendere la “Trans-Pacific Partnership” (TPP, che attualmente comprende Brunei, Singapore, Nuova Zelanda e Cile) anche agli USA, oltre che ad Australia, Perù e Vietnam.

Dal punto di vista della capacità di costruire, infatti, un modello alternativo all’APEC, i leader comunitari dovranno adottare nei confronti dei Paesi asiatici un approccio multilaterale, ossia considerare l’Asia non come un insieme di macroregioni, ma come il territorio di una possibile rete di rapporti tessuti sulla base di esigenze macroregionali inquadrate sullo sfondo più ampio di ciò che il continente asiatico rappresenta nella sua specifica globalità.

Dal momento che chi scrive ritiene che uno dei fattori principali della perdita di centralità dell’Europa nel Sud-Est asiatico risieda nella sua stessa incapacità di costituire un modello culturale come aveva fatto tra gli anni Cinquanta e Sessanta, uno strumento importante potrebbe essere – come il Comitato Economico e Sociale Europeo suggerisce – l’istituzione di una “fondazione europea” orientata specificatamente al dialogo sociale, civile, professionale ed interculturale UE-ASEAN. La capacità di diventare una potenza globale e concorrere in un “sistema uni-multipolare” passa, probabilmente, anche dalla capacità di presentarsi come un modello politico – sociale – culturale stabile e determinante nei rapporti di forza mondiali.

* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)

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Italia: 150 anni di una piccola grande potenza

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Editoriale
La geopolitica nell’Italia repubblicana (Tiberio Graziani)

Eurasiatismo
Homo Europaeus (Fabio Falchi)
Henry Corbin: l’Eurasia come concetto spirituale (Claudio Mutti)
L’Iran e la pace nel mondo (Alì Akbar Naseri)

Dossario ITALIA
Italia in pillole (Aldo Braccio)
Difendere la lingua italiana: un approccio geopolitico (Aldo Braccio)
Italia e Turchia negli anni di Erdoğan (Aldo Braccio)
La politica estera italiana (Alfredo Canavero)
L’Italia e l’India tra mito e storia (Côme Carpentier de Gourdon)
Chiesa e Stato (Alessandra Colla)
Più divisi di prima (Fabrizio Di Ernesto)
La debolezza strategica italiana (Luca Donadei)
Il made in China sfida il made in Italy (Caterina Ghiselli)
Geopolitica dell’energia: l’Italia nello scacchiere euro-mediterraneo (Dario Giardi)
Sulla cooperazione tra la Russia e l’Italia (Vagif Gusejnov)
Ahi serva Italia… (Gianfranco La Grassa)
Italia atomica (Alessandro Lattanzio)
La politica estera italiana nel Vicino Oriente (Pietro Longo)
Voglia di SpA (Fabio Mini)
Il veicolo linguistico del dominio statunitense (Claudio Mutti)
Il comunismo italiano nella seconda metà del Novecento. Prima parte (Costanzo Preve)
L’importanza della Russia per l’Italia (Daniele Scalea)

Continenti
Il caso Lettonia (Mariarosaria Comunale)
I rapporti sino-africani (Augusto Marsigliante)

Interviste
Giovanni Adamo, linguista, CNR (Aldo Braccio, Tiberio Graziani)
Roberto Albicini, esperto commercio internazionale (Enrico Galoppini)
Gianluigi Angelantoni, industriale (Tiberio Graziani, Antonio Grego)
Giovanni Armillotta, direttore “Africana” (Melania Perciballi)
Sergej Baburin, rettore Università Statale Russa di Commercio ed Economia (Tiberio Graziani, Daniele Scalea)
Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore (Claudio Mutti)
Tarun Das, presidente Aspen Institute India (Daniele Scalea, Tiberio Graziani)
Paolo Guerrieri, vice-presidente Istituto Affari Internazionali (Daniele Scalea, Tiberio Graziani)
Luciano Maiani, presidente CNR (Luca Lauriola)
Sergio Romano, storico (Tiberio Graziani, Daniele Scalea)

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Islam e Fondamentalismo in Bosnia Erzegovina

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La proposta di legge sul divieto di utilizzare il niqab – costume islamico indossato dalle donne e che copre l’intero corpo lasciando scoperti solo gli occhi – presentata dal partirto serbo SDNS  è stata discussa in questi giorni nel parlamento della Bosnia Erzegovina. Il controverso disegno di legge ha acceso i toni dello scontro politico fra serbi e musulmani riportando all’attenzione dell’opinione pubblica e dei commentatori internazionali il tema del ruolo dell’Islam in Bosnia Erzegovina. La questione è estremamente delicata non solo nell’equilibrio interno del paese, ma anche nel determinare gli equilibri internazionali che legano, parlando in termini di macro categorie ideologiche, l’Occidente al Medioriente, soprattutto in seguito all’evoluzione dei rapporti nel post 11 settembre e l’inizio della guerra al terrorismo.

Terra di confine fra il cattolico impero Austro-Ungarico e la Sublime Porta, la Bosnia-Ezegovina è ancora oggi uno strategico confine fra oriente ed occidente, un terreno di incontro e scontro. Essa assume una valenza speciale nella competizione fra le potenze occidentali e quelle orientali, in primis la Turchia, l’ Arabia Saudita, l’Iran. Su un piano, tale competizione si gioca sui temi della ricostruzione e del rilancio economico del paese ferito dalla guerra degli anni ’90: mentre la Bosnia Erzegovina è stata inserita a pieno titolo e prosegue lungo il cammino verso l’integrazione europea, sempre più ingenti sono gli investimenti islamici nel paese. Giusto per riportare alcuni degli esempi più visibili, basti pensare che la Bosnia Bank International (BBI), stabilita nel marzo 2002, è finanziata da alcuni dei principali gruppi del Golfo come la Islamic Development Bank e la Abu Dhabi Islamic Bank. Dagli stessi finanziatori sono stati costruiti il primo grande centro commerciale di Sarajevo, il BBI center, ed alcuni importanti edifici sempre nella capitale, come la torre di Avast,  la  moschea di re Fahd e il grande centro culturale iraniano sulla Marsala Titova, l’arteria principale della capitale.

Su un altro piano tale competizione si gioca in ambito religioso e culturale, ed è caratterizzata dall’emergere di un Islam tradizionalista e fondamentalista attraverso l’infiltrazione di gruppi sunniti radicali, sostanzialmente supportati, pur non ufficialmente, dagli Stati musulmani. L’infiltrazione e il rafforzamento del fondamentalismo islamico in Bosnia Erzgovina, avvenuto durante il conflitto degli anni ’90, non è mai stato oggetto di grande attenzione dei media e dei commentatori internazionali, forse volutamente, in quanto, per ragioni politiche e strategiche, USA e Europa vogliono dare della Bosnia l’immagine di paese pienamente europeo ed occidentale. È in realtà oramai assodato il coinvolgimento dei Balcani, e della Bosnia Erzegovina nello specifico, nella geografia della guerra al terrorismo islamico internazionale. Come ha ricordato il presidente statunitense J.W.Bush pochi anni fa (Oluic, radical islam on Europe’s Frontier, 2008), mentre il mondo è concentrato sui teatri di guerra in Iran ed Afghanistan, gli storici legami fra l’Islam e i Balcani dovrebbero essere tenuti maggiormente sottocontrollo.

Il fondamentalismo islamico in Bosnia Erzegovina si è infiltrato durante la guerra fra il ’92 e il ’95 quando un gruppo di guerriglieri, “mujahidin” giunsero nel paese in difesa dei confratelli musulmani. Tali guerriglieri provenivano dall’Europa, dal Nord Africa e dal Medio Oriente, ed erano per la maggior parte veterani della guerra in Afghanistan, pronti a combattere una nuova Jihad, questa volta contro serbi e croati. Nel dopo guerra gran parte di questi combattenti riuscirono a sfuggire alla legge sul rimpatrio dei combattenti stranieri prevista dagli accordi di Dayton, ottenendo la cittadinanza bosniaca e sposando donne locali.  Essi si insediarono così sul territorio, con particolare concentrazione nel centro del paese come nel villaggio di Bočinja e nella città di Zenica.

I guerriglieri hanno potuto contare sul sostegno, o quantomeno sul benestare, dei bosniaci che, durante l’era di Tito, si erano formati in Stati musulmani, come l’Egitto, l’Iraq e la Siria. Fra questi spiccano alcuni nomi noti, quali quello di Alia Iztbegovic, ex Presidente bosniaco, che, oltre ad aver difeso il diritto dei mujahidin di rimanere in Bosnia Erzegovina, ha, durante la guerra, avviato le relazioni con diversi paesi musulmani quali l’Iran e l’Arabia saudita, che sono i principali finanziatori dei mujahidin.   Tali gruppi,  legati al movimento sedicente wahhabita, promuovono una visione tradizionalista dell’Islam basata su una lettura rigida del Corano e il rispetto della Shari’a.

Molti dettagliati report mettono in evidenza gli stretti legami fra il movimento islamista radicale presente in Bosnia ed al Qa’ida, (si veda David H. Gray and Fred A. Tafoya, in  Research Journal of International Studies, marzo 2008; documentation center of Srpska for crimes research Islamic Fundamentalist’s Global Network – Modus Operandi – Model Bosnia, settembre 2002; Oluic, radical islam on Europe’s Frontier, 2008), e come quest’ultima sia riuscita ad insediarsi nel cuore d’Europa, utilizzando la Bosnia Erzegovina come base di smercio di armi, addestramento e indottrinamento. La principale forza del movimento è l’agire tramite le ONG islamiche, attraverso le quali, tanto durande la guerra, che nel post-conflitto, i gruppi islamisti radicali riescono a raccogliere ingenti finanziamenti in forma di donazioni e a penetrare nella società bosniaca.

La comunità islamista in Bosnia non ha una struttura nè una leadership definita, in quanto si lega al movimento islamista radicale internazionale. Essa però viene in pratica rappresentata in Bosnia da alcuni bracci operativi, come la AIO (Active Islamic Youth), nata a Zenica nel 1995 con l’intento di trasformare la Bosnia in uno Stato Islamico. Oltre a fare proselitismo, il gruppo è conosciuto per dare assistenza ai guerriglieri in Cecenia, ed è stata protagonista di incidenti che hanno infiammato le tensioni etniche come, nel 2002, l’assassinio di un intera famiglia di bosniaci croati nella città di Kostajnica (Oluic 2008).

Sempre più numerosi sono stati negli anni incidenti di questo tipo e il verificarsi di veri e propri atti di terrorismo. Il primo spettacolare arresto è avvenuto nel 2005, quando l’intelligence bosniaca ha sventato un attacco terroristico volto a colpire le Ambasciate Occidentali a Sarajevo. Da allora sono stati frequenti casi simili, l’ultimo incidente proprio nel mese di giugno, quando, nella città di Bugojno, un poliziotto è rimaso ucciso e altri sei feriti in un attentato terrorista. L’attacco pare essere stato una risposta al massiccio raid della polizia nel remoto villaggio di Gornja Maoca nel nordest del paese, avvenuto lo scorso febbraio.

Come ha sottolineato il redattore esteri dell’SRNA, Danijela Dzeletovic in un’intervista rilasciata all’International Analyst Network, il fondamentalismo islamico bosniaco rappresenta una seria e sostanziale minaccia, perchè conta alcune migliaia di membri che sono fanatici, ed hanno accesso ad armi e capitali con i quali addestrare nuove reclute ed infiltrarsi nei meccanismi statali.

Gli estremisti islamici possono approfittare della debolezza della Stato e della sua sostanziale incapacità di controllare effettivamente il territorio. La Bosnia Erzegovina è amministritivamente divisa in due entità, la Repubblica Srpska, a maggiornaza serba, e la Federazione di Bosnia Erzegovina, composta da musulmani e croati, più il piccolo multietnico Distretto di Brcko. Il potere è fortemente sbilanciato verso le entità amministrative e il funzionamento Statale è praticamente paralizzato da un’amministrazione inefficiente, dall’alta corruzione e da una dialettica politica basata sulla difesa degli interessi etnici. Tale situazione rende lo Stato incapace di affrontare la minaccia terrorista senza l’aiuto internazionale e lascia al fondamentalismo un ampio spazio per poter attecchire e rafforzarsi.

Ad avviso di chi scrive, l’elemento più significativo è l’aumentare dei proseliti del movimento islamista e il rischio della radicalizzazione dell’Islam bosniaco. Tale movimento riesce, infatti, a trovare terreno fertile nelle fascie più deboli della società, disilluse nei confronti della classe politica e nella comunità internazionale, come i disoccupati e gli orfani di guerra, sopratutto nelle aree rurali e nei ceti più poveri (Oluic 2008). Per quanto non esistono dati certi, è stimato che i sostenitori del movimento islamista radicale siano fra il 3 e il 13% della popolazione (Oluic 2008). Certo una minoranza, ma non trascurabile, anche in considerazione dell’intensificarsi degli episodi di violenza e della presenza sempre più cospicua di donne che indossano il niqab e uomini che portano la barba lunga ed un abbigliamento estraneo alla tradizione islamica bosniaca.

L’Islam bosniaco si è sviluppato con caratteristiche peculiari rispetto a quello tradizionale, tanto da essere identificato come una categoria indipendente nel panorama islamico (Ahmet Alibašić, the  Profile of Bosnian Islam And How West European Muslims Could Benefit from It, Novembre 2007; osservatorio balcani-caucaso, 12 marzo 2004).

La tradizione musulmana in Bosnia Erzegovina è legata al dominio turco, durato fino al 1878. Oggi i musulmani sono considerati una della tre etnie costituenti, assieme ai croati e ai serbi e rappresentano circa il 40 % della popolazione totale. Il dominio austro- ungarico prima e la lunga parentesi comunista dopo, hanno smorzato il carattere tradizionalista dell’Islam bosniaco. In tal modo esso si caratterizza, oggi, con caratteri moderati e secolarizzati, tanto da far parlare di Islam “europeo”.

Le principali differenze fra islamisti radicali e seguaci dell’Islam bosniaco sono proprio la pratica religiosa e la separazione fra Stato e religione. Mentre i primi si rifiutano di accettare leggi estranee ai precetti coranici e alle norme della Shari’a, l’Islam bosniaco ha accettao il concetto di laicità dello Stato e il rispetto assai più blando dei costumi e delle pratiche religiose, relative all’abbigliamento, all’uso dell’alcol e alle modalità della preghiera, in ragione proprio della sua storia, che ha portato l’Islam a convivere con  gruppi religiosi cristiani e in una lunga parentesi di “laicità socalista”.

Bisogna dunque prestare attenzione a non confondere il fondamentalismo, con la presenza islamica in Bosnia Erzegovina, presenza intrinsicamente legata alla cultura e alla storia di questo paese.  Ne è prova l’intenso dibattito sorto all’interno della Comunità Islamica (IC) relativamente alla presenza di gruppi islamisti radicali. Il carattere laico e moderato del’Islam bosniaco è stato ampiamente dimostrato dai dissenzi di quanti hanno preso le distanze e aspramente criticato l’impostazione dei gruppi radicali nei confronti dei rapporti fra Religione e Stato e  nel modo di intendere la pratica religiosa in se.  I gruppi radicali si sono, del resto, apertamente posti in contrasto con la Comunità Islamica, criticando l’Islam tradizionale bosniaco. La CI ha reagito emanando una risoluzione nella quale richiama i musulmani “alla saggezza e alla stabilità” e condannato il comportamento di coloro che cercano di imporre il radicalismo islamista decidendo che cosa corrisponda alla”vera fede”.

Altresì, non devono essere sottovalutati le influenze del fondamentalismo islamico sulla società e soprattutto le ripercussioni sulle politiche della leadership della Comunità Islamica e della rappresentanza politica della nazionalità musulmana.

Molte critiche sono state avanzate nei confronti del Ra’is al-‘Ulama Mustafa Celić (Osservatorio balcani-caucaso, 17 maggio 2010)  per la superficialità con la quale ha affrontato la presenza islamista. Celić, infatti, non ha mai formalmente denunciato l’AIO e continua ad opporsi all’espulsione dei mujahidin, sostenendo la tesi che essi devono essere trattati da eroi nazionali.

Numerose critiche, soprattuto da parte della comunità internazionale, hanno poi suscitato i comportamenti del principale partito di rappresentanza musulmana, il SDA. Il suo fondatore, l’ex presidente Alia Iztebegovic, è accusato di aver avviato i rapporti con l‘Iran, l’Arabia Saudita e  altri Stati arabi-musulmani, che sono i principali sostenitori del movimento islamista- fondamentalista e dai quali lo stesso SDA ha ricevuto ingenti finanziamenti – l’Iran ha stanziato mezzo milione di dollari in supporto della campagna elettorale del SDA alle elezioni del 1996. Il partito inoltre, nell’immediato dopo guerra, si è fortemente caratterizzato per la sua vocazione islamista e ha dato il via ad una forte islamizzazione delle strutture dello Stato, secondo il principio “stato secolare, nazione spirituale”.

Sulla scia della vecchia guardia, le nuove leadership bosniace-musulmane, preferiscono non schierarsi apertamente contro chi professa rifarsi ad un Islam radicale, da una parte per non pregiudicare dei rapporti, ormai consolidati, con alcuni paesi musulmani, e dall’altra, per rafforzare l’dentità nazionale musulmana, specie nell’arena politica, alimentando, su temi sensibili, lo scontro con i rappresentanti delle altre etnie. Proprio in tal ottica può leggersi la battaglia parlamentare sul divieto di indossare il niqab. La proposta di legge, che concerne i diritti civili e il delicato bilancio fra libertà individuale e interessi collettivi, è diventato motivo di polarizzazione fra serbi e musulmani. Entrambi gli schieramenti politici hanno adottato argomentazioni relative alla difesa della nazionalità che ci riportano direttamente a un ventennio fa. Oggi più che ieri non è ammissibile non valutare, con attenzione, la coscienza delle leaderships bosniache del ruolo di confine strategico del paese e la volontà di utilizzare tale condizione per ricercare e mantenere relazioni – e sostegno – tanto ad oriente che ad occidente.

Il compito dell’Unione europea è, in tale frangente, molto delicato. Venuto meno l’equilibrio dei due blocchi, l’UE ha avuto lo spazio per potere affermare il suo ruolo sullo scacchiere internazionale, con la benedizione degli Stati Uniti, desiderosi di svincolarsi dal ruolo di “poliziotto globale” in europa. Il risultato complessivamente deludente nel gestire la fase armata del conflitto, ha reso estemamente importante per l’Unione assumere la guida della fase di ricostruzione delle nazioni nate dallo scioglimento della Jugoslavia. La chiave per agganciare tali paesi all’UE è stato promettere loro un futuro all’interno dell’Unione. La Bosnia Erzegovina fa parte a pieno titolo del processo di integrazione. La debolezza istituzionale, la paralisi politica rendono però molto lento il processo di avvicinamento all’UE. La presenza islamica in Bosnia rappresenta un non secondario elemenento di difficoltà. La discrezione con la quale viene affrontato dai media e dai politici europei il tema del fondamentalismo islamico in Bosnia Erzegovina manifesta l’imbarazzo dell’UE, soprattutto nei confronti dell’opinione pubblica, di accogliere nel seno europeo uno Stato in cui l’Islam rappresenta una componente importante. Dall’altro lato, assumere delle posizioni eccessivamente anti islamiche, pur volte a colpire le frange fondamentaliste, potrebbe accrescere la distanza fra i musulmani bosniaci e l’UE, allargando quegli spazi nei quali il fondamentalismo e l’influenza dei vicini mediorientali,  stanno riuscendo a inserirsi. I risvolti di politiche poco caute potrebbero irrimediabilmente sbilanciare il labile e difficile equilibrio della Bosnia e dell’intera Regione balcanica, con le conseguenze in termini di sicurezza e interessi politico-economici che ne conseguono.

Posta l’importanza strategica che ha per l’UE l’assicurare una Bosnia “europea”, è fondamenatale che l’Europa lavori ancora più intensamente per promuovere lo sviluppo politico, istituzionle ed economico del paese, scongiurando in tal modo il dilagare di una visione anti occidentale e il ritorno ad una dialettica nazionalista, infiammata dalla presenza di un Islam radicale sul territorio. A nostro parere, la sfida che i politici dell’Unione devono riuscire a vincere è quella di fare della presenza islamica un punto di forza, anzicchè di debolezza del processo di integrazione. L’Occidente dovrebbe utilizzare la Bosnia come un esempio per la promozione di un modello di integrazione islamica che rappresenterebbe un unicum all’interno dell’Europa.

* Sara Bagnato è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Perugia)

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Teheran, Damasco e Caracas: il triangolo strategico

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Che l’Iran annoveri tra le sue “amicizie di lungo corso” anche il Venezuela non è una novità. Oltre al Brasile e alla Bolivia, nella lista dei partners politici latino-americani un posto di rilievo è occupato proprio dal Venezuela di Hugo Chavez. Un’amicizia lunga all’incirca un decennio quella che lega il leader maximo al presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, rinnovata da frequenti incontri ufficiali. Nel 2004, in occasione di una visita ufficiale del presidente venezuelano in Iran, l’allora sindaco di Teheran Ahmadinejad (non ancora eletto alla carica presidenziale) rese omaggio al leader con l’inaugurazione di una statua raffigurante l’eroe nazionale Simon Bolivar, all’interno del parco Goft-o-Gou nei pressi della capitale iraniana. Nel 2006, Ahmadinejad e Chavez si rincontrano. Il primo da un anno è il presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, il secondo, invece da due anni è di nuovo alla guida della Repubblica Bolivariana del Venezuela. Il luogo dell’incontro stavolta è Caracas. È qui che i due leader rinnovano la loro “amicizia politica ed economica”. Un’alleanza, quest’ultima, incoraggiata nel 2005 proprio dal neo eletto presidente iraniano, deciso ad avviare una stretta collaborazione con i Paesi dell’America Latina. E il governo venezuelano non si è tirato indietro, accettando la sfida lanciata dal presidente iraniano. In cinque anni, le visite ufficiali del presidente venezuelano a Teheran si sono intensificate, segno di una buona intesa tra i due Paesi. In un solo anno (2007), Chavez ha raggiunto il suo omologo iraniano per ben due volte. Al centro dei loro incontri, la tutela dei reciproci vantaggi economici. Non c’è dubbio che Venezuela e Iran sono legati l’una all’altra da un doppio filo. Lo sono dal punto di vista politico, quando Chavez sostiene il diritto dell’Iran a sfruttare il nucleare per scopi essenzialmente civili; lo sono dal punto di vista economico, quando stringono accordi. A tal proposito, è opportuno ricordare il viaggio di Chavez in Iran del 2008. In questo frangente, il leader venezuelano ha avanzato una proposta al presidente iraniano: sostenere alcuni progetti industriali entro i confini nazionali bolivariani, attraverso il coinvolgimento di enti e società private iraniane. Un esempio perfetto di cooperazione “sud-sud”: l’Iran fornirebbe al Venezuela gli strumenti necessari, ovvero servizi tecnici e adeguata manodopera affinché questa concretizzi i numerosi progetti di espansione urbanistica e di sostegno all’edilizia locale. Un sistema di scambi e favori reciproci, quello messo in piedi dal governo di Caracas e favorito da quello iraniano, fondato essenzialmente sul rapporto qualità – prezzo.

L’Iran vede come prioritario – al fine di dare impulso alla sua economia interna – l’esportazione di servizi tecnici verso altri Paesi e in qualsiasi mercato che li richieda. Sull’altro versante, la parte venezuelana necessita di rinverdire il mercato interno attraverso buoni investimenti e mediante progetti frutto di una cooperazione sostenuta da costi ragionevoli e qualità di servizi. E l’Iran sembra volerglieli offrire. Sempre nel 2008, il governo iraniano ha firmato 150 accordi commerciali del valore di 20 miliardi con il Venezuela e si è classificato terzo tra i Paesi investitori. Alla luce di ciò, l’intesa tra i due è andata ben oltre, fino a toccare altri settori dell’economia: dall’elettricità all’ambiente, dall’agricoltura all’industria automobilistica. Compagnie miste venezuelano – iraniane fabbricano mattoni, producono latte e lanciano sul mercato auto e biciclette.

I due Paesi, in quanto membri OPEC, cooperano anche nel settore energetico – petrolifero. Un’intesa, la loro, sancita nel 1960 con la creazione dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio alla quale aderirono in origine, oltre all’Iran e al Venezuela, anche Arabia Saudita, Iraq e Kuwait. Attualmente, l’organizzazione si è ampliata fino a contare 11 membri permanenti. Tuttavia, l’idillio tra OPEC e Iran-Venezuela ha iniziato a scricchiolare nel 2008, quando l’asse Teheran/ Caracas ha inferto un duro colpo al cartello che controlla le esportazioni di greggio sul mercato globale. Al centro della disputa la valuta di scambio: meglio il dollaro o l’euro? Una diatriba culminata con una profonda frattura interna: l’Iran ha modificato il suo listino prezzi in euro, nonostante i restanti membri Opec abbiano mantenuto inalterata la valuta di scambio in dollari. Mentre Caracas ha optato per una politica monetaria ad hoc, da applicare al settore import-export. La misura è stata varata dal governo venezuelano ai primi di gennaio 2010 e consiste non tanto in una svalutazione, bensì in un adeguamento del valore della sua moneta, il bolivar in base alle necessità dettate dal mercato. In poche parole, il Venezuela può scegliere su una valuta debole e forte. Che cosa significa questo? Che la moneta nazionale si conforma alle diverse condizioni economiche, soprattutto nel settore delle esportazioni. L’economia bolivariana è strettamente legata alla produzione di materie prime, in particolare al petrolio, di cui possiede la quarta  più grande riserva certificata al mondo, dopo Iraq e Arabia Saudita, dopo le recenti scoperte nei pressi della Faglia di Orinoco: 314 milioni di barili estraibili, un terzo di tutte le riserve petrolifere mondiali. Fino al 2008, le entrate derivanti dal petrolio avevano raggiunto picchi elevatissimi, grazie all’ingente produzione di barili (stimati in oltre 3 milioni di barili al giorno) e al loro costo, altrettanto elevato: ciascun barile di “oro nero” costava intorno ai 100/150 dollari. Ma nell’ultimo trimestre dello stesso anno qualcosa inizia a cambiare, soprattutto a causa della crisi economica globale. Il prezzo del petrolio inizia a calare, fino a raggiungere la soglia dei 30 dollari a barile nel 2009. Per far fronte alla drastica caduta dei prezzi, l’OPEC opera un taglio altrettanto drastico della produzione pari al 25% al fine di ripristinare un certo equilibrio. Come ha reagito il Venezuela? Adeguando il prezzo della sua moneta alle sue individuali necessità. A partire dal 7 gennaio 2010, infatti, il governo di Caracas ha dato avvio al processo di “svalutazione-adeguamento” della moneta nazionale, dapprima per i prodotti di prima necessità per poi estendersi al settore petrolifero.

Una linea retta ideale unisce Teheran a Caracas passando per Damasco. E se i punti di questa linea si unissero, essi formerebbero un triangolo imperfetto. Iran, Siria e Venezuela che cosa hanno in comune queste tre realtà? Ad esempio, una rotta aerea percorsa due volte al mese da un vettore dell’Iran Air, la compagnia aerea iraniana. Per due sabati al mese, un Boieng 747SP decolla dall’aeroporto internazionale di Teheran e opera uno scalo di 90 minuti in terra siriana, prima di ripartire alla volta del Maiquetia International Airport di Caracas. Nata dall’intesa tra la società di trasporti venezuelano Conviasa e la compagnia di bandiera persiana Iran Air e inaugurata il 2 febbraio 2007, la rotta ha fin da subito generato sospetti sul versante occidentale. Dubbi e ipotesi hanno fatto da cornice in questi tre anni al volo 744 dell’Iran Air: che cosa trasporterà? Chi volerà a bordo dei suoi vettori? Domande rimaste senza risposta, se non fosse per alcune indiscrezioni filtrate dalle pagine di un “memorandum” risalente al 2008 e compilato da funzionari dei servizi segreti israeliani. Dietro il volo 744 dell’Iran Air si ritiene ci sia uno scambio di favori militari per via aerea. In poche parole, Chavez consentirebbe al leader iraniano di adoperare liberamente i propri aerei di linea in cambio di aiuti di varia natura: dal trasferimento di materiale scientifico verso i laboratori del Centro di studi e ricerca siriano a Damasco, agli aiuti militari diretti a Caracas. In particolare, si tratterebbe di spedizioni di macchine CNC, computer per il controllo di missili e di materiale per lo sviluppo di vettori. Le spedizioni verso “la zona franca” siriana sarebbero state fatte da una società iraniana – la “Shaid Bakeri” – nonostante i veti internazionali. Infatti, l’azienda è stata inclusa nel dicembre 2006 nella lista degli enti sanzionati dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (ris.1737), in ragione del ruolo svolto dall’Iran nello sviluppo del suo programma missilistico. Sanzioni ratificate lo scorso 18 giugno dall’Unione Europea. Nonostante i divieti imposti dalla comunità internazionale, la Siria avrebbe pertanto ricoperto il ruolo di corridoio di passaggio per gli scambi tra Teheran e Caracas.

Al di là di ipotesi e di supposizioni, le relazioni tra Caracas/Damasco e Iran/Damasco sembrano godere di buona salute. Nel primo caso, Chavez ha promesso al presidente siriano, Bashar al Asad, un supporto economico nella realizzazione di infrastrutture in terra siriana. In particolare, il governo venezuelano investirà nella costruzione di una raffineria che dovrà essere pronta entro il 2013. La struttura avrà la capacità di lavorare 140 mila barili al giorno. Mentre Caracas in veste di promotore finanziario, deterrà almeno il 30% delle azioni: la restante percentuale sarà ripartita tra Siria e Iran. Il progetto verrà portato avanti da un’impresa mista creata nel 2009, di cui fanno parte anche Iran, Malesia, Siria e appunto Venezuela e secondo stime approssimative, costerà circa 4,7 miliardi. Un piano ambizioso, ma nel contempo un segnale positivo nel settore dell’economia nazionale siriana nonché una prova di apertura nei confronti del mercato sud-americano. Le intenzioni di Caracas verso la Siria si sono spinte oltre: il 28 luglio 2010 nel corso della visita di Stato del presidente Asad a Caracas, il leader bolivariano ha esteso l’invito alla Siria a prendere parte all’ALBA, ovvero all’Alleanza Bolivariana per i Popoli di Nuestra America, in veste di osservatore del prossimo vertice del gruppo. L’intesa tra i due presidenti è sfociata poi nella firma di quattro accordi di collaborazione, in materia agricola e scientifica, che riguardano il trasferimento di tecnologie indispensabili per l’installazione di una fabbrica di olio d’oliva in territorio siriano.

Solidissimo il sodalizio tra Iran e Siria. Un’intesa strategica rafforzata nel corso delle due guerre del Golfo e cementata dal comune obiettivo di contrastare l’influsso israeliano nella Regione: dal 1967 la Siria rivendica le Alture del Golan occupate da Israele. Negli ultimi trent’anni, la vicinanza con l’Iran ha inoltre permesso alla Siria di uscire dal suo isolamento internazionale, durato troppo a lungo: dal 1963 al 2000. Cioè dall’ultimo colpo di Stato inferto alla già fragile struttura politica siriana dal partito baath, fino all’ascesa di Bashar al Asad, attuale presidente siriano e principale promotore di una politica distensiva in campo economico, favorevole ad un’apertura del mercato siriano verso l’esterno. Ma non solo. Entrambe sorreggono il movimento sciita libanese Hezbollah e la fazione radicale palestinese, Hamas. Infine, la Siria (come il Venezuela di Chavez) appoggia il diritto dell’Iran a proseguire lungo la strada dell’arricchimento dell’uranio, al fine di completare il suo programma nucleare per scopi essenzialmente civili. Come hanno più volte ribadito i presidenti dell’Asse Sud Americano-Asiatico, non è illegale fornire aiuti all’Iran e alla sua economia,martellata dalle pesanti sanzioni inflitte dalle Nazioni Unite e ratificate puntualmente dall’Unione Europea.

* Pamela Schirru è laureanda in Filosofia Politica (Università di Cagliari)

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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USA e Cina: il G-2 impossibile

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Negli ultimi anni, le ipotesi di un declino degli Stati Uniti e della fine del “momento unipolare” si sono fatte insistenti; diverse sono le teorie formulate da studiosi e politici sul futuro dopo il tramonto della supremazia nordamericana. Fra tutte, esaminiamo il caso di un “G-2 di fatto Cina-USA”, che, secondo molti, potrebbe guidare il mondo oltre l’attuale crisi finanziaria ed economica e capace di modellare un nuovo ordine globale dopo la crisi mondiale.

Infatti, Cina e USA potrebbero, vista la loro influenza, governare il mondo insieme, nonostante incarnino culture ed orientamenti politici inconciliabili. Più di un aspetto, però, li distingue: principalmente, concetti quali democrazia e diritti umani, e l’orientamento su clima e crisi finanziaria.

Una breve analisi dell’interdipendenza delle preferenze nazionali cinesi e statunitensi, mostrerà come le relazioni sino-americane siano ancora lontane da un’alleanza solida e durevole; improbabile appare dunque una vera vera e propria “diarchia” mondiale. Perchè?

1. Un ostacolo significativo all’efficace collaborazione di Stati Uniti e Cina è la profonda diversità in materia di sovranità, sanzioni ed uso della forza; dietro questa differenza di opinioni c’è una filosofia diversa riguardo a come il mondo dovrebbe funzionare e al ruolo che gli USA dovrebbero assumere nella politica mondiale. Sopra tutto, divergenze considerevoli si hanno a proposito dei princìpi formali della politica internazionale: mentre gli USA pongono al primo posto diritti umani, la Repubblica Popolare Cinese difende l’inviolabilità della sovranità nazionale.

2. In linea con la sua decisa opposizione al sacrificio della sovranità nazionale a favore dei diritti umani, Pechino insiste che Tibet, Taiwan e Sinkiang restino questioni interne e, in quanto tali, nessuno Stato estero ha diritto di intervenire; è suo diritto e dovere reprimere le forze che sfidano il governo organizzando ribellioni. Si capisce, quindi, perchè la “simpatia” per il Dalai Lama manifestata in più incontri da USA, Francia e Germania, le iniziative atlantiche tese a potenziare le forze armate di Taiwan ed ogni sostegno al movimento indipendentista del Turkestan orientale vengono interpretati da Pechino come lesivi degli interessi vitali della Cina.

3. Un altro serio ostacolo è costituito dalla diversa opinione di Pechino e Washington sulla diffusione delle democrazie liberali.

Gli Stati Uniti, fin dal secondo dopoguerra, hanno sempre ribadito la loro ambizione di democratizzare il mondo; ambizione, questa, in stridente contrasto con la preferenza cinese per un mondo pluralistico, nel quale esistano più forme di governo e differenti sistemi politici, anche del tipo che l’Occidente considera autoritario. L’opposizione della Cina, a ben vedere, deriva non tanto dall’ostilità verso la democrazia, quanto dalla riluttanza ad accettare un mondo dominato dagli ideali, dai valori e dalle istituzioni dell’Occidente (infatti, la democrazia liberale è un’idea occidentale “non asiatica, nè africana, nè mediorientale, se non di adozione” – Arthur Schlesinger Jr., citato da Samuel P. Huntington). Nonostante le risposte ai problemi che ha dovuto affrontare negli ultimi trent’anni (disuguaglianze economiche, arretratezza delle campagne ecc.) siano state, proprio per questa sua visione, spesso insoddisfacenti, Pechino continua a rifiutarsi di ricorrere alla democrazia di tipo occidentale, condannando anzi pubblicamente le pressioni fatte in questo senso da tanti Paesi liberaldemocratici.

4. Un quarto ostacolo all’efficace collaborazione di Stati Uniti e Cina nasce dalla loro diversa percezione dei problemi globali, e dalle preferenze divergenti su come affrontarli. In particolare, riguardo alla crisi finanziaria internazionale e ai cambiamenti climatici globali.

È noto il disaccordo fra le due potenze su chi sia il vero responsabile dell’attuale crisi economico-finanziaria. Dal punto di vista cinese gli USA sono i principali colpevoli; i nordamericani sono accusati di aver preso in prestito più di quello che è ragionevole farsi anticipare,e di produrre meno di quello che consumano. Sia i singoli statunitensi, sia il loro governo hanno speso, anno dopo anno, più di quello che hanno guadagnato o riscosso, e le banche, male sorvegliate dallo Stato, si sono limitate ad approffittarne. Questa, in sintesi, la posizione cinese. Mentre, dal punto di vista nordamericano, la crisi è stata in larga misura l’effetto della natura squilibrata dei rapporti economici Cina-Stati Uniti; Pechino,d’altro canto, non nega che questi squilibri ci siano, ma sottolinea che il commercio globale della Cina è, nell’insieme, abbastanza equilibrato. Le proposte avanzate da Pechino e Washington per risolvere questa situazione sono, ancora una volta, divergenti, contribuendo così a mantenere la situazione in una condizione di stallo.

Altrettanto divergenti le preferenze in materia di lotta ai cambiamenti climatici globali. Senza dubbio, Cina e USA sono entrambi interessati a trovare i modi di ridurre le emissioni di gas serra, ma Pechino insiste che i Paesi occidentali dovrebbero fare di più rispetto a quelli in via di sviluppo; dal suo punto di vista, non è giusto che questi ultimi paghino per i 200 anni in cui i gas serra sono stati emessi solo in Occidente. La Cina afferma che accetterà limitazioni internazionali vincolanti alle sue emissioni solo quando la sua economia non sarà danneggiata dalla difesa dell’ambiente. Al contrario, uno degli obiettivi di Washington in questo campo, è convincere la Cina a rispettare norme uniformi a livello internazionale; secondo il governo statunitense la Cina, che dà il maggiore singolo contributo (in valore assoluto ma non pro capite) all’emissione dei gas serra, nel caso di un accordo globale sul clima dovrebbe unirsi agli altri Paesi e fare la propria parte. Il timore, non tanto nascosto, è che la sua industria sia ulteriormente svantaggiata rispetto a quella cinese, se la Cina continuerà ad operare senza doversi curare di regole vincolanti.

Come si può notare anche da una veloce lettura, i termini più ricorrenti sono stati “differenze” e “divergenze”, per sottolineare i dissensi profondi e strutturali, causati da differenze di sistema politico, filosofia e cultura. Finchè le due nazioni non riusciranno a trovare un punto d’incontro sarà difficile una loro stretta collaborazione; sopra tutto sarà difficile che questa collaborazione funga da guida a livello mondiale.

Sapere come si stabilizzeranno gli equilibri mondiali dopo la supremazia nordamericana è quindi di ancora difficile previsione; tenendo conto dei tentativi di emancipazione della Cina, che non si lascia intimorire dall’intero Occidente, e della perdurante incapacità degli USA a considerare un’altra nazione alla pari, il G-2 appare comunque di difficile traduzione pratica.

* Sabrina Cuccureddu è laureanda in Scienze politiche e relazioni internazionali (Università “La Sapienza” di Roma)

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice, e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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Myanmar: Than Shwe visita la Cina – Approfondire i legami strategici

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Fonte:  Paper no. 4037 http://www.southasiaanalysis.org/papers41/paper4037.html

13 settembre 2010

(Than Shwe) ha bisogno di parlare con la Cina su come sviluppare ulteriormente le loro relazioni, se vince le elezioni, e di come la Cina e il Myanmar (Birmania) potranno andare oltre nella cooperazione politica ed economica” – ha detto Haili Zhao, professore associato presso il Centro per gli Studi sul Sud-est asiatico presso l’Università di Xiamen.

L’influenza di Pechino in Birmania potrebbe essere in calo, ma la sua influenza politica su Naypyidaw è ancora superiore a quella degli Stati Uniti e dell’Unione europea messi insieme.” – Ko Ko Thett a Irrawaddy.
Il generale Than Shwe ha visitato la Cina il 7-11 settembre 2010. Il Premier cinese Wen Jiabao ha visitato il Myanmar nel giugno del 2010, quando un certo numero di accordi furono firmati. Questo scambio di visite avvenne per commemorare il 60° anniversario dei legami diplomatici del Myanmar con la Cina. Il comandante in capo aveva dichiarato che i due paesi hanno definito una “relazione strategica“, che spesso i media birmani in esilio, definiscono come “relazione paukphaw (fraterna)“.

Than Shwe ha visitato l’India il 25-29 luglio 2010. Le visite in India e in Cina sono il pretesto per cercare il sostegno di questi due paesi per le prossime elezioni del novembre 2010, che vengono condannate come un processo di mistificazione da parte dei media occidentali.

Mentre l’India è rimasta neutrale, la Cina è stata molto decisa nel sostenere le elezioni. La dichiarazione del portavoce ufficiale Jiang Yu, in una conferenza stampa del 7 settembre, si legge “Ci auguriamo che la comunità internazionale possa fornire un aiuto costruttivo per le prossime elezioni, e astenersi da qualsiasi impatto negativo sul processo politico interno e sulla pace e la stabilità regionali“.

Than Shwe è stato accompagnato da una delegazione di 34 membri, inclusi parenti stretti e ufficiali militari che, di recente, hanno abbandonato le loro uniformi per partecipare alle prossime elezioni. Il 07 settembre, Than Shwe ha incontrato il capo di stato maggiore dell’Esercito di Liberazione del Popolo (PLA) e ha discusso una migliore cooperazione militare tra i due paesi. Gli è stato dato un formale benvenuto il 08 settembre, presso la Grande Sala del Popolo, dal presidente cinese Hu Jintao, che ha sottolineato che la visita “promuoverà ulteriormente le relazioni bilaterali e la cooperazione reciproca“.

Il 10 settembre, 2010, Than Shwe ha incontrato Wu Bangguo, presidente del Congresso nazionale del popolo della Cina e il premier Wen Jiabao. Prima di tornare a casa, Than Shwe ha visitato Shanghai e Shenzhen. Ha sottolineato che la visita in questi luoghi aveva lo scopo di “imparare dalle esperienze della Cina nella riforma e nell’apertura, e promuovere la cooperazione tra le zone sviluppate del Myanmar e della Cina“.

Secondo una relazione dei media di Stato del Myanmar, “La Cina ha inviato 8,17 miliardi dollari al Myanmar, nel bilancio dell’anno in corso, che rappresentano i due terzi del suo investimento complessivo negli ultimi due decenni“. La Cina è il terzo più grande partner commerciale e investitore del Myanmar, dopo la Thailandia e Singapore. Un rapporto Xinhua segnala che, nel 2009, il commercio bilaterale ammontava a 2,9 miliardi dollari.

Forse per coincidenza, due navi da guerra cinesi hanno fatto la loro prima visita a Thilawa Porto di Yangon, nel Myanmar, dove hanno soggiornato per cinque giorni, dal 29 agosto 2010. Queste navi erano sulla via del ritorno per la Cina, dopo aver completato la loro missione per proteggere le flotte cinesi dalla pirateria nelle acque al largo della costa della Somalia. Il Prof. Nick Thomas, un esperto di affari internazionali dell’Asia orientale, nel commentare questa visita ha dichiarato alla BBC che essa “significa che la Cina considera la Birmania un alleato. Non deve essere vista isolata – ma guarda avanti alle elezioni quando la (Birmania) sarà grandemente posta sotto l’attenzione internazionale, e la Cina riconferma il proprio sostegno alla Birmania“.

Nel giugno 2010, venne segnalato che erano iniziati i lavori di costruzione del gasdotto doppio (petrolio e gas naturale) da parte della China National Petroleum Corporation, che parte dal porto oceanico di Kyaukpyu, sulla costa occidentale del Myanmar, e attraverso il paese, arriva nella provincia dello Yunnan, in Cina. Questo ha una implicazione strategica, poiché così la Cina non sarà più dipendente dallo Stretto di Malacca per il trasporto di petrolio e gas dal Medio Oriente alla Cina. Per salvaguardare questi oleodotti e ottenere l’accesso all’Oceano Indiano, la Cina sta sviluppando vari porti sulla costa del Myanmar e potrebbe aumentare la sua presenza navale nell’Oceano Indiano, con grande dispiacere dell’India.
Nuove analisi

Questa potrebbe essere l’ultima visita ufficiale del generale Than Shwe inCina, a meno che non decida di diventare il presidente del Myanmar, dopo le elezioni.

La sua serie di visite nei paesi limitrofi, che termina forse in Cina, sta rendendo evidente che sta cercando il sostegno dei suoi vicini per l’elezione in novembre, mentre le nazioni occidentali le hanno del tutto respinte quale mezzo per il regime di mantenersi al potere con un abito civile.

La Cina ha risposto positivamente, e ha anche chiesto alla comunità internazionale di astenersi da qualsiasi impatto negativo in questo processo, e ha ribadito che è solo una questione interna.

Le relazioni tra Cina e Myanmar sono migliorate rapidamente dal 1985, quando la Cina ha smesso i finanziamenti, e altre forme di sostegno, al Partito comunista birmano.

La Cina, per i interessi propri acquisiti, preferisce lo status quo per continuare, ma continua a sostenere il processo elettorale per inaugurare un governo civile, mentre i militari possono ancora battere dei colpi.

Con l’amara esperienza dell’agosto 2009, quando oltre 30mila profughi di etnia cinese entrarono in Cina, la preoccupazione principale era la reazione dei gruppi etnici nel Myanmar, specialmente al confine cinese, in occasione delle elezioni. Scontri possono scoppiare con quei gruppi che sono sotto pressione, per trasformarsi in guardie di frontiera al servizio dell’esercito del Myanmar.

La Cina preferisce un Myanmar stabile per via di tutti gli investimenti effettuati nel paese e per il suo crescente fabbisogno energetico, in particolare con il lavoro sul gasdotto doppio che attraversa tutto il paese, che è iniziato a giugno di quest’anno.

La Cina fa sempre leva sul suo potere di veto, per sostenere il Myanmar presso le Nazioni Unite. La Cina continuerà a esercitare pressioni per ottenere maggiori opportunità di investimento e vantaggi strategici.

Con un’altra interazione proficua con la Cina, il Myanmar continua ad essere fortemente dipendente dalla Cina.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru/
http://www.bollettinoaurora.da.ru/
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/

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L’ayatollah Khamenei sul rogo del Corano

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In the Name of God, the Compassionate, the Merciful


“It is we who sent down the Koran, and we watch over it,” says God the Mighty, the Wise [Holy Quran, 15:9]

Great Iranian nation, great Islamic Ummah!

The insane, revolting insult to the Holy Quran in America, an incident occurring under the security provided by the US police, is a major tragic event that cannot be considered merely as the foolish act of a few worthless mercenaries. This is a preplanned act by those who since years ago have put Islamophobic and anti-Muslim policies on their agenda and have tried to combat Islam and the Quran in numerous ways resorting to a myriad of propaganda means and campaigns. This is another link in a chain of shameless measures launched with the blasphemy of Salman Rushdi, the apostate, followed by the insult of the base Danish caricaturist, tens of anti-Islamic movies produced in Hollywood and now crowned by this disgusting show. Who and what is behind such evil acts?


Looking into this trend of evil, as manifested in recent years in atrocious operations in Afghanistan, Iraq, Palestine, Lebanon and Pakistan, leaves no doubt that it is designed and masterminded by heads of world imperialism and Zionist think tanks which have the highest degree of influence in the government, the military and security agencies of the United States as well as Britain and some other European countries. These are those at whom the finger of suspicion of independent truth-finding groups and individuals is pointed in the case of the attack on the Twin Towers on September the 11th. The then-president of the US, a criminal, was provided with the pretext to invade Iraq and Afghanistan; he declared a Crusade and, reportedly, has said yesterday that with the Church entering the stage the Crusade has truly begun.


What is aimed at through the recent repulsive incident is, on the one hand, to take the confrontation with Islam and Muslims to the populace in the Christian community, to give it a religious coloring and entrenching it with religious zeal and sentiment by involving the church and, on the other, to divert the attention of the Muslim nations, enraged and hurt by this hideous effrontery, away from the issues and developments in the Muslim world and the Middle East.

This vengeful act is not the beginning of a trend but another stage in the long history of antagonizing Islam headed by Zionism and the US government. Now all the heads of world hegemony and impiety are ranked against Islam. Islam is the religion of human liberation and spirituality, and the Quran is the book of compassion, wisdom and justice. It is incumbent upon all free-spirited people of the world and all the followers of the Abrahamic religions to side with the Muslims in countering these heinous anti-Islamic policies and acts. Empty, deceitful words cannot exonerate the heads of the American government from the charge of involvement in this ugly phenomenon. For years those things held sacred by millions of oppressed Muslims in Afghanistan and Pakistan, in Iraq, in Lebanon and Palestine have been desecrated, all their rights and their dignity trampled on. Hundreds of thousands killed, tens of thousands of men and women captured and tortured, thousands of children and women kidnapped, and millions injured and made homeless – all victimized for what? And with these wrongs, why does the Western media represent Muslims as violence incarnate and Islam, and the Quran, as a menace to humanity? How can one believe that this vast conspiracy could be made possible without the support and involvement of the Zionist circles in the US government?!

O Muslim brethren and sisters in Iran and all over the world!
It is necessary to draw the attention of all to the following points:
First, this incident and similar ones show that what is now being targeted by the global hegemony and world Imperialism are the very foundations of the dear Islam, and the Holy Quran. The manifest enmity of the arrogant world powers towards the Islamic Republic of Iran is because of the manifest resistance of Iran against them; the claim of these powers in not being the enemies of other Muslims, and of Islam, is a big lie, a satanic deception. They are the enemies of Islam, whoever believes in it, and whatever signifies it.

Second, these spiteful acts against Islam and Muslims stem from the fact that since a few decades ago the light of Islam has been shining brighter than ever, its grip on the hearts and souls in the Muslim world and even in the West has been stronger than ever before. It stems from the fact that the Islamic Ummah is now more awake than ever and is determined to free itself of the shackles of two centuries of colonialism and interference. The incident of insulting the Quran and the Great Prophet of Islam despite all its bitterness bears great tidings. The bright sun of the Quran will shine brighter than ever.

Third, we should all know that this incident has nothing to do with Christianity and the Church; we should not regard the puppet-like acts of a few idiotic and mercenary priests as those of Christians and church men. We Muslims will never commit similar acts against what are held sacred in other religions. Conflict between Muslims and Christians, on a popular scale, is what our enemies and the stagers of this insane show are after. What the Quran teaches us is diametrically opposed to this.
Fourth, today the protests of all Muslims are directed at the US government and American politicians. If they are honest in their claim of not being involved in this, they must duly punish the main planners and operators of this heinous crime who have hurt the feelings of one and a half billion Muslims the world over.

And peace is on him who follows piety.

Sayyed Ali Khamenei

September 13, 2009

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Oceano Indiano: qui si svolge la grande battaglia per il dominio del mondo

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Fonte: Investig’Action – http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=21057

Intervista di Lalieu Gregory e Michel Collon a Hassan Mohamed

15 settembre 2010

Il destino del mondo si gioca oggi nell’Oceano Indiano? Dominato dall’arco dell’Islam (che varia dalla Somalia all’Indonesia attraverso il Golfo e l’Asia centrale), la regione è sicuramente diventata il nuovo centro di gravità strategico del pianeta. Questo nuovo capitolo della nostra serie “Comprendere il mondo musulmano“, ci accompagna in una crociera. Mohamed Hassan spiega come lo sviluppo economico della Cina, che sconvolge l’equilibrio delle potenze mondiali e fa uscire il Sud dalla sua dipendenza dell’Occidente. Ci rivela anche le strategie attuate dagli Stati Uniti per cercare di mantenere la leadership. E perché l’impero USA è tuttavia destinato all’estinzione. Infine, ci ha previsto la fine della globalizzazione. Resta la questione se questa rapina globale finisca senza problemi, o se i rapinatori liquidaranno gli ostaggi, in questa avventura.

Serie “capire il mondo musulmano” .

Dal Madagascar alla Thailandia, passando per la Somalia, il Pakistan o la Birmania, il bacino dell’Oceano Indiano è particolarmente agitato! Come spiega queste tensioni?

L’equilibrio del potere nel mondo è in subbuglio. E la regione dell’Oceano Indiano è al centro di questa tempesta geopolitica.

Di quale zona parliamo, esattamente?

Si va dalla costa orientale dell’Africa al sud dell’Asia. Con un lago (il Mar Caspio) e tre fiumi: il mare del Golfo, Mar Rosso e il Mar Mediterraneo.

Perché questa regione è così importante? Primo, perché il 60% della popolazione mondiale è concentrata in Asia ed è collegata all’Oceano Indiano. Da sole, Cina e India assorbono il 40% della popolazione mondiale. Inoltre, l’affermazione economica di queste due potenze, avviene nell’Oceano Indiano, una zona particolarmente strategica. Oggi, il 70% del traffico mondiale di petrolio passa attraverso questo oceano. Tale percentuale dovrebbe aumentare, per le crescenti esigenze di entrambi i paesi. Inoltre, il 90% del commercio mondiale è trasportato da navi portacontainer e l’Oceano Indiano riceve solo la metà di questo traffico.

Come previsto dal giornalista statunitense Robert D. Kaplan, stretto consigliere di Obama e del Pentagono, l’Oceano Indiano diventerà il centro di gravità strategico del mondo del 21° secolo. Non solo questo oceano è un passaggio fondamentale per le risorse energetiche e commerciali tra il Medio Oriente e Asia orientale, ma è anche al centro degli assi di sviluppo economico tra la Cina, da una parte, e Africa e America Latina, dall’altra.

L’ascesa di queste nuove relazioni commerciali significa che il Sud si sta liberando dalla sua dipendenza dall’Occidente?

In effetti, alcune cifre sono impressionanti: il commercio Cina – Africa è aumentato di venti volte dal 1997. Quello con l’America Latina di quattordici in meno di dieci anni! India e Brasile, inoltre, collaborano più strettamente con il continente africano. Sotto la spinta della Cina, gli investimenti Sud-Sud sono aumentati rapidamente. Dopo essere stata depredato e saccheggiato per secoli, il Sud finalmente esce dal suo torpore.

Perché così tanti paesi dell’Africa e dell’America Latina si stanno rivolgendo alla Cina?

Per secoli, l’Occidente s’è impegnato in un vero e proprio saccheggio delle risorse del Sud, ostacolando i paesi in via di sviluppo, soprattutto attraverso un debito odioso. Ma la Cina sta offrendo prezzi migliori per le materie prime, e investe nei paesi in via di sviluppo per sviluppare infrastrutture, programmi sociali o progetti di energia pulita. Ha anche abolito i dazi doganali all’importazione di molti prodotti africani, facilitando notevolmente la produzione e il commercio di questo continente. Infine, ha anche annullato il debito dei paesi più poveri dell’Africa.

Inoltre, a differenza delle potenze occidentali, la Cina non interferisce nella politica interna dei suoi partner economici. In una conferenza ministeriale Cina-Africa, il premier cinese Wen Jiabao ha riassunto la politica del suo paese: “Il nostro commercio e la nostra cooperazione economica sono basate sul reciproco vantaggio. (…) Non abbiamo mai posto condizioni politiche all’Africa e non lo faremo mai neppure in futuro.” Che differenza dalle potenze occidentali che hanno continuamente fatto e disfatto i governi in Africa! Il Sud ha sete d’indipendenza: l’alleanza con la Cina è una reale opportunità per placare quella sete.

Infine, i paesi capitalisti occidentali versano in grave crisi economica, che ha ripercussioni sulla Cina, ma che non gli impedisce di mantenere una forte crescita. In questa situazione, è normale che i paesi africani e latinoamericani si stiano rivolgendo al più forte partner economico. Come indicato sul Financial Times, in precedenza, il Brasile è stato colpito dalla crisi negli Stati Uniti. Ma nel 2009, la sua economia ha continuato a crescere, e non è un caso che la Cina sia diventata il suo principale partner economico.

Questa Sud-Sud sfida l’egemonia occidentale. Gli Stati Uniti e l’Europa lasciano la Cina invadere il loro territorio?

Nel complesso, lo sviluppo di questo asse Sud-Sud presenta due principali minacce per gli interessi delle potenze imperialiste, e in particolare per gli Stati Uniti. In primo luogo, si ritira dalla zona d’influenza dei paesi occidentali ricchi di materie prime. In secondo luogo, permette alla Cina di avere tutte le risorse necessarie per continuare il suo folgorante sviluppo. In piena crescita, Pechino sta raggiungendo la prima potenza economica: gli Stati Uniti. Secondo Albert Keidel, ex economista della Banca Mondiale e membro del Consiglio Atlantico, la Cina potrebbe andare in testa nel 2035.

Oggi, Washington cerca quindi di contenere l’emergere della Cina per mantenere la leadership. E il controllo dell’Oceano Indiano è al centro di questa strategia. La lotta contro la pirateria somala è, in realtà, un pretesto per la posizione delle forze NATO nell’Oceano Indiano, e per mantenere il controllo delle potenze occidentali in questo bacino. Anche il Giappone ha iniziato la costruzione di una base militare a Gibuti, per la lotta contro la pirateria.

Parliamo ora di pirati, o dei terroristi islamici. Minaccia o pretesto?

Non sto dicendo che non vi è alcuna minaccia. Semplicemente, le potenze occidentali li strumentalizzano per i loro interessi strategici nella regione. Come s’è sviluppata la pirateria in Somalia? Da oltre venti anni, non vi è nessun governo in questo paese. Alcune società europee hanno colto l’occasione per venire a saccheggiare il pesce al largo delle coste, e gli altri a scaricare rifiuti tossici. In queste condizioni, i pescatori somali, inabili al lavoro, si sono impegnati nella pirateria per sopravvivere. Naturalmente, il fenomeno ha assunto un’altra dimensione da allora. Ma se si vuole risolvere il problema della pirateria, lo si deve attaccare alla radice e ristabilire un ordine politico legittimo in Somalia. Ordine che gli USA non hanno voluto finora…

Sì, e la loro politica sciocca potrebbe creare problemi ben più gravi. Infatti, dobbiamo sapere che la Somalia è il centro storico dell’Islam in Africa orientale. In precedenza, l’influenza dei capi religiosi somali era molto importante. Avevano portato l’islam sunnita fino in Mozambico. Inoltre, quando gli sciiti dell’Oman estesero la loro influenza in Africa orientale, nel corso del 18° secolo, hanno pesantemente influenzato la cultura della regione, ma non furono in grado di convertire la popolazione allo Sciismo.

Oggi, un movimento islamico potrebbe svilupparsi a causa degli errori commessi dagli Stati Uniti nel Corno d’Africa. E se i leader di questo movimento utilizzeranno questa storia comune per raccogliere membri in tutta l’Africa orientale, e difendere la Somalia come un centro dell’Islam africano, la minaccia diventerà molto grave per gli Stati Uniti!

L’Oceano Indiano è sormontato dalla “arco dell’Islam“, che si estende dall’Africa orientale all’Indonesia, attraverso il Golfo e l’Asia centrale. Come questo oceano, la culla del potere musulmano, è finito sotto il dominio delle potenze occidentali?

Prima dell’apertura del Canale di Suez nel 1869, quattro grandi potenze dominavano la regione: l’impero turco ottomano, i persiani (oggi Iran), quella dei Moghul (l’impero musulmano che fiorì in India) e la Cina. Attraverso l’Oceano Indiano, il commercio aveva messo in contatto i popoli musulmani con altri popoli della regione, e ha contribuito a diffondere l’Islam in Cina e in Africa orientale. Così l’arco di Islam è stato formato e l’Oceano Indiano è stato ampiamente dominato da potenze musulmane.

a un evento importante si è verificato in India, smorzando la dominazione europea sulla regione: la ribellione indiana nel 1857. I sepoy erano soldati indiani al servizio della compagnia delle Indie inglese. Le ingiustizie inflitte dai loro datori di lavoro hanno portato a una ribellione che, molto rapidamente, ha portato a un grande movimento popolare. E’ stata una rivolta molto violenta, i sepoy massacrarono molti inglesi, ma che infine riuscirono a reprimere il movimento. In Gran Bretagna, una campagna propagandistica denunciava la barbarie dei sepoy. Karl Marx analizzò questo evento e ne trasse le conclusioni: “I loro metodi sono barbari, ma dobbiamo chiederci chi li ha portati a mostrare una tale brutalità: i coloni britannici che si stabilirono in India.”

Oggi stiamo vivendo la stessa cosa con gli attentati dell’11 settembre. Tutta l’opinione pubblica occidentale è portata ad indignarsi per i metodi barbari dei terroristi islamici. Ma non si fanno domande soprattutto sui fattori che hanno dato origine a questa forma di terrorismo, che ci rimanda alla politica estera degli Stati Uniti in Medio Oriente, durante gli ultimi cinquant’anni.

Infine, la soppressione della ribellione ha avuto due importanti conseguenze: in primo luogo, la colonia indiana, precedentemente gestita da società private, ufficialmente passò sotto l’amministrazione del governo britannico. Poi, la Gran Bretagna depose l’ultimo leader dei musulmani dell’India, l’imperatore Mogul Muhammad Bahâdur Shâh. Fu esiliato in Birmania, dove finì i suoi giorni.

Undici anni dopo la ribellione indiana, si aprì il canale di Suez, che collega il Mediterraneo e l’Oceano Indiano. Una famosa spintarella per la dominazione europea di questo oceano?

Assolutamente. La colonizzazione europea nel bacino dell’Oceano Indiano si accelerò allora, la Francia e la Gran Bretagna si presero Gibuti, l’Egitto e Bahrein per proteggere India dall’espansione russa.

Poi, dopo molti cambiamenti nell’imperialismo nel 19° secolo (unificazione di Germania e Italia, la spartizione dell’Africa tra le potenze europee), l’impero del sultanato d’Oman fu l’ultima potente forza araba nell’Oceano Indiano. Per rovesciarlo, gli Europei montarono una campagna di propaganda sul fatto che gli omaniti sfruttavano gli africani come schiavi. Con il pretesto della lotta contro la schiavitù, l’Europa ha mobilitato le sue truppe nell’Oceano Indiano e rovesciò il sultanato di Oman. Così, la dominazione occidentale sull’Oceano Indiano divenne totale.

Ma oggi, questa posizione dominante è messa in discussione dalle potenze emergenti dell’Asia e dell’Oceano Indiano, e potrebbe diventare il teatro di una competizione sino-statunitense. Gli Stati Uniti sono in declino e la Cina in spettacolare ascesa, come Washington potrebbe bloccare il suo principale concorrente?

Il Pentagono è ben consolidato nella regione: una enorme base militare a Okinawa (Giappone), accordi con le Filippine, con il pretesto della lotta contro il terrorismo, ottimi rapporti con i militari indonesiani che sono stati addestrati da Washington a uccidere milione di comunisti e a stabilire una dittatura militare negli anni ’60…

Inoltre, gli Stati Uniti possono contare sulla loro base militare di Diego Garcia. L’isola di corallo, situata nel cuore dell’Oceano Indiano, sarebbe più di un posto per vacanze da sogno, con una spiaggia di sabbia bianca e le palme. Tuttavia, la storia di questa isola è molto meno affascinante, nel 1965 Diego Garcia e il resto delle Isole Chagos, furono incluse nel territorio britannico nell’Oceano Indiano, nel 1971, e tutti gli abitanti dell’isola Diego Garcia vennro espulsi dagli Stati Uniti, che costruirono una base militare: è da questa posizione estrategica che Washington ha condotto alcune operazioni nel contesto della guerra fredda, e delle guerre in Iraq e in Afghanistan. Oggi, nonostante i giudici inglesi abbiano dato loro ragione, agli abitanti di Diego Garcia è impedito di ritornare alla loro isola da parte del governo del Regno Unito.

Gli Stati Uniti hanno quindi una forte presenza militare nella regione. Da parte sua, la Cina ha due talloni d’Achille: lo Stretto di Hormuz e quello di Malacca. Il primo (tra Oman e Iran) è l’unico accesso al Golfo Persico ed è largo solo 26 km, nel punto più stretto. Circa il 20% del petrolio importato dalla Cina attraversa questo luogo. L’altro punto debole, lo Stretto di Malacca (tra la Malaysia e l’isola indonesiana di Sumatra), è molto trafficato e pericoloso, ma è il principale punto di passaggio per le merci provenienti dall’Oceano Indiano per la Cina. Circa l’80% delle importazioni di petrolio della Cina passa attraverso lo stretto. Gli Stati Uniti sono ben consolidati in questo settore, potrebbero bloccare lo stretto di Malacca, nel caso un conflitto dovesse esplodere con la Cina. E sarebbe un disastro per Pechino.

Questo spiega perché la Cina cerca di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento energetico?

Assolutamente. Di fronte a questo grave problema, la Cina ha sviluppato diverse strategie. Il primo è rifornirsi in Asia centrale. Un gasdotto che collega il Turkmenistan alla provincia cinese del Xinjiang, da oggi al 2015, dovrebbe fornire 40 miliardi di metri cubi all’anno, quasi la metà del consumo attuale della Cina. Un oleodotto collega la Cina anche al Kazakistan, trasportando petrolio dal Mar Caspio.

C’è anche l’Asia meridionale. Pechino ha firmato accordi con il Bangladesh per ottenere gas e petrolio. Ha recentemente annunciato la costruzione di un oleodotto e un gasdotto, che forniranno rispettivamente, dal Myanmar (Birmania), 22 milioni di tonnellate di petrolio e 12 miliardi di metri cubi di gas all’anno.

Infine, la terza strategia cinese, chiamata “filo di perle” è quello di costruire porti in paesi amici, lungo la costa nord dell’Oceano Indiano. Obiettivo: avere un traffico navale autonomo in questa regione autonoma. Di questa strategia fa parte la costruzione del porto oceanico di Gwadar, nel Pakistan. Questo tipo di porto è adatto al traffico delle navi portacontainer, e la Cina dovrebbe costruirne altri, soprattutto in Africa. Si noti che alcune navi portacontainer che trasportano merci verso la Cina dall’America Latina, sono troppo grandi per raggiungere l’Oceano Pacifico attraverso il Canale di Panama. Esse quindi passano attraverso l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano, prima di raggiungere la Cina. Durante questo viaggio, non dovrebbero necessariamente attraversare l’Europa, come avviene adesso, e passare nell’Oceano Indiano attraverso il Canale di Suez. Come parte dell’asse Sud – Sud, queste navi portacontainer potrebbero, invece, transitare in Africa, collegando l’America Latina e l’Asia.

Ciò avrebbe conseguenze importanti per l’Africa. Paesi come Mozambico, Somalia, Sud Africa e Madagascar potrebbero far parte di questa grande rete dell’Oceano Indiano. Se vogliono sviluppare nuovi porti come Gwadar, sarebbe un enorme boom economico in questa regione dell’Africa. Nel frattempo, l’attività dei principali porti europei come Marsiglia e Anversa declinerà. Collegare l’Africa al mercato asiatico attraverso l’Oceano Indiano, sarebbe un vantaggio per il continente. Nelson Mandela, quando era presidente del Sud Africa, ha desiderato vedere realizzati questo progetto, ma gli Stati Uniti e in Europa si opposero. Oggi, la Cina ha i mezzi per assumere la guida. Creato l’asse Sud-Sud: i paesi del terzo mondo sfuggiranno alle divisioni instauratesi tra loro e collaboreranno sempre di più. Il mondo è in fermento!

Come la Cina è diventata una tale potenza in così poco tempo?

Fino al 19° secolo, la Cina era una grande potenza. Vendeva prodotti di buona qualità e aveva più valuta estera, oro e argento delle potenze europee. Ma il paese non s’è mai aperto al commercio internazionale. C’erano solo pochi insediamenti sulle coste, con disappunto della Gran Bretagna. Quest’ultima, in piena rivoluzione industriale, cercava di vendere una grande quantità dei suoi prodotti in tutta la Cina.

Così, quando il viceré Lin Zexu ordinò la distruzione, nel 1838, di casse di oppio che la Gran Bretagna importava illegalmente in territorio cinese, i britannici trovarono il pretesto per la guerra. Lord Melbourne mandò una spedizione a Canton, fu la prima guerra dell’oppio. Si concluse quattro anni dopo. Sconfitti, i cinesi furono costretti ad aprire ulteriormente il loro paese al commercio internazionale.

Ma le potenze imperialiste voleva penetrare ancor più verso l’interno della Cina, al fine di vendere i loro prodotti. E chiedevano la legalizzazione della vendita dell’oppio, nonostante la devastazione che ha causato nella popolazione. Poiché questo business molto redditizio permetteva loro di essere pagati in lingotti d’argento, ebbero una bilancia commerciale favorevole. Di fronte al rifiuto dell’Impero Cinese, Gran Bretagna e  Francia avviarono la “seconda guerra dell’oppio” (1856-1860). In ginocchio, la Cina è diventata una semi-colonia delle potenze occidentali. Infine, la vendita dell’oppio fu legalizzata e la Gran Bretagna e gli Stati Uniti vi si dedicarono con molto profitto.

Di tutto ciò non si parla in Europa, dove sembra finalmente di conoscere per nulla la storia della Cina …

Anche altrove. E’ importante capire che queste guerre imperialiste e le distruzioni causate dalle potenze coloniali hanno provocato la morte di oltre cento milioni di cinesi. Alcuni furono presi come schiavi nelle miniere del Perù, dove le spaventose condizioni di lavoro causarono numerosi suicidi collettivi. Altri furono usati per costruire le ferrovie negli Stati Uniti. Mentre migliaia di bambini cinesi vennero rapiti per scavare i primi pozzi di petrolio della Shell in Brunei, mentre le tecniche di estrazione meccanizzate non erano ancora pronte. È stato un periodo terribile. Nessun popolo ha sofferto così tanto. Bisognerà attendere il 1949 e la rivoluzione guidata da Mao, per vedere la Cina diventare indipendente e prospero.

Alcuni attribuiscono questa crescita enorme della Cina a Deng Xiaoping: solo le prese di distanze dal maoismo e l’apertura della Cina al capitale straniero avrebbe consentito al paese di svilupparsi…

Si dimentica che la Cina di Mao era già in continuo sviluppo tra il sette e il dieci per cento! Naturalmente, Mao ha fatto degli errori durante la Rivoluzione Culturale. Ma ha anche trovato un paese di un miliardo di persone in estrema povertà. E ha permesso alla Cina di diventare uno stato indipendente dopo un secolo di oppressione. E’ quindi sbagliato attribuire lo sviluppo solo alla politica della porta aperta della Cina di Deng Xiaoping. Partendo dal nulla, questo paese ha continuato a crescere, a partire dalla rivoluzione del 1949. E questo compito non è completato.

Ovviamente, l’apertura al capitalismo attuale solleva numerosi interrogativi sul futuro della Cina. Ci saranno sicuramente contraddizioni tra le diverse forze sociali, con il rafforzamento di una borghesia locale. La Cina potrebbe diventare un pieno paese capitalista, ma non dominato dall’imperialismo. Ma in entrambi i casi, gli Stati Uniti cercheranno di evitare che il paese diventi una grande potenza con i mezzi per resistergli.

Giustamente, alcuni sostengono che la Cina stessa è diventata una potenza imperialista, esportando il suo capitale ai quattro angoli del pianeta e compiendo prospezioni in tutto il Sud per ottenere materie prime?

C’era confusione, anche all’interno della sinistra, sulla definizione di imperialismo fatta da Lenin (che ha probabilmente meglio studiato questo fenomeno). Alcuni non considerano che un singolo componente di tale definizione, l’esportazione di capitali all’estero. Certo, grazie alle esportazioni di capitale, le potenze capitaliste si arricchiscono più velocemente, e finiscono per dominare le economie dei paesi meno sviluppati. Ma nel contesto dell’imperialismo, il predominio economico è inseparabile dalla dominazione politica che trasforma il paese in semi-colonia.

In altre parole, se sei un imperialista, è necessario, nel apese in cui esporti capitali, creare il tuo burattino personale, un governo che serva i tuoi interessi. Potete addestrare anche l’esercito della vostra semi-colonia a organizzare i colpi di stato militari, quando il burattino non obbedisce. Ciò è accaduto di recente in Honduras, dove è stato deposto il presidente Manuel Zelaya da un esercito i cui ufficiali sono stati addestrati nelle accademie militari statunitensi. È anche possibile infiltrarsi del sistema politico con le organizzazioni come la CIA, per creare dei collaborazionisti interni. In breve, l’imperialismo si basa su una doppia posizione dominante: economica e politica. L’una non va senza l’altra.

Questo fa una grande differenza con la Cina. Essa non interferisce negli affari politici dei paesi con i quali commercia. E l’esportazione di capitali non è destinata a dominare e soffocare le economie dei paesi partner. Così, la Cina non solo non è una potenza imperialista, ma consente anche ai paesi che subiscono l’imperialismo di liberarsi sconvolgendo la struttura di potere costituita dall’Occidente.

Gli Stati Uniti possono ancora fermare il loro concorrente cinese? Certo, il Pentagono s’è ben stabilitosi nella regione, ma un confronto militare diretto con la Cina sembra improbabile: Washington è ancora impantanato in Medio Oriente e, secondo molti esperti, non sarebbe in grado di vincere un conflitto diretto con Pechino.

In effetti, bombardare e invadere la Cina non è un’opzione plausibile. Gli Stati Uniti hanno quindi sviluppato strategie alternative. La prima è affidarsi agli stati vassalli in Africa, per controllare il continente ed impedire l’accesso della Cina alle materie prime. Questa strategia non è nuova, era stata sviluppata dopo la seconda guerra mondiale, per contenere lo sviluppo del Giappone.

E quali sono oggi i vassalli degli Stati Uniti?

In Nord Africa, c’è l’Egitto. Per l’Africa orientale c’è l’Etiopia. Per l’Africa Occidentale, la Nigeria. Per il sud e per il centro del continente, Washington contava sul Sud Africa. Ma questa strategia è fallita. Come abbiamo visto, gli Stati Uniti non riescono a impedire ai paesi africani di commerciare con la Cina, e hanno perso una grande influenza sul continente. Testimonianza del colpo subito dal Pentagono, è stato quando esso ha cercato invano un paese che ospitasse il quartier generale del suo comando regionale AFRICOM. Tutti gli Stati continentali si sono rifiutati di ospitare questa base. Il ministro della Difesa sudafricano ha spiegato che il rifiuto è “una decisione collettiva africana” e lo Zambia aveva anche risposto al Segretario di Stato USA: “Vorreste avere un elefante in salotto?” Attualmente, la sede del comando regionale per l’Africa è a Stoccarda …! E’ una vergogna per Washington.

Un’altra strategia degli Stati Uniti per controllare l’Oceano Indiano, sarebbe usare l’India contro la Cina per esacerbare le tensioni tra i due paesi. Questa tecnica era stata usata per l’Iran e l’Iraq, negli anni ’80. Gli USA armarono entrambi le parti contemporaneamente, e Henry Kissinger aveva dichiarato: “Lasciate che si uccidano a vicenda!” L’applicazione di questa teoria all’India e alla Cina, porterebbe a prendere due piccioni con una fava, indebolendo le due maggiori potenze emergenti dell’Asia. Inoltre, negli anni ’60, gli Stati Uniti avevano già usato l’India in un conflitto contro la Cina. Ma l’India fu sconfitta e adesso io non credo che i suoi leader farebbero lo stesso errore di andare in guerra contro il loro vicino, per gli interessi di una potenza straniera. Ci sono molte contraddizioni tra Pechino e New Delhi, ma non sono importanti. Questi due paesi emergenti del Terzo Mondo non devono impegnarsi in questo tipo di conflitto, tipicamente imperialista.

Niente da fare, quindi, per gli Stati Uniti in India o in Africa. Ma in Asia orientale, hanno molti alleati. Possono contare su di essi per contenere la Cina?

Ancora una volta, Washington ha fallito, a causa della sua avidità. L’Asia del Sud-Est ha avuto una terribile crisi economica del 1997, causata da un grande “errore” degli Stati Uniti. Tutto è iniziato con una svalutazione della moneta tailandese, che era stato attaccata da speculatori. Di conseguenza, i mercati azionari furono in preda del panico e molte aziende fallirono. La Thailandia, aveva sperato di ricevere il sostegno degli Stati Uniti, era un suo fedele alleato. Ma la Casa Bianca non si mosse. Respinse anche l’idea di creare un Fondo monetario asiatico per aiutare i paesi più colpiti. In effetti, le multinazionali statunitensi hanno beneficiato della crisi asiatica, per eliminare i concorrenti asiatici la cui ascesa li preoccupava.

Infine, fu la Cina che ha salvato la regione dal disastro, decidendo di non svalutare la propria moneta. Una moneta debole aiuta le esportazioni, e se lo yuan era depresso, l’aumento delle esportazioni cinesi avrebbero completamente finito le economie dei paesi vicini, già in cattive condizioni. Quindi, mantenendo il valore della sua valuta, la Cina ha permesso ai paesi della regione e sviluppare le loro esportazioni e di risollevarsi. Mentre molti governi asiatici mantennero una certa amarezza verso Washington, per il suo ruolo in questa crisi, il primo ministro malese ha dichiarato: “La collaborazione con la Cina e il suo alto senso di responsabilità nella regione, ci hanno preservato da uno scenario ancora più catastrofico”.

Da allora, le relazioni economiche tra la Cina e i suoi vicini hanno continuato a crescere. Nel 2007, Pechino è anche diventato il principale partner commerciale del Giappone, che è tuttavia uno degli alleati più strategici degli Stati Uniti in Asia.

Inoltre, la Cina non ha pretese egemoniche nella regione. Gli Stati Uniti credevano che i paesi dell’Oceano Indiano si sarebbero spaventati dalla potenza cinese, e avrebbero cercato di essere protetti. Ma la Cina ha stabilito relazioni con i paesi vicini sulla base del principio di uguaglianza. Da questo punto di vista, gli Stati Uniti hanno, così, perso anche la battaglia in Asia orientale.

Gli Stati Uniti non hanno modo di impedire che la Cina faccia loro concorrenza?

Pare di no. Per crescere, la Cina ha un bisogno vitale di risorse energetiche. Gli Stati Uniti cercano, quindi, di controllare queste risorse e assicurare che non raggiungano la Cina. C’era un obiettivo chiave nelle guerre in Afghanistan e in Iraq, ma sono diventati un fiasco. Gli Stati Uniti hanno distrutto questi paesi, per mettervi dei governi a loro docili, ma senza successo. Ma ciliegina sulla torta: i nuovi governi di Iraq e Afghanistan commerciano con la Cina! Pechino non ha quindi alcuna necessità di spendere miliardi di dollari in una guerra illegale per mettere le mani sull’oro nero iracheno: le imprese cinesi hanno appena vinto concessioni petrolifere in un’asta molto regolare.

Vedete, la strategia dell’imperialismo degli Stati Uniti è un fallimento su tutta la linea. Resta tuttavia l’opzione degli Stati Uniti: mantenere il caos per impedire che la stabilità strategica di questi paesi non favorisca la Cina. Questo significa continuare la guerra in Iraq e Afghanistan, ed estenderlo ad altri paesi come l’Iran, lo Yemen e la Somalia.

Questo a breve termine potrebbe essere devastante, perché porterebbe i popoli ancora di più sulla linea anti-americana, anti-Nato e anti-occidentale. Coloro che vorrebbero continuare il cammino farebbero meglio a studiare la storia militare degli Stati Uniti degli ultimi sessant’anni: Washington non ha vinto alcuna guerra, se non contro la piccola isola di Grenada (1983).

Come iniziò il declino di “Impero Americano“?

Dopo la seconda guerra mondiale, questo paese aveva fatto jackpot. E’ stato, infatti, si era entrato tardi nel conflitto, dopo aver a lungo sostenuto (in mood molto redditizio) entrambe le parti: gli alleati e il nazismo. Infine, Washington ha deciso di venire in aiuto degli alleati. Alla fine della guerra, la Gran Bretagna era gravata dai debiti, il potere tedesco era stato distrutto e l’Unione Sovietica aveva pagato un prezzo pesante (più di venti milioni di morti) per sconfiggere l’esercito nazista. Per contro, gli Stati Uniti, che non hanno fatto praticamente nessun sacrificio, uscirono grandi vincitori, avevano un vasto territorio, un’industria che operava a tutta velocità, grande capacità del settore agricolo e i loro principali concorrenti erano in ginocchio. Fu così che gli Stati Uniti diventarono una superpotenza mondiale.

Ma poi, hanno speso tutti il jackpot vinto nella seconda guerra mondiale, per combattere il comunismo. L’economia statunitense è stata militarizzata e le guerre si sono svolte una dietro l’altra, dalla Corea al Vietnam, e all’Iraq per citarne alcuni. Oggi, per ogni dollaro messo nel bilancio del governo degli Stati Uniti, vanno settanta centesimi all’esercito. Un disastro! Le altre industrie principali del paese sono state distrutte, le scuole e gli ospedali pubblici sono in pessime condizioni.

Cinque anni dopo l’uragano Katrina, i residenti di New Orleans vivono ancora nei campi. Possiamo paragonare questa situazione a quella del Libano: coloro che avevano perso le loro case a causa dei bombardamenti israeliani del 2006, hanno trovato una casa grazie a Hezbollah. Ciò che ha fatto dire a un mullah che era meglio vivere in Libano che negli Stati Uniti, perché nel paese dei cedri si ha almeno un tetto sopra la testa.

Questo processo di militarizzazione ha gettato gli Stati Uniti nella crisi del debito. Ma oggi, il loro principale creditore non è altri che… la Cina! Curiosamente, il destino di questi due grandi concorrenti sembra intimamente legato.

Sì, l’economia è qualcosa di pazzesco! In effetti, la Cina esporta molti prodotti verso gli Stati Uniti, guadagnandosi molta valuta in dollari. L’accumulo di valuta straniera della Cina, consente di mantenere un tasso di cambio stabile tra lo yuan e il dollaro, cosa che favorisce le esportazioni. Ma l’accumulo di dollaro anche portato Pechino a comprare buoni del Tesoro USA, finanziandone il debito Con il finanziamento del debito degli Stati Uniti, possiamo dire che la Cina sta finanziando la guerra contro il terrorismo! Ma il Pentagono sta conducendo questa guerra per aiutarla a controllare le risorse energetiche del mondo, e cercando di contenere l’emergere della Cina. Vedete, la situazione è paradossale! Ma questa campagna è un fallimento degli Stati Uniti e la loro economia è sull’orlo del fallimento.

Essi hanno solo una opzione: ridurre le spese militari e usare il loro bilancio per rilanciare l’economia. Ma l’imperialismo ha una logica dominata dal profitto immediato e dalla concorrenza sfrenata: perciò, continua a correre fino a che non muore. Lo storico Paul Kennedy ha studiato la storia dei grandi imperi, ogni volta che l’economica di una grande potenza è in declino, ma continua ad aumentare le spese militari, allora questa grande potenza è destinato a scomparire.

Così è la fine dell’”impero americano“?

Chi può dirlo? La storia è fatta di zig-zag e non ho alcuna sfera di cristallo per predire il futuro. Ma tutte le indicazioni dicono che l’egemonia degli Stati Uniti sta arrivando al termine. Non ci sarà più una superpotenza globale e gli Stati Uniti, probabilmente, diventeranno una importante potenza regionale. Saremo presenti all’inevitabile ritorno del protezionismo e, quindi, alla fine della globalizzazione. I blocchi economici regionali emergeranno e tra questi blocchi, l’Asia sarà il più forte. Oggi, ci sono sempre meno milionari nell’occidente bianco. Sono in Asia, dove ci sono la ricchezza e la capacità produttiva.

Che cosa succederà in Europa?

Ha forti legami con gli Stati Uniti. In particolare attraverso la NATO, una invenzione degli Stati Uniti, emersa dopo la seconda guerra mondiale per il controllo del vecchio continente. Tuttavia, penso che ci siano due tipi di leader in Europa: pro-USA e i ceri europei. I primi rimangono con Washington. I secondi sottolineano gli interessi specifici dell’Europa e si legano alla Russia. Con la recessione economica e il declino negli Stati Uniti, l’interesse logico dell’Europa è guardare all’Asia.

Nel suo famoso libro ‘La Grande Scacchiera’, il politologo statunitense Zbigniew Brzezinski aveva paura di vedere una tale alleanza tra Europa e Asia. Ma ha detto che l’Unione probabilmente non avrebbe mai visto la luce del giorno, a causa delle differenze culturali.

Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno dominato la scena economica, in particolare in Europa, ed erano in grado di esportare la loro cultura e stile di vita. L’economia genera in effetti dei legami culturali, ma la cultura non crea legami che quando lo stomaco è pieno. Non mangiamo cultura. Inoltre, quando lo stomaco è vuoto, la cultura viene dopo l’economia.

Così oggi, mentre il mondo capitalista è in crisi, l’Europa deve mettere i suoi interessi economici prima del legame culturale che la lega agli Stati Uniti. Sarebbe logico a sua volta, per l’Asia. Tanto più che i legami culturali Europea – Stati Uniti sono stati forgiati a Hollywood. Storicamente, possiamo dire che sono più forti i legami culturali tra, ad esempio, l’Italia e la Libia, o tra la Spagna e il Marocco.

Henry Kissinger, quando non permetteva agli iraniani e iracheni di uccidesi a vicenda, ha detto che l’egemonia degli Stati Uniti era essenziale per mantenere la pace e la democrazia diffusa in tutto il mondo. Molti professionisti come Brzezinski hanno sostenuto la stessa idea. La fine dell’”American Empire”, non potrebbe provocare dei grandi conflitti?

La democrazia di cui stanno parlando è quella dei paesi imperialisti occidentali, che rappresentano il 12% della popolazione mondiale. Inoltre, non possiamo davvero dire che l’egemonia degli Stati Uniti abbia portato pace e stabilità nel mondo. Al contrario! Per rimanere l’unica superpotenza del mondo, hanno fatto affidamento su guerre in continuo e fomentato conflitti in tutto il mondo.

Oggi, molti europei, anche se condannano gli eccessi degli Stati Uniti, non desiderano vedere decadere l’”American Empire“. Per oltre sessant’anni Washington ha dominato militarmente il vecchio continente, dicendo che lo faceva per la sua sicurezza. Molti europei hanno paura di mettere una croce sulla “protezione” e assumersi la propria sicurezza.

Un esercito europeo richiederebbe che una parte importante dell’economia europea sia investita nell’esercito. Ma non è un settore produttivo e un suo rifinanziamento causerebbe una nuova crisi. Inoltre, se si investe nell’esercito, una questione si porrà: chi combatte? In caso di guerra, l’Europa avrebbe seri problemi demografici.

A mio parere, questa situazione spiega la volontà di alcuni leader europei di muoversi verso la Russia. Questa è l’unica alleanza pacifica e prospera possibile per l’Europa. Ma ciò richiede lasciare che la Russia diventi una grande potenza, in cui gli europei possano investire le loro tecnologie. Ma gli Stati Uniti si sono opposti all’integrazione della Russia in Europa. Se dovesse succedere, ci sarà davvero qualcuno di troppo e Washington lascerà il vecchio continente.

Gli otto anni di politica di guerra dell’amministrazione Bush, le spese militari faraoniche e i suoi miserabili fallimenti hanno accelerato il crollo degli Stati Uniti. Pensa che Barack Obama possa cambiare qualcosa?

La sua elezione è storica. Gli afro-americani hanno sofferto tanto in passato. Anche se hanno contribuito enormemente allo sviluppo degli Stati Uniti, i loro diritti politici sono stati traditi. Infatti, durante la guerra civile americana, gli afro-americani sono stati vittime della schiavitù nel Sud. La borghesia del Nord ha promesso loro la libertà, se era disposto a combattere per essa. Gli schiavi accettarono di partecipare al conflitto, cose che ha permesso al Nord di vincere. Tra il 1860 e il 1880, gli Stati Uniti hanno avuto un periodo di prosperità, senza il razzismo, definita una ricostruzione dal famoso leader afro-americano William Edward Burghardt Du Bois. Ma ben presto, l’elite degli Stati Uniti si era allarmata nel vedere persone di colore, lavoratori e semplici cittadini unirsi: le proprietà della minoranza borghese era minacciata dalla solidarietà delle masse. La segregazione fece quindi il suo ritorno. Essa mirava a rompere l’unità delle classi e i cittadini comuni insorgere l’uno contro l’altro, al fine di preservare l’elite da qualsiasi rivolta.

Data la storia degli Stati Uniti, l’avvento di un nero alla Casa Bianca è molto importante. Ma se Barack Obama è un presidente liberale a causa del suo colore, ciò non è sufficiente: la natura reazionaria dell’imperialismo statunitense è riemersa, come si vede sempre di più. Pertanto, non credo che Barack Obama possa cambiare nulla nei mesi e negli anni a venire. L’imperialismo non può essere modificato o adattato. Deve essere rovesciato.

E qual è il ruolo del mondo musulmano in questo grande confronto tra gli Stati Uniti e la Cina? Il suo ruolo è veramente importante?

Molto importante. Come ho detto in precedenza in questa intervista, gli USA hanno demonizzato la “minaccia islamica” in una serie di paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano: Somalia, Golfo, Asia centrale, Pakistan, Indonesia… L’obiettivo, legato agli interessi delle multinazionali degli Stati Uniti, è il controllo del petrolio e delle risorse energetiche e delle vie di transito strategiche della regione. Ma nel Medio Oriente, e in tutto il mondo musulmano, s’è sviluppata una comune resistenza antimperialista al dominio degli Stati Uniti.

E’ un fattore estremamente positivo. I popoli di tutto il mondo hanno interesse a stabilire relazioni sulla base del principio di uguaglianza e a porre fine, nel modo più rapido, all’egemonia occidentale che ha causato così tante aggressioni e crimini. In passato, tutti i tipi di personalità e movimenti politici hanno cercato di spingere il mondo musulmano tra le braccia degli Stati Uniti e nella loro grande alleanza anti-comunista. Ma in realtà, gli interessi dei popoli dell’”arco dell’Islam”, l’interesse dei musulmani, si trova sul lato opposto. Se tutti comprendono e sostengono il ruolo positivo della Cina nella bilancia del potere mondiale, oggi, sarà possibile una grande alleanza di tutti i paesi che cercano di svilupparsi in modo autonomo, nell’interesse del loro popolo, sfuggendo così al saccheggio e alle interferenze da parte delle potenze imperialiste.

Tutti dovrebbero informarsi e fare prendere consapevolezza di questi importanti e positivi cambiamenti. Por fine all’egemonia delle potenze imperialiste aprirà grandi prospettive per la liberazione dei popoli.

Mohamed Hassan raccomanda le seguenti letture:

Robert D. Kaplan, Center Stage for the Twenty-first Century, in Foreign Affairs, March/April 2009

Robert D. Kaplan, The Geography of Chinese Power, in Foreign Affairs, May/June 2010

Chalmers Johnson, No longer the lone superpower – Coming to terms with China

Cristina Castello, “Diego Garcia”, pire que Guantanamo: L’embryon de la mort

Mike DAVIS, Génocides tropicaux. Catastrophes naturelles et famines coloniales.

Aux origines du sous-développement, Paris, La Découverte, 2003, 479 pages

Peter Franssen, Comment la Chine change le monde

Pepe Escobar, China plays Pipelineistan

Edward A. Alpers, East Africa and the Indian Ocean

Patricia Risso, Merchants And Faith: Muslim Commerce And Culture In The Indian Ocean (New Perspectives on Asian History)

F. William Engdahl, A Century of War, Anglo-American oil politics and the new world order

Michel Collon, Media Lies and the Conquest of Kosovo (NATO’s Prototype for the Next wars of Globalization), traduzione inglese di Monopoly, Investig’Action

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Scandalo Sakineh

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Fonte: Voltairenet

Teheran (Iran) 16 settembre 2010

Il saggista Bernard-Henry Levy e il Presidente Nicolas Sarkozy hanno mobilitato l’opinione pubblica francese per salvare dalla lapidazione una donna iraniana accusata di adulterio. Travolti dalle emozioni, i francesi non hanno avuto il tempo di verificare questa accusa, fino a quando Dieudonne M’Bala M’Bala s’è recato a Teheran. Sul posto, la cosa s’avvera del tutto falsa. Thierry Meyssan torna su questa spettacolare e assai imprudente manipolazione.

Il quotidiano Times di Londra ha pubblicato inizialmente una falsa fotografia di Sakineh Mohammadi-Ashtiani con la testa scoperta, cosa considerata una indecenza nella cultura iraniana. Una seconda foto, quella vera, venne pubblicato posteriormente. In quest’ultima foto si vede Sakineh Mohammadi-Ashtiani con il chador, il foulard che usano le musulmane nelle moschee e che portano anche quando camminano per strada.

L’annuncio dei roghi del Corano, da parte del pastore statunitense, nel nono anniversario degli attentati dell’11 settembre 2001, scuote il mondo musulmano. L’evento è sentito in modo diverso a seconda della cultura. Per gli occidentali, questa provocazione deve essere relativizzata. Certo, questo è un libro che i musulmani considerano sacro, ma, dopo tutto, ci si limita a bruciare carta. Al contrario, nel mondo musulmano, si crede che bruciando il Corano, si tenti di privare gli uomini della parola divina e di negargli la salvezza. Questo porta a reazioni emotive incontrollabili, che gli occidentali percepiscono come isteria religiosa. Mai una cosa del genere potrebbe verificarsi in Europa, e ancor meno in Francia, un paese formato da un secolo di laicità combattente. Eppure …

Mobilitazione

Recentemente, il saggista Bernard-Henri Levy [1] ha messo in guardia l’opinione pubblica circa il caso Sakineh Mohammadi-Ashtiani, una giovane donna che è stata condannato alla lapidazione in Iran per adulterio. Ha lanciato una petizione online per fare pressione sulle autorità iraniane e chiedere loro di rinunciare a tale barbarie.

Nei contatti telefonici regolari con il figlio della vittima, che vive a Tabriz (Iran) e il suo avvocato, Javid Houstan Kian, che recentemente si è trasferito in Francia per sfuggire al regime, il signor Levy non è stato avaro nei dettagli: la lapidazione, la cui pratica è stata interrotta da una moratoria, sarebbe tornata per impulso del presidente Ahmadinejad. Mohammadi-Ashtiani, potrebbe essere giustiziata alla fine del Ramadan. Nel frattempo, il direttore della prigione, furioso per il battage mediatico, avrebbe somministrato 99 frustate.

Il saggista concentra i suoi attacchi sulla modalità dell’esecuzione. Egli scrive: “Perché la lapidazione? Non ci sono, in Iran, altri modi per uccidere? Perché è il più abominevole di tutti. Perché questo attacco contro il viso, questa pioggia di pietre su un volto innocente e nudo, questa raffinata crudeltà che codifica le dimensioni dei ciottoli per garantire che la vittima soffra a lungo, è una rara concentrazione di disumanità e barbarie. E perché c’è, in questo modo di distruggere un volto, di strappare la carne e di ridurlo in una pozza di sangue, perché c‘è in questo gesto di bombardare un volto fino a sfigurarlo, qualcosa di più che uccidere. La lapidazione non è una condanna a morte. La lapidazione è una punizione. La lapidazione è la liquidazione della carne a cui si fa il processo, in qualche modo retroattivo, essere stata questa carne, solo carne: la carne di una giovane e bella donna, forse amante, forse amata, e avendo forse goduto della felicità di essere amata e di amare.”

Il presidente Sarkozy ha confermato le informazioni del Sig. Levy, in occasione della conferenza annuale degli ambasciatori di Francia [2]. Dopo il suo discorso, ha detto che la condannata era “ora sotto la responsabilità della Francia.”

Ben presto, molte associazioni e singoli individui hanno aderito a questo movimento, e più di 140.000 firme sono state raccolte. Il primo ministro Francois Fillon è arrivato, sul pulpito del principale telegiornale pubblico, a esprimere la propria simpatia e solidarietà per Sakineh, “la sorella di tutti noi“. Mentre l’ex segretaria di stato per i Diritti Umani, Rama Yade ha detto che la Francia ora, ne faceva un caso di “questione personale“.

Mistificazione

Anche se non ne erano consapevoli, le emozioni dei francesi si riferivano alla parte religiosa del loro inconscio collettivo. Siano cristiani o no, sono stati segnati dalla storia di Gesù e dell’adultera. Ricordiamo il mito [3]: i farisei, un gruppo di ebrei arroganti, tentarono di mettere Gesù in una posizione difficile. Hanno Portarono una donna che era stata sorpresa in flagrante delitto di adulterio. Secondo la Legge di Mosè, doveva essere lapidata, ma questo requisito crudele fortunatamente, era caduto in disuso. Chiesero a Gesù cosa conveniva fare. Se prevedeva di lapidarla, sarebbe apparso come un fanatico, e se rifiuta la sanzione, sarebbe stato incriminato per sfida alla legge. Tuttavia, Gesù salvò la donna rispondendogli: “Lasciate che chi è senza peccato scagli la prima pietra“. Quindi rovesciò il dilemma: se i farisei la lapidano, pretendono di essere dei puri, se non lo fanno, sono quelli che violano la legge. E il testo lo chiarisce: “Hanno rinunciato uno a uno, a cominciare dal più anziano“.

Questo mito si basa, nel pensiero occidentale, sulla separazione tra legge religiosa e legge civile. L’adultera ha commesso un peccato nei confronti di Dio e deve rendere conto a lui. Non ha commesso un reato e non può essere giudicata dagli uomini.

La lapidazione annunciata di Sakineh è sentita dai francesi come una regressione terribile. La Repubblica islamica d’Iran deve essere un regime religioso che applica la Legge di Mosè rivista dal Corano, la Sharia. I mullah devono essere dei fallocrati fanatici che puniscono gli amori delle donne al di fuori del matrimonio e le tengono in soggezione agli uomini. Accecati dalla loro stessa oscurità, arrivano ad uccidere, e nei modi peggiori.

Qui si tratta di un isterismo collettivo religioso poiché in questo caso, il riflesso normale di tutti dovrebbe essere quello di verificare le accuse. Ma per settimane nessuno s’è preso la briga di farlo.

Interrogativi

Avendo a sua volta, firmato la petizione, il leader del partito antisionista, Dieudonne M’Bala M’Bala, che è andato a Teheran nel quadro del progetto di un film, ha voluto intercedere per la condannata. Ha chiesto una pubblica audienza con le autorità, ed è stato ricevuto da Ali Zadeh, vice presidente del consiglio giudiziario e portavoce del Dipartimento della Giustizia.

L’intervista sarà un modello nel suo genere. Zadeh si chiedeva se il suo partner, il comico di professione, lo schernissi riportando i suoi timori. M’Bala M’bala faceva ripetere più volte le risposte alle sue domande, tanto stentava a credere di esser stato manipolato fino a quel punto.

Succedendo alla dittatura dello Shah di Reza Pahlavi, la Repubblica islamica s’era prima di tutto preoccupata di porre fine all’arbitrio e di creare lo Stato di diritto il più possibile rigoroso. Per quanto riguarda i reati giudicabili, da lunga data il sistema giudiziario prevede il diritto di appello. In ogni caso, la Corte di Cassazione viene incaricata  automaticamente di verificare la legittimità della procedura. Il sistema giudiziario offre, quindi, garanzie di molto superiori a quelli dei tribunali francesi, e gli errori sono molto meno frequenti.

Tuttavia, le condanne hanno conservato una particolarmente durezza. Il paese applica notoriamente la pena di morte. Invece di ridurre la durata della pena, la Repubblica islamica ha scelto di limitarne l’applicazione. Il perdono delle vittime o delle loro famiglie, è sufficiente per annullare l’esecuzione delle pene. A causa di questa disposizione e della sua diffusione, non c’è il perdono presidenziale.

La pena di morte è spesso imposta, ma molto raramente applicata. Il sistema giudiziario pone un periodo di circa cinque anni dalla sentenza all’esecuzione, nella speranza che la famiglia della vittima conceda il perdono al condannato che viene così graziato e subito rilasciato. In pratica, l’esecuzione riguarda principalmente i maggiori trafficanti di droga, terroristi e infanticidi. L’esecuzione è eseguita per impiccagione in pubblico.

Si spera che la rivoluzione islamica continuerà ad evolversi e ad abolire presto la pena di morte.

Tuttavia, la Costituzione iraniana riconosce la separazione dei poteri. La magistratura è indipendente e il Presidente Ahmadinejad non ha nulla a che fare con una decisione del tribunale, qualunque essa sia.

Manipolazioni

Nel caso Sakineh, tutte le informazioni diffuse da Bernard-Henry Levy e confermate da Nicolas Sarkozy sono false.

1. Questa signora non è stato processato per adulterio, ma per omicidio. Inoltre, in Iran, non si emette la condanna per adulterio. Invece di abrogare questo reato, la legge ha stabilito delle condizioni per lo definizione dei fatti che non possono essere soddisfatte. Ci vogliono quattro persone che siano state testimoni nello stesso momento [4].

2. La Repubblica islamica non riconosce la Sharia, ma solo il diritto civile emanato dai rappresentanti del popolo in Parlamento.

3. Ms. Mohammadi-Ashtiani ha drogato il marito e lo ha fatto uccidere nel sonno dal suo amante, Issa Taheri. Lei e il suo complice sono stati giudicati in primo e secondo grado. Gli “amanti diabolici“, sono stati condannati a morte nel primo e secondo grado. La Corte non fa discriminazione secondo il sesso degli accusati. Va osservato che, nella requisitoria, le relazioni intime degli assassini non sono state menzionate, proprio perché non sono dimostrabili, secondo la legge iraniana, anche se sono state segnalate dai parenti come certe.

4. La pena di morte è suscettibile di essere attuata per impiccagione. La lapidazione, che era in vigore sotto lo scià e qualche anno dopo la sua caduta, è stata abolita dalla Rivoluzione islamica. Indignato per le affermazioni di Bernard-Henri Levy e Nicolas Sarkozy, il vicepresidente del potere giudiziario iraniano ha detto a Dieudonne M’Bala M’Bala che sfidava questi personaggi sionisti a trovare una legislazione iraniana contemporanea che preveda la lapidazione.

5. La sentenza è attualmente all’esame della Corte di Cassazione, che verifica la correttezza di ogni dettaglio della procedura. Se non è stata scrupolosamente rispettata, la decisione sarà annullata. Questa procedura d’esame è sospensiva. Il processo non è ancora definitivo, l’imputato gode ancora della presunzione d’innocenza e non è mai stata questione d’essere eseguita alla fine del Ramadan.

6. Javid Houstan Kian, che si presenta come l’avvocato della Signora Mohammadi-Ashtiani, è un impostore. E’ legato al figlio dell’imputata, ma non aveva un mandato da questa donna e non ha mai avuto alcun contatto con lei. E’ un membro dei Mujahidin  del Popolo un’organizzazione terroristica protetta da Israele e dai neconservatori [5].

7. Il figlio dell’imputata vive normalmente a Tabriz. Può parlare senza problemi e spesso telefona a Levy per maledire il suo paese, cosa che illustra il carattere libero e democratico del suo governo.

In definitiva, nulla, assolutamente nulla della versione Sarkozy-Levy della storia di Sakineh Mohammadi-Ashtiani, è vero. Forse, Bernard-Henry Levy ha rilanciato in buona fede le false accuse che servono per la sua crociata contro l’Iran. Il Presidente Nicolas Sarkozy, quanto a lui, non può far valere la sua negligenza. Il servizio diplomatico francese, il più prestigioso al mondo, sicuramente ha inviato tutte le relazioni pertinenti. Così ha deliberatamente mentito all’opinione pubblica francese, probabilmente per giustificare, a posteriori, le drastiche sanzioni imposte all’Iran, con particolare danno dell’economia francese, che è già stata gravemente colpita  dalla sua politica.

Thierry Meyssan

Analista politico francese, fondatore e presidente del Réseau Voltaire e della conferenza Axis for Peace. Pubblica recensioni settimanale di politica estera nella stampa araba e russa. Ultimo libro pubblicato: L’Effroyable imposture 2, éd. Bertrand JP (2007).

Note

[1] Si veda il nostro dossier Bernard-Henry Levy, Réseau Voltaire (http://www.voltairenet.org/mot120825.html?lang=fr)

[2] Discorso in occasione della conferenza annuale degli ambasciatori di Francia, (http://www.voltairenet.org/article166833.html) Nicolas Sarkozy, Réseau Voltaire, 25 agosto 2010.

[3] Il termine di mito deve essere presi qui nel suo senso più neutro. Sia che si creda o no ai Vangeli, il racconto della donna adultera appartiene al simbolismo occidentale.

[4] Sullo stesso tipo di disinformazione, si legga ‘Pour diaboliser l’Iran Rue 89 confond crimes pédophiles et homosexualité’ (http://www.voltairenet.org/article149946.html), Réseau Voltaire, 13 luglio 2007.

[5] Si veda il nostro dossier i Mujahidin-e Khalq (http://www.voltairenet.org/mot120952.html?lang=fr), Réseau Voltaire.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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L’attacco alla flottiglia umanitaria di Gaza mette a repentaglio Israele stesso

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Traduzione di Maria Serra

Il goffo attacco di Israele contro la flottiglia di aiuti umanitari a Gaza lo scorso 31 maggio è l’ultimo segnale che Israele riversa in un disastroso corso che sembra incapace di cambiare. L’attacco, tra l’altro, mette in luce la misura in cui Israele è diventato un peso strategico per gli Stati Uniti. Questa situazione è probabile che peggiori ulteriormente, causando grossi problemi per gli americani che hanno un profondo legame con lo Stato ebraico.

Il confusionario assalto alla Mavi Marmara, la nave capitana della flottiglia, mostra ancora una volta che Israele è dipendente dall’uso della forza militare ma incapace di farlo in maniera incisiva. Si potrebbe pensare che le Forze di Difesa di Israele (IDF) potrebbero migliorare nel tempo con la pratica. Invece, è diventata una banda che non riesce a centrare il bersaglio.

L’IDF ha riportato l’ultima vittoria significativa nella Guerra dei Sei giorni nel 1967; da quel momento in poi è stato una litania di campagne senza successo. La Guerra di Attrito (1969-70) fu al meglio una ritirata ed Israele cadde vittima di uno dei più grandi attacchi a sorpresa della storia militare nella Guerra di Ottobre del 1973. Nel 1982, l’IDF invase il Libano e rimase coinvolta in una prolungata e sanguinosa guerra con Hezbollah. Diciotto anni più tardi, Israele ammise la sconfitta e si tirò fuori dal pantano libanese. Israele ha cercato di dominare con la forza la Prima Intifada alla fine degli anni Ottanta, con il Ministro della Difesa Yitzhak Rabin che diceva alle sue truppe di spaccare le ossa ai dimostratori palestinesi. Ma quella strategia fallì e Israele fu costretto ad aderire, invece, al Processo di Pace di Oslo, che fu un altrettanto esperimento fallito.

L’IDF non è diventato più competente negli ultimi anni. Secondo quasi tutti i responsabili – compresa la Commissione d’inchiesta dello stesso Governo israeliano – esso si è comportato assai duramente nella Guerra in Libano del 2006.  L’IDF ha successivamente lanciato una nuova campagna contro la popolazione di Gaza nel dicembre 2008, in parte al fine di “ricostruire la deterrenza di Israele” ma anche per indebolire o far cadere Hamas. Nonostante l’IDF fosse così forte da prendere a pugni Gaza come voleva, Hamas è sopravissuto ed Israele è stato ampiamente condannato per la distruzione e l’uccisione della popolazione civile di Gaza. Infatti, il Goldstone Report, scritto sotto gli auspici delle Nazioni Unite, ha imputato a Israele i crimini di guerra e possibili crimini contro l’umanità. All’inizio di quest’anno il Mossad ha assassinato un leader di Hamas a Dubai, ma gli assassini sono stati visti nelle telecamere di sicurezza e sono stati trovati ad utilizzare passaporti falsi da Australia e altri Paesi europei. Il risultato è stato un imbarazzante contenzioso diplomatico, con Australia, Irlanda e Gran Bretagna che hanno espulso un diplomatico israeliano.

Dati questi presupposti, non sorprende che l’IDF abbia gestito male l’operazione contro la flottiglia di Gaza, nonostante le molte settimane per pianificarlo. Le forze di assalto che sono salite sulla Mavi Marmara non erano preparate per una dura resistenza e hanno risposto sparando a nove attivisti, alcuni a bruciapelo. Nessuno degli attivisti aveva delle proprie armi. La sanguinosa operazione è stata condannata in tutto il mondo, eccetto negli Stati Uniti, naturalmente. Anche all’interno di Israele l’IDF è stato da più parti criticato per quest’ultimo fallimento.

Queste operazioni mal concepite hanno conseguenze dannose per Israele. I fallimenti lasciano gli avversari integri e porta i leader israeliani a temere che la loro reputazione di deterrenza sia compromessa. Per ovviare a ciò, l’IDF è lasciato ancora libero di agire, ma il risultato è solitamente un’altra disavventura, la quale dà ad Israele nuovi incentivi per farlo ancora, e così via.  Questa logica a spirale, accoppiata con l’ostinata voglia di ricorrere alla forza militare, aiuta a spiegare perché la stampa israeliana quotidianamente pubblica articoli che pronosticano i futuri scenari di guerra.

La recente debacle di Israele ha inoltre danneggiato la sua reputazione internazionale. Gli intervistati di un sondaggio di opinione del 2010 fatto dalla BBC, ha rilevato che Israele, Iran e Pakistan hanno avuto la più negativa influenza nel mondo; persino la Corea del Nord è classificata meglio. Più preoccupante per Israele è il fatto che la sua vecchia stretta e strategica relazione con la Turchia è stata compromessa dalla Guerra di Gaza del 2008-2009 e specialmente dall’assalto alla Mavi Marmara, una nave turca piena di cittadini turchi. Ma sicuramente lo sviluppo più problematico per Israele è il crescente coro di voci negli Stati Uniti che afferma che il comportamento di Israele è minaccioso per gli interessi americani nel mondo, fino ad includere l’incolumità dei suoi soldati. Se questo sentimento crescesse potrebbe seriamente nuocere alle relazioni di Israele con gli Stati Uniti.

Vita come Stato di Apartheid

La tragedia della flottiglia mette in luce un altro aspetto in cui Israele è in forte difficoltà. La risposta di Israele mette in risalto come i suoi leader non siano interessati a permettere che i palestinesi abbiano un fattibile Stato in Gaza e Cisgiordania, ma come invece siano inclini a creare un “Grande Israele” in cui i palestinesi sono confinati ad una manciata di povere enclave.

Israele insiste nel dire che il suo blocco è solamente volto a mantenere le armi fuori da Gaza. Difficilmente qualcuno potrebbe criticare Israele se ciò fosse vero, ma non lo è. Il reale scopo del blocco è punire la popolazione di Gaza per il fatto di supportare Hamas e di resistere allo sforzo di Israele di mantenere Gaza come una gigante prigione a cielo aperto. Certamente questa situazione era più evidente prima della debacle della Mavi Marmara. Quando è iniziato il blocco nel 2006, Dov Weissglass – uno stretto collaboratore del Primo Ministro Ariel Sharon ed Ehud Olmert – disse “L’idea è di mettere i palestinesi a dieta, non farli morire di fame”. E l’attacco a Gaza 18 mesi fa era rivolto a punire gli abitanti di Gaza, non a rinforzare l’embargo sulle armi. Le navi della flottiglia stavano trasportando aiuti umanitari, non armi per Hamas, e la buona volontà di Israele di utilizzare brutalmente la forza per impedire che un convoglio di aiuti umanitari raggiungesse Gaza rende abbondantemente chiaro che Israele vuole umiliare e sottomettere i palestinesi, non vivere gli uni accanto agli altri in Stati separati.

La punizione collettiva dei palestinesi di Gaza è improbabile che finisca in tempi brevi. I leader israeliani hanno dimostrato poco interesse a togliere il blocco o a trattare sinceramente. La triste realtà è che Israele ha brutalizzato i palestinesi per così tanto tempo che è quasi impossibile rompere l’abitudine. Non c’è da stupirsi che Jimmy Carter l’anno scorso abbia detto “le popolazioni della Palestina sono trattate più come animali che come esseri umani”. Lo sono e lo saranno per il prossimo futuro.

Di conseguenza non ci sarà una soluzione a due Stati. Al contrario, Gaza e la Cisgiordania entreranno a far parte del “Grande Israele”, che sarà uno Stato di apartheid con una marcata somiglianza con i “bianchi” del Sud Africa. Gli israeliani e i loro sostenitori americani invariabilmente si prestano a questo confronto, ma questo è il loro futuro se creano il Grande Israele mentre negano i pieni diritti politici ad una popolazione araba che sarà presto numericamente superiore alla popolazione ebrea nel complesso del Paese. Infatti, due ex Primi Ministri israeliani – Ehud Olmert ed Ehud Barak – hanno sostenuto questa tesi. Olmert si è spinto a sostenere che “appena questo accadrà, lo Stato di Israele è finito”.

Ha ragione, perché Israele non è capace di mantenere se stesso come uno Stato di apartheid. Come il Sud Africa razzista, esso eventualmente si evolverà in uno stato democratico bi-nazionale in cui la politica sarà dominata dai palestinesi più numerosi. Ma questo processo richiederà molti anni, e durante questo tempo Israele continuerà ad opprimere i palestinesi. La sua azione sarà vista e condannata da un crescente numero di persone e da sempre più governi nel mondo. Israele sta distruggendo inconsapevolmente il proprio futuro come Stato ebraico e fa ciò con il tacito appoggio degli Stati Uniti.

L’albatros dell’America

La combinazione dell’incompetenza strategica di Israele con la sua graduale trasformazione in uno Stato di apartheid crea significativi problemi per gli Stati Uniti. C’è un progressivo riconoscimento nei due Paesi che i loro interessi sono divergenti; infatti, questa prospettiva sta raccogliendo consenso all’interno anche della comunità ebraica americana. Jewish Week, per esempio, recentemente ha pubblicato un articolo intitolato “Il blocco di Gaza: cosa fare quando gli interessi americani e israeliani non sono in sincronia?”. I leader di entrambi i Paesi stanno ora dicendo che la politica israeliana nei confronti dei palestinesi sta minando la sicurezza degli Stati Uniti. Il Vice Presidente Biden e il Generale David Petraeus, capo del Comando Centrale, sono di questa idea, e il capo del Mossad, Meir Dagan, ha detto alla Knesset in giugno “Israele si sta gradualmente trasformando da un punto di forza degli Stati Uniti ad un impiccio”.

È facile capire perché. Poiché gli Stati Uniti offrono tanto supporto ad Israele e i politici americani quotidianamente sbandierano la loro “relazione speciale”, la gente nel mondo naturalmente associa gli Stati Uniti con le azioni di Israele. Sfortunatamente questo fa si che un enorme numero di persone nel mondo arabo e islamico sia furioso con gli Stati Uniti per il supporto ai trattamenti crudeli rivolti ai palestinesi da parte di Israele.  Tale rabbia, a sua volta, alimenta il terrorismo contro l’America. Si tenga presente che la Relazione della Commissione sull’11 settembre, che descrive Khalid Sheik Muhammad come il “principale architetto degli attacchi dell’11 settembre”, conclude che il suo “risentimento nei confronti degli Stati Uniti ha origine non dalle sue esperienze lì come studente, ma piuttosto dal suo violento disaccordo con la politica estera degli USA favorevole ad Israele”. L’ostilità di Osama Bin Laden nei confronti degli Stati Uniti è stata alimentata in parte da questo stesso concetto.

La rabbia popolare verso gli Stati Uniti minaccia anche i sovrani di Egitto, Giordania e Arabia Saudita, alleati chiave americani che sono molto spesso visti come lacchè dell’America. Il collasso di uno di questi regimi sarebbe un gran colpo per la posizione degli USA nella regione; comunque, il rigido supporto di Washington ad Israele rende questi governi più deboli, non più forti. Soprattutto la rottura del rapporto di Israele con Ankara sicuramente danneggerà la stretta relazione dell’America con la Turchia, uno Stato membro della NATO e un alleato chiave degli Stati Uniti in Europa e nel Medio Oriente.

Infine, c’è il pericolo che Israele possa attaccare gli impianti nucleari dell’Iran, cosa che potrebbe avere terribili conseguenze per gli Stati Uniti. L’ultima cosa di cui l’America ha bisogno è un’altra guerra con un Paese islamico, specialmente con uno che potrebbe interferire nella sua attuale guerra in Afghanistan e Iraq. Questo è il motivo per cui il Pentagono si oppone fortemente ad un attacco all’Iran, sia esso con le forze di Israele o degli Stati Uniti. Ma Netanyahu potrebbe farlo ugualmente se dovesse ritenere che ciò sia un bene per Israele, anche se fosse un male per gli Stati Uniti.

Giorni bui davanti alla Lobby

Il problematico percorso di Israele sta causando, inoltre, grandi grattacapi per i suoi sostenitori americani. Innanzitutto c’è la questione se scegliere fra Israele o gli Stati Uniti. Ciò si riferisce talvolta alla questione della doppia fedeltà, ma questo termine è improprio. Agli americani è permesso avere la doppia cittadinanza – e, in effetti, una doppia fedeltà – e questo non è un problema fintanto che gli interessi dell’altro Paese sono in sintonia con gli interessi dell’America. Per decenni i sostenitori di Israele hanno cercato di dar forma ad un discorso pubblico negli Stati Uniti in modo che la maggioranza degli americani credesse che gli interessi dei due Paesi fossero identici. La situazione sta cambiando tuttavia. Non solo c’è tuttora un dibattito sul contrasto d’interessi, ma le persone ben informate si stanno apertamente chiedendo se le azioni di Israele siano dannose per la sicurezza degli USA.

La lobby si è sforzata di smontare questo nuovo discorso, o riaffermando l’argomento standard che gli interessi di Israele corrispondono a quelli dell’America, o sostenendo che Israele – per citare una recente espressione di Mortimer Zuckerman, una figura chiave della lobby – “è stato un alleato che ha pagato dividendi superiori ai suoi costi”. Un approccio più sofisticato, che si riflette in una lettera sponsorizzata dall’AIPAC che 337 membri del Congresso hanno inviato nel mese di marzo al Segretario di Stato Hillary Clinton, riconosce che ci saranno differenze fra i due Paesi, ma argomenta che “queste differenze sono tranquillamente risolvibili, con fiducia e sicurezza”. In altre parole mantenere le differenze a porte chiuse e lontano dall’opinione pubblica americana. È troppo tardi, però, per placare il dibattito pubblico sulla questione se le azioni di Israele stanno nuocendo agli interessi degli USA. Infatti, è destinato a crescere più forte e più controverso nel tempo.

Questo cambiamento di discorso crea un problema poco allettante per i sostenitori di Israele, perché essi dovranno stare al fianco o di Israele o degli Stati Uniti quando gli interessi dei due Paesi si scontreranno. Finora la maggior parte delle persone chiave e le istituzioni nella lobby hanno appoggiato Israele quando c’è stata una controversia. Per esempio, il Presidente Obama e il Primo Ministro Netanyahu hanno avuto due grandi diverbi pubblici sugli insediamenti. In entrambi i casi la lobby si è schierata con Netanyahu e lo ha sostenuto nel contrastare Obama. Sembra chiaro che persone come Abraham Foxman, capo dell’Anti-Defamation League, e organizzazioni come l’AIPAC sono principalmente preoccupati più degli interessi di Israele che non dell’America.

Questa situazione è molto pericolosa per la lobby. Il vero problema non è la doppia fedeltà quanto la scelta fra le due fedeltà e, infine, anteporre gli interessi di Israele a quelli dell’America. L’impegno della lobby nella difesa di Israele, che a volte significa confondere gli interessi degli USA, è destinato a diventare più evidente agli americani in futuro e potrebbe condurre ad un’azione violenta nei confronti dei sostenitori di Israele, nonché verso Israele stesso.

La lobby si trova davanti ad un’altra sfida: difendere uno Stato di apartheid in un Occidente liberale non sarà cosa facile. Una volta riconosciuto che la soluzione per la formazione di due Stati non ha futuro, ed Israele sarà diventato come il Sud Africa dei bianchi – e questo giorno non è lontano –, il sostegno per Israele all’interno della comunità ebraica americana rischierà di diminuire in modo significativo. La ragione principale è che l’apartheid è un sistema politico spregevole che è fondamentalmente in contrasto con i valori di base americani così come con i valori di fondo ebraici. Sicuramente ci sarà qualche ebreo che difenderà Israele a prescindere dal sistema politico che ha. Ma il loro numero si ridurrà nel tempo, in larga parte perché un sondaggio rileva che i giovani ebrei americani sentono meno attaccamento ad Israele rispetto ai loro genitori, cosa che li rende meno inclini a difendere ciecamente Israele.

Il motivo di fondo è che Israele non sarà capace di mantenersi come uno Stato di apartheid troppo a lungo poiché non sarà in grado di dipendere dalla comunità ebraica americana per difendere questo ordine politico riprovevole.

Suicidio assistito

Israele ha davanti a sé un futuro tetro, eppure non c’è ragione di pensare che cambierà corso abbastanza presto. Il centro di gravità politico in Israele si è spostato bruscamente a destra e non vi è un considerevole partito politico o movimento a favore della pace. Inoltre Israele rimane fermamente convinto che ciò che non può essere risolto con la forza può essere risolto con ancora più forza e molti israeliani vedono i palestinesi con disprezzo, se non con odio. Né i palestinesi né gli immediati vicini di Israele sono abbastanza potenti da dissuaderlo e la lobby resterà abbastanza influente per i prossimi dieci anni nel proteggere Israele dalla significativa pressione degli Stati Uniti.

Sorprendentemente la lobby sta aiutando Israele a suicidarsi e contemporaneamente danneggia gravemente gli interessi di sicurezza americani. Voci impegnate contro questa tragica situazione sono leggermente aumentate negli ultimi anni, ma la maggior parte dei commentatori politici, e praticamente tutti i politici americani, sembrano beatamente ignorare dove si andrà a finire, oppure non sono disposti a rischiare le loro carriere parlando apertamente.

John J. Mearsheimer è Professore di Scienza Politica all’Università di Chicago e coautore di The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy.

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L’indipendente Osh: Ahtisaari , architetto del Kosovo, si reca in Kirghizistan

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Durante gli ultimi giorni dell’estate del 2010 due eventi hanno avuto luogo in Kirghizistan, che facilmente potrebbero essere considerati cruciali. Il primo è il “ processo d’informazione” della comunità internazionale. Il 23 agosto il Gruppo di Crisi Internazionale ha pubblicato il rapporto e le raccomandazioni circa gli eventi nel suo sito ufficiale.  Le 39 pagine del rapporto percorrono gli eventi di giugno 1990, la situazione socio-politica del 2010, gli eventi nello Jalal-Abad e Osh e la cronologia delle rivolte nel mese di giugno. Basandosi su questo rapporto il sito web dell’organizzazione presenta segnalazioni sulle autorità del Kirghizistan, alla comunità internazionale,  vale a dire all’ alta delegazione  dei diritti umani  delle nazioni Unite, e all’Organizzazione per la sicurezza e la Cooperazione in Europa  (OSCE)  commissione sulle minoranze nazionali.

Noi non valuteremo la qualità e l’imparzialità del rapporto. Lasciamo che siano i politici e gli esperti e discutere di questo. Ogni cosa sarebbe andata bene finché Luise Arbour ( in passato alto commissario delle Nazioni Unite sui diritti umani, ed ora responsabile del Gruppo di crisi Internazionale) ha dichiarato sulle pagine del The Guardian (giornale Inglese) la teoria principale sul perché quest’organizzazione, abbia iniziato un lavoro intenso in Kirghizistan: Luise Arbour asserisce nel suo articolo che, sfortunatamente potrebbe non essere ancora possibile, prevenire la disintegrazione in questo paese.

Il secondo punto importante della sua propaganda è che “ è compito dell’alta delegazione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite e altre relative figure (internazionali) di  investigare sugli eventi di giugno. L’indagine dovrebbe costituire, un prerequisito per la futura disponibilità d’assistenza internazionale al Kirghizistan”.

La consapevolezza di un palcoscenico cosi delineato, mostra che i piani, riguardo alla divisione del paese, sono entrati nella fase finale. Che richiama le principali tesi del gruppo di crisi internazionale, nel loro rapporto, (gennaio 2005), sostenendo che il Kosovo è più pericoloso dell’Iraq.

Il secondo evento non è stato argomentato dai media, ma costituisce anche una pietra miliare: per risolvere i “problemi del Kirghizistan”, i piani di risoluzione del governo di Rose Otumbaeva per coinvolgere Martii Ahtisaari, che è  architetto dell’indipendenza del  Kosovo, e distruttore della Jugoslavia.

Martii Ahtisaari è un laureato con il premio nobel per la pace, maggiormente conosciuto per il suo lavoro ben riuscito di divisione del Kosovo dalla Serbia. In tal senso un commento di  Emir Kusturica, il famoso direttore di film, è essenziale, che si espresse in occasione della sua visita presso l’Ossezia del sud, all’indomani dell’aggressione georgiana: “il premio nobel è stato dato ad uno dei fondatori dell’indipendenza del Kosovo-    Martii Ahtisaari  che iniziò il bombardamento in Serbia. Da allora, il premio nobel per la pace è fuori questione, per me”.

La qualità del lavoro di questo laureato con premio nobel è semplicemente incredibile. Nel primo 2007 i piani di Ahtisaari, vengono dichiarati in seno alle nazioni unite, e già nel febbraio 2008, il Kosovo dichiara la sua indipendenza. Ed il supporto ai separatisti e alle divisioni per gli stati indipendenti,  avvenne in Europa. Quanto velocemente, verranno realizzati nell’Asia centrale i piani di Ahtisaari per il Kirghizistan? Ancora, che grande ruolo hanno ricoperto i rapporti  del gruppo di Crisi internazionale, a preparare l’opinione pubblica e le autorità  americane all’aggressione contro la Jugoslava.

Questi due rilevanti eventi, confermano ancora una volta l’opinione di molti analisti: la divisione riuscita della Jugoslava, in molti piccoli stati velocizzerà il crollo finale dei frammenti dell’USSR ( Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche)– precedente alle repubbliche sovietiche, o per essere più esatti- nuovi stati indipendenti che sorsero da questi territori.

Il crollo dell’Unione Sovietica fu un obiettivo strategico, se non altro un’idea riparatrice di molti leader politici dell’est del mondo. E queste forze non erano presenti al lavoro, 20 anni fa,  al tempo del collasso del USSR.  Gran parte delle rovine delle repubbliche post-sovietiche, vale a dire i nuovi stati indipendenti, sono destinati alla loro sistemazione. La divisione amministrativa e territoriale delle Repubbliche Sovietiche, fu formato senza l’imperialismo stalinista. Con tutte le conseguenze dell’umore romano “dividi e conquista”. Ciò comportò la nascita di conflitti in territori interni e conflitti nazionali,  l’incapacità di assicurare l’indipendenza economica a tutte le regioni. Tutte queste precauzioni hanno avuto successo senza un impero internazionale dell’USSR.  Ma appena ci fu un rigetto  dei principi internazionali e imperiali sulla direzione dello stato, Stalin riapparve nuovamente,  dando vita a nuovi conflitti.

Il nazionalismo sociale è diventato uno dei maggiori e più efficaci metodi di distruzione dei frammenti post- sovietici. Iniziò ad essere applicato nel periodo finale della “Perestroika”.    Ciò include la Moldava “crociata contro la Gagauzia” (entità territoriale autonoma della Repubblica di Moldavia) nel 1990, gli eventi legati al massacro di Sumgait come messaggeri del futuro conflitto di Nagorno- Karabakh, conflitti etnici in Kirghizistan  e infine, il genocidio dei Maschetiani Turchi ( precedenti abitanti mussulmani del Meskheti, lungo i confini con la Turchia).

Dopo la foresta di Bialowieza nel 1991 e la trasformazione finale dell’impero sovietico nell’informe CIS ( Commonwealth of indipendent states – una organizzazione regionale, i cui paesi partecipanti sono le precedenti Repubbliche Sovietiche), il nazionalismo è diventato la causa maggiore di distruzione degli elementi umani, economici e culturali, formatisi durante il periodo dell’Unione Sovietica. Non importa quale genere di nazionalismo sia condotto. Questo potrebbe essere un divieto all’uso del linguaggio russo e la negazione dei diritti delle popolazioni di lingua russa  negli stati Baltici, e nell’Ucraina, l’aggressione contro Prydnestrovye, Abkhazia, l’Ossezia del sud e Nogorno- Karabakh. Il nazionalismo politico entrò in una fase “calda” e ancora una volta subentrò al tipo “democratico”. Il problema è essenzialmente uno, in tutte le repubbliche nazionali del precedente USSR ( Unione delle repubbliche socialiste sovietiche). Pressoché repubbliche europee- repubbliche baltiche, (stati) membri dell’Unione Europea, coloro i quali erano tra Asia ed Europa: Ucraina, Moldavia, il Belarus, il Caucaso e le Repubbliche Centro Asiatiche.

Creando repubbliche Nazionali Sovietiche senza i loro attuali confini, Stalin sapeva ciò che faceva. Capì la frammentazione dello stesso Impero Sovietico che non sarebbe sopravvissuto. Il loro nazionalismo li avrebbe distrutti. Dopo 20 anni vediamo come il processo di distruzione dei resti dell’Unione Sovietica è nella sua fase finale e lo strumento usuale di distruzione è il nazionalismo. L’onda rivoluzionaria nel Kygyzsatan, Ucraina e Georgia è l’ulteriore prova del genio geopolitico Staliniano. I leader democratici, in questi paesi hanno afferrato il poter grazie al malcontento dei cittadini verso la realtà post- sovietica. Il nazionalismo è diventato il maggior strumento politico di questi democratici. I principali risultati del regime rivoluzionario, sono diventati una minaccia  alla perdita di integrità di quei paesi dove la rivoluzione ha preso piede.

Il presidente Yushchenko ultimamente, ha diviso il paese in Ucraina dell’est e dell’ovest, dando parte del territorio Ucraino alla Romania, creando cosi un precedente legale.

La Georgia ha in fine perso l’Abkhazia e il sud dell’Ossezia- una larga porzione dei suoi territori, precisamente a causa dell’ira nazionalista di Saakashvili. Nel governo del Kirghizistan di Bakiyev si è esacerbata l’aspirazione separatista tra alcune diaspore nazionali. ”L’insuccesso” politico della Color revolution ( termine usato per indicare movimenti avvenute all’interno dei territori del CIS  Commonwealth of indipendent states –  ex USSR ) ha fatto si che gli Stati Uniti ed i suoi alleati, attuassero metodi comprovati (Balcani). E notiamo come la situazione in Kosovo e nel sud del Kirghizistan  sta evolvendo in conformità ad uno scenario.

In Kosovo gli americani decideranno su tre principali obiettivi:

–         Determinare il concorrente principale per il fronte Europa, da quando c’è il pericolo del Kosovo insieme con l’Albania ed è diventato il centro di consolidamento dei mussulmani in Europa, i quali stanno già levando le loro voci. Insieme con l’Albania, la Bosnia e Herzegovina – oggi il Kosovo costituisce la “cintura islamica” per tagliare la Serbia ed il Montenegro dall’est dell’Europa.

–         L’identificazione del Kosovo, insieme al diviso Iraq costituisce un significativo passo in

avanti verso l’ultima distruzione del sistema post- bellico di diritto internazionale

–         Il Kosovo è il maggiore trasportatore di droghe.  Molta della droga, dovuta a come  questo

territorio vive la sua vita, sono droghe afgane. Dopo l’inizio degli interventi degli Stati Uniti e della Nato in Afghanistan nel 2001, la produzione di droga è cresciuta 40 volte di più.

Ciò è stato ripetutamente riportato sull’uso del trasporto aereo statunitense per il trasporto di droghe- possibilmente attraverso una base aerea in Kirghizistan , Turchia, Lituania. Tale informazione è stata indirettamente confermata dall’ Ufficio delle Nazioni Unite sul controllo della droga e Crimine (UNODCCP). In concomitanza con questo, i centri di distribuzione dell’eroina in Europa includono Ramstein (Germania) e la base militare americana “Bondsteel” in Kosovo. È la base aeronautica militare americana dalla quale i cargo sono trasferiti dall’Afghanistan senza alcuna dogana.

Alexander Anderson, direttore del progetto “Kosovo” nel Gruppo di Crisi Internazionale, ha detto nella sua intervista: -“ Si, il Kosovo è uno dei più grandi corridoi del traffico di droga, ed il crimine organizzato è parimenti cresciuto sotto il controllo delle Nazioni Unite.

Forse c’è un tornaconto personale da parte di Martti Ahtisaari, nell’indipendenza del Kosovo. Il rapporto del Servizio di Intelligence tedesca BND condotto  ai media tedeschi, in relazione a ciò   Martti Ahtisaari, rappresentante delle nazioni unite in Kosovo (che promosse un piano di indipendenza) ricevette intorno ai 40 milioni di euro da   Bedget Pakkoli, miliardario e politico Albanese. Da allora nessuna contestazione ha seguito lo scandalo, che è stato velocemente archiviato.

Dividendo il Kirghizistan, gli Stati Uniti d’America fronteggiano quasi gli stessi problemi:

–         Determinare il rivale globale  nel ex territorio  dell’Unione  Sovietica. Polverizzare i

soggetti del processo politico di integrazione con la federazione Russa. Creare zone di instabilità, e nel contempo aree di influenza statunitense, rinforzate da basi militari nel sud del Kirghizistan e nell’aeroporto di Manas.

–   La distruzione  definitiva delle parti del periodo sovietico, la creazione di presupposti per una nuova distribuzione del mondo.

–         Pieno controllo  sul traffico  di droghe  dall’Afghanistan, controllo del  sud  del  Kirghizistan, stabilire un “indipendente” per il mondo ma dipendente dal nuovo stato autonomo

americano  causerebbe  un  ulteriore aumento  dell’eroina  rubata dalla Russia e dall’Europa.

–         Divisione problematica, territoriale- amministrativa della valle di Ferghana, ereditata dopo il

Collasso dell’USSR, che abbandonò il gruppo per  un conflitto inter- etnico territoriale permanente.

Questi compiti dovranno probabilmente essere discussi da Martti Ahtisaari e dal Gruppo di Crisi Internazionali. Tutti i componenti per il completamento di questo piano sono già stati presentati:

–         L’elaborazione sull’ opinione  pubblica, spaventata   dal  conflitto  etnico in  Kirghizistan,  è

Iniziata ; casi di  segnalazione  del  gruppo  di  Crisi  Internazionale  connessa   ad  un’investigazione  privata dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) e delle Nazioni Unite saranno probabilmente considerati come una pulizia etnica.

–         La disponibilità di luoghi consolidati  di  residenza,  per  le  minoranze nazionali,  che sono

soggette a “pulizia etnica” che la comunità internazionale è obbligata a difendere;

–     Elezioni  (10 ottobre  2010)   del  parlamento  del  Kirghizistan,  non  saranno   controllate

da  una delle parti  contrastanti – le parti  pro-americane (opposizione) che giungeranno al

potere dopo  Bakiyev, e le forze (politiche) create dai politici di Bakiyev stesso.

La separazione del Kirghiz (gruppo etnico turco creatosi soprattuitto in Kirghizistan) tra il

sud e il nord, contribuisce ulteriormente al “piano  Ahtisaari”.

Louise Arbour, capo del Gruppo di Crisi Internazionale ha descritto chiaramente la situazione nel suo articolo in “The Guardian “, come è risultato degli eventi di Giugno, il governo di  Rosa Otunbayeva  ha perso definitivamente il controllo nel sud del Kirghizistan , ed il poter di Melis Myrzakmatova, il sindaco di Osh è accresciuto. Ciò ha determinato una seria minaccia per la sicurezza nella regione ed oltre”.  Come Ishenbai Kadyrbekov, leader della parte politica del Kirghizistan  “Unione USSR”, dichiara, c’è l’impressione che le parti si stiano preparando per la Battaglia di Stalingrado, dopo le elezioni al parlamento. C’è una possibilità che questa battaglia, sarà una battaglia per l’integrità del paese.

Traduzione a cura di Giulia Vitolo

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Fine dei giochi in Afghanistan per gli USA: il minore di tre mali

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Fonte: http://ericwalberg.com

Con quale cucchiaino si raccoglierà Obama, si chiede Eric Walberg

Nel suo discorso scolaresco del 31 Agosto dallo Studio Ovale “Missione compiuta!”, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha messo su un vago elogio dell’invasione di Bush in Iraq, asserendo che nessuno può dubitare del supporto di Bush alle truppe, del suo amore per il Paese e del suo impegno per renderlo sicuro, che ha scritto il più “straordinario capitolo della storia degli Stati Uniti e dell’Iraq”. Effettivamente è stato scritto ad un “prezzo enorme” per gli USA (sarebbe stato offerto gratuitamente agli iracheni).

Ha vagamente accennato ad “una transizione verso la responsabilità afgana”, giurando di mantenere la promessa di iniziare a ritirare le truppe l’anno prossimo, ribadendo la dottrina Obama: “l’influenza americana in tutto il mondo non dipende dalle sole forze armate. Dobbiamo servirci di tutti gli strumenti di potere (comprese la diplomazia, il potere economico e la forza del modello americano) per assicurare i nostri interessi”. Il fatto che come senatore si è opposto a Petraeus, il mentore dell’invasione dell’Iraq del 2007 e colui su cui punta Obama per la presidenza in Afghanistan, non è venuto fuori.

La mancanza di jet e navi da combattimento nelle parti salienti del suo “Missione compiuta!” è stata tanto significativa quanto l’arroganza del bomber di Bush. Obama sta apparendo sempre di più come un custode della Casa Bianca, un prigioniero del Pentagono, se effettivamente ce l’ha mai avuta un politica di libertà innanzitutto. Hillary ha bene azzardato “Qualsiasi cosa Stanley [McChrystal] vuole, daglielo”. Ora, dopo lo sfogo poco cerimonioso su McChrystal, Dave otterrà certamente quello che vuole, e un ritiro precoce dall’Afghanistan non è sulla sua lista. Al contrario, adesso vuole incrementare l’invasione con altre 2000 truppe. Quindi quali sono le effettive opzioni Obama/Petraeus?

Non c’è una grande differenza tra McChrystal e Petraeus, a parte la pomposità di quest’ultimo. Egli supervisiona la preparazione del piano di azione dei Corpi dell’Esercito e della Marina per reprimere l’insurrezione e della sua applicazione in Iraq, e cercherà di stanare il “nemico” come ha fatto il suo predecessore. Obama l’ha tirata per le lunghe, per così dire, riguardo Al-Qaeda (antiterrorismo nel discorso di Washington), ma ha fatto capire che l’attuale invasione mirava davvero a fermare le orde di talebani (repressione o COIN nel discorso di Washington). Gli elementi di antiterrorismo “fanno assolutamente parte di un’ampia campagna civile-militare antiterrorismo”, ha detto Petraeus a wired.com, facendo capire che, come Obama, confonde ancora talebani e terrorismo, o meglio cerca di confondere chiunque si stia sforzando di ascoltare.

L’ordine impopolare (tra i militari) per le truppe di smettere di uccidere i civili a casaccio continuerà: “Non puoi uccidere o catturare a modo tuo al di fuori di una sostanziale insorgenza”. Egli fa una specie di tentativo a sostegno di Karzai di “vincere i cuori e le menti degli afgani” attraverso il nuovo Alto Consiglio per la Pace che porterebbe alla “reintegro di elementi riconciliabili dell’insorgenza”. Questo è stato provato da due anni a questa parte senza alcun successo. Sembra una ripetizione del movimento dell’Iraqi Sunni Awakening del 2005, che ha pagato ex combattenti della resistenza Sunni come milizie ad hoc, che non avevano niente a che fare con Petraeus, essendo una creazione spontanea da parte degli sceicchi locali. Se è andato bene o meno è ancora in discussione.

Cercare di applicare questo all’Afghanistan è in ogni caso un’utopia, in cui montagne ostili, signori della guerra ed uno stato decentralizzato sono stati e sono la norma, diversamente dall’Iraq pre-2003. Oltre alla dubbia teoria dell’invasione, non c’è niente che Petraeus aggiunge all’equazione, niente, niente che suggerisca che avrà alcuna possibilità di spostare i talebani dalla loro posizione: l’uscita incondizionata di tutte le truppe straniere e l’evacuazione di tutte le basi. Nessuna di questa riflette lontanamente la cosiddetta dottrina Obama di diplomazia vs le soluzioni militari ai problemi internazionali, dialogo vs violenza, ma le speranze di Obama sono state messe da parte molto tempo fa. La sua stanca tiritera dallo Studio Ovale non ha sorpreso né deluso. Ha causato solo sbadigli.

L’uomo al controllo, Petraeus, è lui stesso in cerca di un risveglio. Qualcuno dovrebbe dirgli che per la sua invasione, COIN e così via è troppo tardi: i talebani sono già il governo de facto. Le ONG impegnate seriamente in Afghanistan lo sanno da abbastanza tempo. La tragica morte di dieci persone dello staff dell’International Assistance Mission (IAM) avvenuta recentemente nella provincia di Badakshan è stato un risultato diretto del dimenticare questo importante fatto politico. A 44, IAM è la ONG che da più in tempo opera in Afghanistan, e ha manovrato con successo i vari regimi reale, repubblicano, comunista, islamico per più di quattro decadi evitando scrupolosamente qualsiasi identificazione con il governo locale e le forze d’occupazione, riconoscendo qualsiasi parte è al potere, e perseverando nel suo ruolo di soccorso. Ma la NATO ha abbandonato l’area a luglio proprio quando altri aiuti umanitari stavano arrivando, e stavolta i nuovi volontari sono rimasti bloccati nella transizione. Dice dispiaciuto il direttore dell’IAM, Dirk Frans, “Erano nel posto sbagliato al momento sbagliato”.

Il caso è diventato ancora più commovente dal momento che si è incrementata la collaborazione con i talebani e sono diminuiti le uccisioni mirate di volontari in seguito all’aiuto delle ONG ai talebani e al rispetto del loro diritto a governare. Mullah Omar ha anche scritto una lettera di approvazione per un gruppo di volontari. “La catena di comando è più coerente oggi che nel 2004”, dice Michiel Hofman, rappresentante di Medecins Sans Frontieres (MSF) in Afghanistan. MSF ha accesso alle aree controllate dai talebani a condizione che i suoi uomini indossino divise con il simbolo dell’organizzazione bene in vista, avanti e dietro, che li differenzi dagli occupanti.

L’UNICEF e l’Organizzazione Mondiale della Sanità lavorano sia con gli ufficiali talebani che di Karzai per fornire vaccinazioni anti-polio, un tempo visti dal clero come una cospirazione per avvelenare o sterilizzare i bambini musulmani. I volontari si portano dietro una preziosa lettera di approvazione da parte di Mullah Omar. Il portavoce della Croce Rossa Bijan Famoudi ha detto ad April Rabkin a npr.org che gli uomini della Croce Rossa si coordinano con i talebani quasi ogni giorno riguardo i loro movimenti e possono raggiungere i leader talebani in qualche ora se c’è un problema.

I talebani non sono gli orchi che i media occidentali ci mostrano. Essi rispettano gli aiuti umani internazionali autentici, a differenza dei combattenti stranieri del Chechnya, Saudi Arabia e Uzbekistan, che hanno una “reputazione peggiore con gli stranieri”, fa notare Hofman. Ma il capo di MSF potrebbe dire lo stesso degli altri combattenti stranieri, degli invasori, che in un disperato tentativo di servirsi di loro come scudi umani, hanno sempre più insistito sulla cooperazione delle ONG per raggiungere il loro obiettivo di “vincere cuori e menti”. Gli eserciti statunitense e tedesco hanno posto delle condizioni per le donazioni a organizzazioni umanitarie, richiedendo loro di collaborare con gli invasori. La Caritas ha rifiutato un bottino di 12,9 milioni di dollari perché avrebbe dovuto avere parte nel lavoro di ricostruzione dell’esercito tedesco.

Anche Karzai cerca di fare pressione sulle ONG. Ad aprile, ha avuto uomini italiani e afgani dell’organizzazione umanitaria Emergency, che conducevano un ospedale a Helmand, sospettati di “attività terroristiche”, tra cui complotti per assassinare il governatore. Le accuse erano infondate, una cassa di uva marcia, dal momento che l’organizzazione ha negoziato con successo il rilascio di un giornalista straniero, senza alcun merito di Karzai o altri.

Gli Stati Uniti hanno tre possibilità a questo punto: la più facile è ritirarsi e lasciare i talebani a disarmare le milizie dei signori della guerra di creazione occidentale e lavorare con i membri meno odiosi del regime di Karzai per creare un possibile regime in un paese pacifico, sebbene molto povero e devastato. Ci sono ONG autentiche sul campo adesso che posso aiutare a coordinare un tentativo di soccorso internazionale non imperialista. Sì, qualche testa rotolerà, ma prima il processo ha inizio, meno morti ci saranno in giro. Questo è ciò che il Pakistan e l’Arabia Saudita vogliono, lasciandoli al posto di guida.

La sua seconda opzione è lasciare nelle mani dei governi regionali la stabilizzazione dell’attuale regime. Questo, tuttavia, richiederebbe una rivoluzione della visione statunitense: riparare la staccionata tra loro e l’Iran. L’Iran è ansioso e desideroso di fare proprio questo e lo è da quando ha fornito agli USA un prezioso aiuto nel localizzare i talebani dopo l’11 settembre. L’Iran supporta il regime di Karzai, che è dominato dai Tagiki di lingua persiana, e si oppone fortemente a scendere a patti con i talebani. In un incontro a Nuova Delhi ad agosto, il viceministro degli esteri iraniano Ali Fathollahi ha detto: “Rafforzare le forze militari e anche la polizia dell’Afghanistan sono obiettivi a cui i paesi della regione devono contribuire, e l’Iran sostiene di essere pronto ad aiutare a questo proposito…non abbiamo alcun dubbio sulle capacità del governo dell’Afghanistan”.

Pare che Petraeus/Obama abbiano ragione? Gli USA hanno intenzione di spendere 11,6 miliardi di dollari il prossimo anno e altri 25 miliardi entro il 2015 proprio per creare un esercito afgano e una forza di polizia per supportare Karzai. L’Iran si è offerto per aiutare a fare ciò. Il destino della fine dei giochi degli USA è nelle sue mani. Il vantaggio di questa opzione è che la pace si diffonderebbe nella regione senza l’occupazione degli USA in Afghanistan e l’eversione dell’Iran, e gli Stati Uniti avrebbero ancora abbastanza influenza in Afghanistan dopo il ritiro.

Sia l’India che la Russia sarebbero solidi sostenitori di un tale scenario e la seconda assicurerebbe il supporto dei paesi ai confini dell’Afghanistan. Ai pakistani e i sauditi non resterebbe altro che unirsi.

La sua terza opzione è una via di mezzo tra i due compromessi. Il Presidente del Consiglio per le relazioni Estere Richard Haass consiglia di suddividere l’Afghanistan, consegnando le aree Pashtun ai talebani e le armi agli altri gruppi etnici per difendersi. Syed Saleem Shahzad riferisce sull’Asia Times che gli USA stanno finalmente dialogando con i comandanti afgani, tra cui Sirajuddin Haqqani, con la mediazione di Pakistani e sauditi, proponendo di cedere il controllo del sud ai talebani e mantenere il controllo del nord. Questa è una ricetta per una guerra civile senza fine davvero orribile da contemplare.

Traduzione di Daniela Mannino

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La Palestina come l’Eurasia: occupazione militare per limitarne la sovranità

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E’ molto interessante per contestualizzare gli attuali “colloqui di pace” sponsorizzati dagli Stati Uniti fra Israele e palestinesi, ascoltare le parole dei diretti interessati, in particolare di quello – visto il peso negoziale che può esercitare – che ne è il maggiore protagonista, ossia il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu. E’ particolarmente interessante ascoltarlo anche perché grazie alle parole che quest’ultimo ha espresso lunedì 20 settembre [1] alla Conferenza dei presidenti delle principali organizzazioni ebraiche americane, è possibile anche comprendere meglio una parte della storia europea e mondiale.

Oltre ad evadere ancora una volta ogni tipo di impegno a sospendere gli insediamenti illegali che Israele costruisce in quegli stessi territori che dovrebbero essere palestinesi, Netanyahu ha infatti affermato che Germania, Giappone e Corea hanno avuto per molto tempo truppe straniere (Usa) sul proprio territorio e nessuno ha mai dichiarato si trattasse di “un affronto alle rispettive sovranità”. Queste parole sono molto importanti e denotano innanzitutto il potere negoziale che Israele ha anche nei confronti degli Stati Uniti, ai quali in questo modo manda un messaggio preciso: se dopo la seconda guerra mondiale Washington ha occupato militarmente il mondo è evidente che anche Israele oggi ha diritto a mantenere militari sull’ipotetico futuro Stato palestinese. Ed è proprio questo lo scopo delle parole del premier sionista: addirittura all’inizio di “colloqui di pace” che a questo punto sembrano del tutto delegittimati, sottolinea che Israele non consentirà nemmeno la creazione di uno Stato fantoccio senza la presenza militare che riterrà sempre necessaria per controllarlo e occuparlo.

Questi fatti così ben messi alla luce dalla stessa elite sionista tornano utili anche per mettere a fuoco la situazione venutasi a creare dopo la seconda Guerra Mondiale in Europa, Africa, Asia orientale e America Indiolatina. Infatti dopo quella che è stata una vera e propria guerra per gli equilibri mondiali, la vittoria statunitense ha consentito a Washington di occupare militarmente non solo Germania, Giappone e Corea citate da Netanyahu, ma anche l’Italia (ricordiamo le più di 100 basi Usa/Nato sul territorio[2]), la Turchia, la Grecia (per citare i Paesi a noi più vicini e più direttamente interessati dalla guerra fredda) e decine di altri Stati in ogni continente [3]. Questo comporta (senza voler accomunare la situazione umana in cui vivono oggi i palestinesi -tenuti prigionieri in enormi prigioni a cielo aperto sottoposte ad embargo come per esempio è Gaza- con il nostro stile di vita) una necessaria riflessione sulla mancanza di sovranità di tutti quegli Stati sottoposti ad occupazione militare da parte dell’unica superpotenza ancora rimasta. Così come oggi Israele intende mantenere la supremazia ed il controllo di qualsiasi futura istituzione palestinese attraverso la presenza militare, ieri gli Stati Uniti sono riusciti a creare un sistema globale di presenza militare (ma anche politica, culturale ed economica) per controllare e gestire tutte le aree della propria sfera di influenza che ancora oggi persiste, ed anzi con il crollo dell’Urss si è andata allargando.

Sarà difficile vedere il nostro vicino oriente vivere in pace e benessere se la presenza minacciosa ed egocentrica di Israele non tollererà nemmeno la sovranità palestinese, e sarà difficile che gli Stati europei potranno in qualche modo dire la propria se continueranno a vedere la propria sovranità limitata dalla presenza minacciosa ed egocentrica degli Stati Uniti.

Matteo Pistilli

Note:

1) PM hints at placing IDF forces in PA state after any deal , http://www.jpost.com/International/Article.aspx?id=188731

2)Basi americane in Italia: una messa a punto, Alberto B. Mariantoni http://www.cpeurasia.eu/305/basi-americane-in-italia-una-messa-a-punto

3) Basi militari USA al di fuori degli Stati Uniti, http://www.kelebekler.com/occ/bas_it.htm

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Russia-Armenia: il nuovo protocollo difensivo

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Introduzione

La presenza russa nel Caucaso meridionale è tornata ad essere, dopo un breve intermezzo di debolezza politica e militare, un dato di fatto di cui tutti gli attori geopolitici, interni o esterni alla regione, hanno dovuto prendere atto. Ci sembra che gli avvenimenti degli ultimi anni, alcuni dei quali drammatici, dimostrino in modo inequivocabile il rinnovato protagonismo della Russia in quella parte del mondo.

Mosca ha impiegato anni per riprendersi dallo shock provocato dal crollo dell’Unione Sovietica alla fine del 1991. Dai tempi della guerra fredda molte cose sono inevitabilmente mutate ed il Caucaso meridionale, con l’aumento del numero degli Stati indipendenti presenti (e dei conflitti tra e all’interno di essi), ne è uno degli esempio più lampanti.

A ventanni circa da quell’avvenimento epocale la Russia dimostra di essere riuscita a reinserirsi nel gioco delle grandi potenze reclamando per sè un ruolo di primo piano negli affari internazionali in generale e nel suo near abroad in particolare mostrando una rinnovata capacità di proiezione verso l’esterno al fine di conseguire i propri obiettivi geopolitici, primo fra tutti quello di porsi come attore centrale nella grande scacchiera eurasiatica.

Per i policy – makers russi il Caucaso meridionale ha giocato un ruolo centrale fin dal principio, vale a dire fin da quando Mosca, all’alba del 1992, cercava disperatamente (e spesso in modo confuso e contraddittorio) di dare un senso ad uno spazio geopolitico in preda al caos più totale e agli appetiti di certi attori, statali e non, volonterosi di accappararsi il più possibile delle spoglie (a cominciare dalle immense risorse energetiche) dell’ex Stato sovietico.

Nel corso del tempo Mosca ha cercato di adattarsi (con risultati alterni a seconda dei diversi Paesi che compongono la regione) al mutato contesto geopolitico dell’area e ha lavorato per creare legami politici, economici ed istituzionali con i vari Stati, in particolare con quelli post – sovietici (Georgia, Armenia ed Azerbaijan) trovandosi spesso ad operare in una situazione di elevata conflittualità intra- ed inter-statale dove la legittimità dell’ordine regionale era prossima allo zero e l’equilibrio si basava solo sui crudi rapporti di forza. Per una serie di motivi che presto prenderemo in esame, Russia ed Armenia hanno costruito dei legami molto forti al punto che molti analisti sono concordi nell’affermare che, senza alcun’ombra di dubbio, Yerevan è il miglior alleato di Mosca nella regione. Dunque, gli accordi siglati a fine agosto in Armenia tra i Presidenti dei due Paesi, tra i quali uno nel campo della sicurezza che a breve prenderemo in considerazione, non sono un evento che giunge inaspettato bensì rappresentano il proseguimento e l’approfondimento di relazioni politiche alquanto solide tra due Paesi che pur disponendo di una diseguale capacità di proiezione dei loro interessi geopolitici traggono, dalle loro relazioni bilaterali, una serie di benefici.

Chiaramente la Russia è consapevole del fatto che l’Armenia non sia nè l’unico Stato del Caucaso nè, tantomeno, il più importante. Di conseguenza, Mosca muove le sue pedine nella regione con grande parsimonia cercando di bilanciare le proprie azioni ed evitando di creare repentini mutamenti del fragilissimo equilibrio esistente che potrebbero favorire i concorrenti e complicare la realizzazione di uno dei suoi grandi obiettivi geopolitici, vale a dire il consolidamento e l’ampliamento della propria posizione (politica, economica e militare) nella regione del Caucaso e del Mar Caspio, obiettivo che se conseguito avrebbe delle ripercussioni geopolitiche che andrebberò ben al di là dei confini della regione caucasica e permetterebbero alla Russia di compiere un importantissimo passo in avanti verso il proprio progetto di ricomposizione dello spazio post sovietico. E’ chiaro quindi, e nella nostra analisi ne discuteremo, che tutto ciò impone alla dirigenza moscovita un atteggiamento prudente soprattutto nei confronti di tutti gli altri attori regionali a cominciare dall’Azerbaijan, un Paese le cui relazioni con Yerevan sono tutt’altro che idilliache e vengono pesantemente modellate dalla presenza del frozen conflict nel Nagorno-Karabakh.

La partita nel Caucaso meridionale è ancora in corso e la Russia ha tutte le carte in regola per realizzare i propri obiettivi, tuttavia è doveroso che i policy – makers russi ricordino che oltre all’onore di giocare un ruolo cardine in una regione strategocamente importante per le sorti energetiche del mondo, il Caucaso imporrà loro anche l’onere di gestire e risolvere molti dei conflitti che ancora oggi lo tormentano.

Geopolitica delle relazioni russo – armene

La prima grande sfida che l’Armenia indipendente si trovò ad affrontare fu la guerra contro l’Azerbaijan per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh, regione facente parte dello Stato azero ma abitata da una maggioranza etnicamente armena.

Il conflitto divampò nel 1988, durante la fase finale della storia sovietica e si concluse solo dopo 6 anni di scontri con la tregua del 1994 e con la perdita, da parte di Baku, del controllo sul Nagorno-Karabakh (che equivale a circa il 14% dell’intero territorio azero) in cui già dal gennaio del 1992 era stata proclamata, senza che nessuno l’abbia mai riconosciuta, una Repubblica la cui vicinanza politica ad Yerevan con relativa dipendenza militare è innegabile. Quella guerra provocò 30,000 morti, feriti, rifugiati ed una serie infinita di atrocità commesse da ambo le parti. Inoltre, la guerra non ha risolto in modo definitivo la questione visto e considerato che quello del Nagorno-Karabakh è un tipico esempio di frozen conflict a cui la comunità internazionale, in particolare l’OSCE, attraverso il gruppo di Minsk, non è ancora riuscita a venire a capo, complice anche le differenti visioni della questione da parte di Armenia ed Azerbaijan.

Vista la particolare collocazione geografica e politica di Yerevan, al centro del Caucaso meridionale, senza sbocchi sul mare, con una frontiera in comune con due Stati per nulla definibili come alleati e collocati su 2 lati opposti, vale a dire l’Azerbaijan e la Turchia (alleata e grande sostenitrice delle rivendicazioni di Baku) la Russia ha rappresentato e rappresenta tutt’ora una vera e propria ancora di salvataggio a cui aggrapparsi e su cui fare leva per garantire la propria sicurezza, lo sviluppo economico del Paese e una posizione relativamente più forte nei segoziati sulla risoluzione del conflitto sul Nagorno-Karabakh. Queste necessità armene si sono incontrate fin dal principio con la volontà russa di non scivolare in una posizione marginale nel Caucaso e da ciò ne è scaturito un matrimonio di interessi che ha dato molti frutti di cui vogliamo elencare i più importanti:

  1. fin dal principio l’Armenia ha supportato e partecipato attivamente ai frameworks istituzioni di matrice economica e politica voluti dalla Russia: infatti, a ben vedere, Yerevan è parte integrante della Confederazione degli Stati Indipendenti, dell’ EurAsEC e della Collective Security Treaty Organization. Molto attiva è la presenza armena nel campo della sicurezza. Per citare alcuni esempi significativi vogliamo ricordare che la Russia apprezza molto l’impegno armeno, serio e costante, in seno alla CSTO e al centro anti – terrorismo della CSI. Inoltre, a partire dal 2001, le unità militari di difesa aerea russe e armene sono mantenute in stato di joint combat duty. Esse sono un elemento importante del sistema difensivo aereo unificato della CSI voluto da Mosca e creato nel 1995. Questi esempi ci permettono di capire l’impegno armeno a coltivare le relazioni con la Russia non solo a parole ma soprattutto con i fatti. Inutile dire che ciò ha contribuito indubbiamente a legittimare i progetti russi;

  2. Mosca è il più grande investitore nell’economia armena. Dal 1991 la Russia ha investito 2.4 miliardi di dollari nell’economia di Yerevan, una cifra consistente che ammonta a circa il 60% di tutti gli investimenti diretti esteri nel Paese. Gli investimenti russi si sono concentrati nel settore energetico (Gazprom rimane il principale fornitore di gas dell’Armenia. In proposito ci preme sottolineare come attualmente si stiano tenendo degli incontri tra le due parti poichè Gazprom è intenzionata ad aumentare i prezzi dell’energia al fine di realizzare una transizione ai prezzi di mercato. Questa è una politica che Mosca stà perseguendo verso tutti i Paesi importatori che ancora si avvalgono di prezzi relativamente più bassi di quelli di mercato. Tuttavia, grazie alle ottime relazioni tra i due Paesi, tale progetto non ha suscitato le stesse lacerazioni che si sono verificate nelle discussioni con la Bielorussia. Altrettanto importante è la collaborazione e gli investimenti russi nel settore nucleare civile armeno, in particolare Mosca aiuterà Yerevan a realizzare due nuovi impianti nucleari per uso civile il cui prezzo si aggira attorno ai 5 miliardi di dollari e la cui messa in funzione è prevista per il 2017), bancario, delle telecomunicazioni, metallurgico, delle costruzioni e dei trasporti;

  3. i due Paesi coordinano, attraverso una serie di meeting durante il corso dell’anno, le loro politiche estere in base ad un accordo diglato nel 1992. Mosca ed Yerevan coordinano le loro azioni in tutti i format istituzionali di cui sono parte, dalla CSI, alla CSTO, passando per l’OSCE e l’ONU;

  4. per quanto concerne la dimensione militare, tema su cui ritorneremo meglio nel prossimo paragrafo, qui ci basterà ricordare che la Russia ha, in un certo senso, contribuito alla sforzo militare armeno contro l’Azerbaijan. Infatti nel corso del tempo l’esercito di Yerevan ha ricevuto una grande quantità di armi russe a prezzi stracciati e persino in regalo;

Tutto questo dimostra in modo inequivocabile che lo stato delle relazioni russo – armene è più che soddisfacente e la nuova serie di accordi da poco sottoscritti ne sono una prova più che convincente. Tuttavia, assieme al ‘all’incontro d’interessi’ di cui abbiamo appena elencato i risultati principali non dobbiamo dimenticare che esiste una grande differenza, nei mezzi e nei fini, tra i due Paesi, differenza che non può essere sottaciuta: come abbiamo precedentemente enunciato, gli obiettivi geopolitici di Mosca nella regione sono ambiziosi e chiaramente molto più ampi rispetto a quelli di Yerevan. Dati tali obiettivi la Russia è perfettamente consapevole del fatto che l’alleanza con l’Armenia è si uno strumento utile al perseguimento dei propri fini ma non è certamente l’unico che deve essere messo in campo. Puntare solo sull’alleanza con Yerevan, dimenticando gli altri attori presenti, i loro timori ed obiettivi, metterebbe a repentaglio la possibilità di collocarsi al centro di questa regione così geopoliticamente importante. Di questo Mosca sembra essere perfettamente consapevole anche se non sempre agisce di conseguenza operando le scelte più opportune nei confronti dei singoli Stati che occupano la regione caucasica. Ci occuperemo meglio di tale questione quando focalizzeremo la nostra attenzione sulle relazioni russo – azere. Adesso però è giunto il momento di concentrarci sul nuovo accordo russo – armeno.

Uno sguardo critico sul contenuti del nuovo protocollo

Tra i cinque accordi sottoscritti dal presidente russo Dmitry Medvedev e dal suo omologo armeno Serge Sarkisian il 20 agosto scorso ad Yerevan uno riguarda il tema della sicurezza. Per la precisione i due capi di Stato hanno firmato un protocollo che emenda un precedente trattato stipulato da Russia ed Armenia nel 1995 che prevedeva il dislocamento di una base militare russa nella città armena di Gyumri (alcune truppe sono state dislocate anche nella stessa Yerevan) per un periodo di 25 anni. La base, che si trova a pochi Kilometri dal confine turco, fu voluta come parte integrante del sistema aereo unificato della CSI che abbiamo già citato ed è posta sotto il comando del distretto militare del Caucaso del nord. Il personale della base è di circa 3,500 uomini. Sono presenti 3 regimenti di fanteria motorizzati, un regimento d’artiglieria ed un battaglione di carri armati. Nella base sono presenti circa 74 carri, 17 veicoli da combattimento per la fanteria, 18 mezzi blindati per il trasporto truppe e 84 sistemi d’artiglieria. I reparti aerei hanno in dotazione circa 30 MiG-29 ed un numero imprecisato di S-300 ed S-200. Uno dei compiti principali delle truppe russe in Armenia è stato quello di pattugliare la frontiera con la Turchia. Con il nuovo protocollo il periodo di permanenza è stato innalzato a 49 anni a partire dal 1995. Ciò significa che la base rimarrà al suo posto almeno fino al 2044. Inoltre, nel protocollo sono presenti alcune novità molto apprezzate dagli armeni e che cui i russi tendono, per motivi facilmente intuibili, a minimizzare: la base militare russa, oltre a servire l’interesse della Federazione Russa (come prevedeva l’accordo del 1995), fornirà supporto alle forze armate armene per garantire la sicurezza dell’Armenia. A tal propsito molti esperti si interrogano su una questione spinosa, vale a dire: fermo restando che la Russia non riconosce la Repubblica del Nagorno-Karabakh, in caso di attacco azero a questa regione al fine di riguadagnarne il controllo, come si comporterà Mosca? Quale atteggiamento l’Armenia si attende dalla Russia nel caso che un tale scenario dovesse concretizzarsi? Inoltre, l’accordo impegna Mosca anche a garantire armi e equipaggiamenti militari moderni ad Yerevan. Chiaramente 2 punti che difficilmente sono sfuggiti alle elite politiche di Baku ed Ankara.

Come già affermato in precedenza, il nuovo accordo non giunge inaspettato bensì si colloca nel trend positivo che caratterizza le relazioni russo – armene. Sarebbe tuttavia errato non tenere in considerazione, soprattutto dal lato armeno, tutta una serie di fattori contingenti che hanno portato Yerevan ad investire molto, sotto il profilo politico, in una conclusione positiva dell’accordo. In particolare i pesanti investimenti di Baku nel settore della difesa, le reiterate minacce azere di risolvere la questione con le armi in caso di fallimento dei negoziati, gli scontri al confine degli ultimi mesi che hanno provocato morti e feriti tra le forze armate dei due Paesi innalzando pericolosamente il livello della tensione e le difficoltà incontrate nella normalizzazione delle relazioni con la Turchia hanno, diciamo così, giocato un ruolo non secondario nella volontà armena di stipulare il protocollo con la Russia.

La presenza militare russa è ritenuta così necessaria alla sicurezza nazionale che i policy – makers armeni non solo non chiedono il pagamento dell’affitto alla Russia per la base di Gyumri ma si accollano perfino i costi e le spese operative della medesima. Questa scelta, che molti potrebbero ritenere illogica e soprattutto anti – economica in realtà è perfettamente comprensibile in quanto di dimostra essere in linea con gli obiettivi geopolitici di Yerevan, in primis con la sua volontà di rafforzare la propria posizione vis-à-vis con l’Azerbaijan sulla questione del Nagorno-Karabakh. Per quanto riguarda Mosca la questione è un pò più complessa: chiaramente la firma del protocollo non giunge sgradita alle elite politiche russe in quanto rafforzano la cooperazione con uno dei più fedeli alleati di Mosca. Tuttavia, come abbiamo fatto notare alla fine del precedente paragrafo, la Russia, perseguendo un obiettivo geopolitico molto ampio ed ambizioso, deve, in un certo senso, fornire rassicurazioni gli altri attori regionali spiegando loro il significato ed il contenuto del nuovo protocollo, questo vale soprattutto nei confronti dell’Azerbaijan.

La posizione azera

Sebbene le relazioni russo – azere siano cordiali ed in molti ambiti anche mutualmente vantaggiose, al momento non possono proprio essere paragonate a quelle che Mosca intrattiene con Yerevan. La Russia è perfettamente consapevole di tale fatto e sembra voler fare tutto il possibile per avvicinarsi a Baku ed evitare che nel Caucaso le relazioni preferenziali esistenti, vale a dire quelle turco – azere e quelle russo – armene, si irrigidiscano al punto da configurarsi come alleanze contrapposte che limitino la libertà di manovra di Mosca e la possibilità di presentarsi ed essere riconosciuta come un attore centrale e necessario alla stabilità dell’ordine regionale. Nonostante sia fuori discussione il fatto che l’annuncio della stipulazione del protocollo tra la Russia e l’Armenia non abbia di certo fatto piacere ai policy – makers azeri, la reazione di Baku è stata alquanto pacata se paragonata ai timori, esplicitati in passato, verso la cooperazione militare tra Mosca ed Yerevan. Da parte sua, la Russia ha avuto la lungimiranza di organizzare subito un incontro al vertice tra i 2 Paesi in cui discutere e sottoscrivere qualche accordo. Durante i colloqui tenuti nei 2 giorni di visita ufficiale del presidente Medvedev a Baku ai primi di settembre, il capo di stato russo ed il ministro per gli affari esteri, Sergei Lavrov, hanno definito l’Azerbaijan un partner strategico nel Caucaso del sud e nel Caspio ed hanno cercato di rassicurare i colleghi azeri sul fatto che il nuovo protocollo russo – armeno non muta assolutamente gli equilibri delle forze nella regione in quanto si è trattato, a detta dei russi, di un semplice prollungamento della permanenza di truppe in Armenia senza alcun mutamento quantitativo nel numero degli effettivi nè tanto meno qualitativo nelle armi in loro dotazione. Dai comunicati ufficiali non sembra si sia discusso nè delle garanzie alla sicurezza armena nè dell’impegno di Mosca a fornire armi e equipaggiamenti militari moderni ad Yerevan….

Oltre alle questioni relative alla sicurezza, i 2 Paesi hanno discusso di un accordo sull’uso razionale delle acque del fiume Samur ed hanno sottoscritto sia un accordo per la delimitazione della frontiera comune (390 Km circa), sia un accordo volto a raddoppiare le forniture di gas azero alla Russia a partire dal 2011. Chiaramente le relazioni economiche tra i 2 Paesi non si limitano al settore energetico, il quale comunque gioca un ruolo chiave, ma si spingono oltre: tanto per citare qualche sempio, recentemente, è stata diffusa la notizia che una compagnia russa che produce elicotteri venderà 4 Kamov Ka-32 per uso civile all’Azerbaijan. I rapporti non si limitano certo al solo ambito civile poichè, ad esempio, lo scorso giugno Mosca rifiutò di commentare la notizia secondo cui erano in corso discussioni riservate per la fornitura, per un totale di 300 milioni di dollari, di 2 batterie di sofisticatissimi S-300. Ancora oggi non vi sono notizie certe in merito ma anche se la vendita non dovesse avere luogo è comunque significativo che i 2 Paesi discutano di una vendita dal così elevato contenuto politico.

Sebbene la questione irrisolta del Nagorno-Karabakh rappresenta l’incognita più grande e pericolosa per tutti i soggetti geopolitici della regione, quanto detto finora mostra chiaramente che le relazioni politiche ed economiche tra i 2 Paesi sono relativamente soddisfacenti (diciamo che in un’ipotetica scala ai cui estremi piazziamo l’Armenia e la Georgia, l’Azerbaijan si colloca a metà strada) ed esistono anche gli spazi per un loro sostanziale miglioramento. Riteniamo che questa sia la vera sfida che attende Mosca, almeno nei confronti di Baku si intende. Molto probabilmente un approfondimento delle relazioni russo – azere potrebbe contribuire proprio a depotenziare il conflitto azero – armeno.

Conclusioni

Dal Caucaso transitano le tubature che trasportano gas e petrolio proveniente dal Caspio e dall’Asia centrale all’Europa. Come più volte sottolineato, l’obiettivo della Russia è quello di collocarsi il più possibile al centro di questa regione, strategica e turbolenta, al tempo stesso al fine di ricavarne vantaggi politici ed economici. Tutto questo però ha anche dei costi, sia politici che economici, e la Russia deve esserne consapevole. Come abbiamo dimostrato l’alleanza con l’Armenia è sicuramente utile, in quanto rafforza le relazioni con uno Stato situato nel cuore del Caucaso e lo rende più sicuro e meno nervoso, ma non sufficiente al raggiungimento degli obiettivi di Mosca, serve una politica strutturata verso tutti gli altri membri della regione, Azerbaijan in primis, che crei i presupposti per la risoluzione dei conflitti, la stabilizzazione del Caucaso ed il suo sviluppo. In tale scenario la Russia occuperà certamente un ruolo centrale assieme alle altre potenze regionali.

* Alessio Bini, dottore in Relazioni internazionali (Università di Bologna), collabora con “Eurasia”

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La biografia nascosta della famiglia Obama al servizio della CIA (2a parte)

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19 settembre 2010, Washington DC (USA)

Fonte: Voltairenet

Nella seconda parte della sua indagine, Wayne Madsen s’è interessato alla biografia della madre e del patrigno del presidente Barack Obama. Traccia il loro percorso di agenti della CIA iniziando dall’Università delle Hawaii, dove vennero elaborato alcuni dei più cupi progetti dell’Agenzia, all’Indonesia, mentre gli Stati Uniti preparavano l’enorme strage di simpatizzanti comunisti. La loro carriera s’inserisce  in questo periodo, che vide l’inizio della globalizzazione in Asia e nel resto del mondo. A differenza della dinastia Bush, Barack Obama è riuscito a nascondere i suoi legami con la CIA, in particolare, quelli della sua famiglia, fino ad oggi. Madsen conclude con la domanda: “Che cosa nasconde ancora Barack Obama?”

Il giovane “Barry” Obama Soetoro, allora di 10 anni, con il suo patrigno Lolo Soetoro, sua madre, Ann Dunham Soetoro Obama, e la sorellastra Maya Soetoro. (Foto di famiglia, pubblicato da Bloomberg News)

Nella prima parte della presente relazione speciale, il Wayne Madsen Report (WMR) ha rivelato i legami tra Barack Obama Senior e il viaggio aereo tra l’Africa e gli Stati Uniti di un gruppo di 280 studenti provenienti dalle nazioni dell’Africa del Sud e dell’Africa orientale, indipendenti o sul punto di divenirlo. Assegnandogli i diplomi universitari, gli Stati Uniti si assicurò la simpatia dei felici prescelti, e sperarono di usarli contro i progetti simili attuati dall’Unione Sovietica e dalla Cina. Barack Obama Senior  stato il primo studente straniero ad iscriversi all’Università di Hawaii. Obama senior e la madre di Obama, Stanley Ann Dunham, si sono incontrati in un corso di russo nel 1959, e si sposarono nel 1961.

Il programma d’invito per gli studenti africani era gestito dal leader nazionalista Tom Mboya, un mentore e amico di Obama senior, e come lui un nativo della tribù dei Luo. I documenti della CIA citati nella prima parte dell’articolo, indicano la collaborazione attiva di Mboya con la CIA per evitare che i nazionalisti filo-sovietici e filo-cinesi prendessero il sopravvento sui movimenti nazionalisti pan-africani, negli ambienti politici, studenteschi e dei lavoratore.

Uno degli avversari più accaniti di Mboya, è stato il primo Presidente della Repubblica del Ghana, Kwame Nkrumah, spodestato nel 1966 durante un’operazione montata dalla CIA. L’anno seguente, Barack Obama e sua madre si unirono a Lolo Soetoro in Indonesia. Ann Dunham e Soetoro si erano incontrati nel 1965 presso l’Università delle Hawaii, quando il giovane Barack aveva quattro anni.

Così nel 1967, Barack e sua madre si stabilirono a Jakarta. Nel 1965, Lolo Soetoro era stato richiamato dal generale Suharto a servire negli alti comandi militari e ad assistere alla pianificazione, con il sostegno della CIA, del genocidio degli indonesiani sino-indonesiani e filo-comunisti in tutto il paese. Suharto consolidò il potere in Indonesia, nel 1966, l’anno in cui la CIA ha aiutato Mboya a trovare il necessario sostegno tra i nazionalisti panafricani, per rovesciare il Presidente Nkrumah in Ghana.

I collegamenti tra le varie istituzioni e la CIA.

Il Centro Est-Ovest presso l’Università delle Hawaii e il colpo di Stato della CIA contro Sukarno

Ann Dunham e Lolo Soetoro s’incontrarono presso il Centro Est-Ovest dell’Università delle Hawaii. Il centro era da lungo tempo collegata alle attività della CIA in Asia/Pacifico. Nel 1965, anno in cui Dunham conobbe e sposò Lolo Soetoro, fu nominato un nuovo preside del Centro Est-Ovest Howard P. Jones, che era stato l’ambasciatore degli Stati Uniti in Indonesia nei sette anni capitali per il paese, tra il 1958 e il 1965. Jones era presente a Jakarta, quando Suharto e i suoi ufficiali agivano per conto della CIA, pianificando il rovesciamento di Sukarno, accusato, come il PKI (Partito Comunista Indonesiano), d’essersi alleato dalla Cina [1].

Il 10 ottobre 1965, quando era preside dell’East-West Center, Jones pubblicò un articolo per il Washington Post in cui difendeva Suharto per il colpo di stato contro Sukarno. Il Post lo ha invitato a commentare il colpo di stato, descritto come un “contro-golpe” per riconquistare il potere dalle mani dei comunisti. Jones disse che Suharto aveva risposto a un colpo di stato comunista contro Sukarno, guidato dal tenente-colonnello Untung, “un capitano di battaglione relativamente sconosciuto, al servizio nella Guardia Presidenziale”.

Jones, le cui dichiarazioni riflettono il contenuto delle relazioni della CIA provenienti dall’ambasciata USA a Jakarta, continuava il suo articolo affermando che il presunto colpo di stato comunista del 30 settembre 1965, “era quasi riuscito, dopo l’assassinio di sei ufficiali del Comando Supremo. Sarebbe riuscito se il ministro della Difesa, Nasution, e una serie di altri generali, non avessero reagito con sufficiente rapidità organizzando uno spettacolare contro-colpo di stato.” Naturalmente, ciò che Jones evitava d’informare i lettori del Post, era che Suharto era fortemente appoggiato dalla CIA.

Né Sukarno, né il governo indonesiano, in cui sedevano i leader di secondo e terzo rango del PKI, rimproverarono i comunisti di aver compiuto questi omicidi. Non possiamo escludere l’ipotesi che questi omicidi siano stati un’operazione false flag organizzata dalla CIA e da Suharto, destinati a scaricare la colpa sul PKI. Due giorni dopo il golpe di Suharto, i partecipanti in un evento orchestrato dalla CIA, incendiarono la sede della PKI a Jakarta. Marciando davanti l’ambasciata statunitense, che ospitava anche un ramo della CIA, scandivano le parole: “Viva gli USA!”

Untung disse che quando si accorse che Suharto e la CIA stavano preparando un colpo di stato per il giorno della parata dell’esercito indonesiano, 5 Ottobre 1965, Sukarno e lui, seguiti dai militare a loro leali, sarebbero passati per primi all’azione. Jones rispose che vedeva in questa versione “la tradizionale propaganda comunista“. Suharto attaccò Sukarno il 1 ottobre. Jones aveva ribadito che “non c’era un briciolo di verità nelle accuse contro la CIA di aver agito contro Sukarno.” Gli storici hanno dimostrato il contrario. Jones aveva accusato i comunisti di sfruttare la fragile salute di Sukarno di escludere qualunque candidato che avrebbe potuto succedergli. Il loro obiettivo, secondo Jones, era quello di imporre DN Aidit, il capo del PKI, alla successione di Sukarno. Sukarno morì solo nel 1970, quando era agli arresti domiciliari.

Un documento della CIA, precedentemente classificato segreto e senza data, menzionava che “Sukarno [voleva] tornare alla configurazione pre-colpo di stato. Egli [rifiutava] di accusare il PKI e il Movimento 30 settembre [del tenente colonnello Untung]; si [appellava], invece all’unità del popolo indonesiano e lo [dissuase] dai velleità di vendetta. Ma non [riuscito] a impedire all’esercito di continuare le sue operazioni contro il PKI; [agiva] nello loro senso nominando il generale Suharto a capo dell’esercito“. Suharto e il patrigno di ‘Barry’ Obama Soetoro, Lolo Soetoro, ignorarono gli appelli di Sukarno alla calma, come gli indonesiani avrebbero scoperto molto rapidamente.

Dopo il fallito colpo di stato militare attribuito agli ufficiali di sinistra nel 1965, Suharto (a sinistra) scatenò una sanguinosa purga anti-comunista, in cui un milione di civili venne ucciso.

Il massacro delle popolazioni Cino-Indonesia a opera di Suharto, è citata nei documenti della CIA attraverso la descrizione del partito Baperki: “I sostenitori del partito di sinistra Baperki, che ha una forte presenza nelle aree rurali, sono prevalentemente di etnia sino-indonesiana”. Una nota della CIA declassificata, datata 6 ottobre 1966, mostra il grado di controllo e la supervisione esercitata dalla CIA nel golpe contro Sukarno, molti furono gli agenti intermediari con le unità armate di Suharto poste intorno al palazzo presidenziale di Bogor e a varie ambasciate in tutto il paese, compreso il Consolato degli Stati Uniti a Medan. Questo consolato sorvegliava i sostenitori di sinistra in questa città, sull’isola di Sumatra, secondo una nota della CIA del 2 ottobre 1965, portando all’attenzione dell’Agenzia che “il console sovietico aveva pronto un piano per evacuare da Sumatra i cittadini sovietici.” La nota del 6 ottobre raccomandava anche di impedire a Untung di raccogliere ampi appoggi anche tra le popolazioni dell’interno dell’isola di Java.

Ann Dunham Soetero “vince i cuori e le menti” degli agricoltori e degli artigiani del villaggio giavanese Kajar.

Un rapporto settimanale declassificato della CIA, riguardo l’Indonesia, datato 11 agosto 1967 e intitolato “Il Nuovo Ordine in Indonesia”, rivela che nel 1966 l’Indonesia ristrutturò la sua economia per soddisfare i criteri di ammissibilità per gli aiuti del FMI. In questa relazione, la CIA si felicitava per il nuovo triumvirato al potere in Indonesia, nel 1967: Suharto, il ministro degli Esteri Adam Malik e il sultano di Yogyakarta [2], che fu anche Ministro dell’Economia e delle Finanze. La CIA si felicitava anche per il divieto del PKI, ma ammetteva che “tuttavia molti sostenitori si erano riuniti nelle regioni centro-orientali di Java“, ed è in queste regioni, quindi, che Ann Dunham Soetoro focalizzò le sue attività in nome dell’USAID (U. S. Agency for International Development), della Banca mondiale e della Fondazione Ford, la società di facciata della CIA. La sua missione era quella di “vincere i cuori e le menti” degli agricoltori e degli artigiani giavanesi.

In una nota declassificata della CIA del 23 luglio 1966, il partito musulmano Nahdatul Ulama (NU), il partito più forte in Indonesia, era chiaramente visto come un alleato naturale degli Stati Uniti e del regime di Suharto. La relazione affermava che Suharto aveva beneficiato di assistenza per rovesciare i comunisti durante il contro-colpo di stato, in particolare laddove il NU era meglio radicato: Java Est, Sumatra settentrionale e molte aree dell’isola del Borneo. Un’altra nota declassificata dalla CIA, datata 29 Aprile 1966, si riferisce al PKI: “Gli estremisti islamici hanno superato l’esercito nel perseguitare e uccidere i membri del [PKI] e degli altri gruppi affiliati usati come copertura“.

Dunham e Barry Soetoro a Jakarta e le attività segrete dell’USAID

Incinta di Barack Obama, nel 1960 Dunham abbandonò gli studi presso l’Università delle Hawaii. Barack Obama Senior lasciò le Hawaii nel 1962 per studiare ad Harvard. Dunham e Obama Senior divorziarono nel 1964. Nell’autunno del 1961, Dunham s’iscrisse presso l’Università di Washington e crebbe il suo bambino. Lei rientrò all’Università delle Hawaii tra il 1963 e il 1966. Lolo Soetoro, che si unì con Dunham nel marzo 1965, lasciò l’Indonesia per le Hawaii il 20 luglio 1965, tre mesi prima dell’inizio delle operazioni della CIA contro Sukarno. Chiaramente Soetoro, un colonnello di Suharto, fu richiamato a Jakarta per partecipare al colpo di stato contro Sukarno, dei torbidi che causarono la morte di circa un milione di indonesiani tra la popolazione civile. Il presidente Obama preferirebbe che la stampa ignorasse ciò che successe nel passato; come ha fatto durante la campagna per le primarie e le elezioni presidenziali del 2008.

Nel 1967, dopo il suo arrivo in Indonesia con Obama Junior, Dunham ha insegnato inglese presso l’ambasciata Usa a Jakarta, che era una delle antenne più importanti della CIA in Asia, sostenuta da importanti operazioni svoltesi a Surabaya, Java orientale, e a Medan, sull’isola di Sumatra. Jones lasciò il suo incarico di preside presso l’Università delle Hawaii nel 1968.

In realtà, la madre di Obama insegnava inglese per conto dell’USAID, una grande organizzazione che serviva come copertura per le operazioni segrete della CIA in Indonesia e nel sud-est asiatico, in particolare Laos, Vietnam del sud e Thailandia. Il programma dell’USAID è noto come Pembinaan Lembaga Manajemen Pendidikan. Anche se suo figlio e le persone che hanno lavorato con lei alle Hawaii, descrivono la Dunham come uno spirito libero e una “figlia degli anni Sessanta”, le attività esercitate in Indonesia contraddicono la tesi che fanno di lei una ‘hippy’.

Il russo che la Dunham aveva appreso alle Hawaii, in seguito dovette essere stato molto utile, per la CIA, in Indonesia. In una nota declassificata, in data 2 agosto 1966, il suo autore, il segretario generale del Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, Bromley Smith, ha osservato che, come Giappone, Europa Occidentale, Australia, Nuova Zelanda, Malesia e Filippine, l’Unione Sovietica e i suoi alleati in Europa orientale avevano ben accolto la notizia del colpo di stato di Suharto, poiché creava una Indonesia non allineata, che “rappresentava un contrappeso in Asia alla Cina comunista.” Le registrazioni mostrano che, come Ann Dunham, diversi agenti della CIA, con base a Jakarta, prima e dopo il golpe del 1965, parlavano correntemente russo.

Quando viveva in Indonesia, poi in Pakistan, Dunham Soetoro lavorava per la Fondazione Ford, la Banca Mondiale, la Banca Asiatica di Sviluppo, la Banca Rakyat (banca pubblica indonesiano, di proprietà del governo) e l’USAID.

L’USAID fu coinvolta nelle operazioni segrete della CIA nel Sud-Est asiatico. Il 9 febbraio 1971, il Washington Star pubblicò l’informazione che funzionari dell’USAID in Laos, sapevano che il riso fornito dall’USAID destinato all’esercito Laotiano, veniva venduto ai militari Nord-vietnamiti nel Laos stesso. Il rapporto rivela che gli Stati Uniti tolleravano la vendita di riso proveniente dall’USAID ai militari del Laos, poiché così non avrebbero avuto più timore degli attacchi dal Vietnam del Nord e dagli alleati comunisti del Pathet Lao. L’USAID e la CIA utilizzarono la fornitura di riso per forzare le tribù Meo del Laos ad aderire al campo degli Stati Uniti, nella guerra contro i comunisti. I fondi dell’USAID, che avevano lo scopo di aiutare i civili feriti e ad istituire un sistema di assicurazione sanitaria in Laos, furono dirottati e utilizzati per scopi militari.

Nel 1971, il Centro di studi vietnamiti presso l’Università dell’Illinois a Carbondale, finanziato dall’USAID, fu accusato di essere una società di facciata della CIA. I progetti finanziati dall’USAID attraverso il consorzio delle università del Midwest per le attività internazionali (Midwest Universities Consortium for International Activities, MUCIA), che comprendeva le Università di Illinois, Wisconsin, Minnesota, Indiana e Michigan, erano sospettati di essere dei progetti segreti della CIA. Tra questi, figuravano i programmi di “istruzione agraria” in Indonesia e altri progetti in Afghanistan, Mali, Nepal, Nigeria, Tailandia e Vietnam del Sud. Le accuse furono fatte  nel 1971, quando Ann Dunham lavorava per l’USAID in Indonesia.

In un articolo del 10 luglio, 1971, il New York Times accusava l’USAID e la CIA di aver “perso” 1.700 milioni di dollari devoluti al programma CORDS (Civil Operations e Revolutionary Development Support). Questo programma era parte dell’Operazione Phoenix, in base al quale la CIA procedeva alla tortura e all’uccisione di molti civili, monaci buddisti e anziani nei villaggi del Vietnam del Sud [3]. Grandi somme di denaro dell’USAID, inoltre, furono ricevute da una compagnia aerea di proprietà della CIA nel Sud-Est asiatico, Air America. In Thailandia, il finanziamento dell’USAID ha accelerato lo sviluppo del Programma di Sviluppo Rurale accelerato (Accelerated Rural Development Program), che nascondeva le operazioni contro la guerriglia comunista. Allo stesso modo, nel 1971, nei mesi precedenti lo scoppio della terza guerra indo-pakistana, i fondi dell’USAID per dei progetti di lavori pubblici nella parte orientale del Pakistan, furono utilizzati per il consolidamento militare della frontiera con l’India. Tali deviazioni sono contrari alle leggi degli Stati Uniti, che vietano l’uso dei fondi dell’USAID per i programmi militari.

Nel 1972, in un’intervista a Metromedia News, il direttore di USAID, il dottor John Hannah, aveva ammesso che l’USAID era usato come società di facciata della CIA per le sue operazioni segrete in Laos. Hannah disse che l’USAID era solo una società di copertura solo in Laos. Tuttavia, USAID è stato usata come copertura anche in Indonesia, Filippine, Vietnam del Sud, Thailandia e Corea del sud. I progetti di USAID nel sud est asiatico dovevano essere approvato dal SEADAG (Southeast Asian Development Advisory Group), un gruppo di sviluppo dei progetti pubblici in Asia, che in realtà sia allineava ai pareri della CIA.

Nel 1972, è stato dimostrato che il Food for Peace, amministrata dall’USAID e dal Dipartimento dell’Agricoltura statunitense, aveva ricevuto finanziamenti per dei progetti con scopi militari in Cambogia, Corea del Sud, Turchia, Vietnam del Sud, Spagna, Taiwan e Grecia. Nel 1972, l’USAID ha mandato i soldi solo nella parte meridionale dello Yemen del Nord, al fine di armare le forze dello Yemen del Nord contro il governo dello Yemen del Sud, allora guidato dai socialisti, contrari l’egemonia statunitense nella regione.

Uno degli enti collegati al lavoro dell’USAID in Indonesia è la Fondazione Asia (Asia Foundation), creata negli anni ‘50 con l’aiuto della CIA, per combattere l’espansione comunista in Asia. Il consiglio di amministrazione del Centro Est-Ovest presso l’Università delle Hawaii è stato finanziato dalla Fondazione Asia. Obama Senior ha soggiornato in questo ostello all’arrivo dal Kenya, che beneficiava del programma di assistenza per studenti africani organizzato da un agente di influenza della CIA in Africa, Tom Mboya.

Dunham visse anche in Ghana, Nepal, Bangladesh, India e Thailandia, nel contesto di progetti di microfinanza. Nel 1965, Barack Obama Senior lasciò Harvard e tornò in Kenya, accompagnato dalla nuova moglie statunitense. Obama Senior si mise in contatto con il suo vecchio amico, il “golden boy” della CIA Tom Mboya, e altri politici Luo, la tribù di Obama Senior. Philip Cherry era a capo della stazione CIA di Nairobi, nel 1964-1967. Nel 1975 fu nominato capo della stazione CIA a Dacca, in Bangladesh. L’ambasciatore statunitense nel Bangladesh all’epoca, Eugene Booster, accusò Cherry di essere coinvolto nell’assassinio del primo presidente del Bangladesh, Sheikh Mujiur Rahman e di altri membri della sua famiglia. L’esecuzione della famiglia del presidente del Bangladesh sarebbe verosimilmente stata ordinata dal Segretario di Stato Henry Kissinger. Il Bangladesh è stato anche un passaggio nell’itinerario seguito da Ann Dunham per conto della CIA, nei progetti di micro e macro-finanza.

Obama e i suoi nonni materni, Madelyn e Stanley Dunham, nel 1979. Sua nonna era una vice-presidente della Banca delle Hawaii, una banca utilizzata da varie società di copertura della CIA.

Le banche della CIA e le Hawaii

Ann Dunham è rimasta in Indonesia, quando il giovane Obama tornò alle Hawaii nel 1971, affidando il figlio alla madre, Madelyn Dunham. Quest’ultima è stata la prima donna a ricoprire la carica di vice-presidente della Banca delle Hawaii di Honolulu. Diverse società di facciata della CIA hanno poi utilizzato la Banca delle Hawaii. Madelyn Dunham curava la gestione dei conti nascosti che la CIA utilizzava per trasferire fondi a favore dei dittatori in Asia, come il Presidente della Repubblica delle Filippine, Ferdinand Marcos, il Presidente della Repubblica del Viet Nam, Nguyen Van Thieu e il Presidente della Repubblica di Indonesia, generale Suharto. Infatti, la Banca delle Hawaii era responsabile del riciclaggio di denaro da parte della CIA, per nascondere l’attenzione prestata dalla CIA nel sostenere i suoi leader politici preferiti in Asia-Pacifico.

A Honolulu, una delle società bancarie più utilizzati dalla CIA per il riciclaggio di denaro era la BBRDW (Bishop, Baldwin, Rewald, Dillingham & Wong). Nel 1983, la CIA ha dato la sua approvazione per la liquidazione della BBRDW, sospettata di essere che uno schema Ponzi. In questa occasione, il senatore Daniel Inouye – un membro della commissione Intelligence del Senato USA (US Senate Select Committee on Intelligence) e uno dei migliori amici in parlamento dell’ex senatore dell’Alaska, Ted Stevens – disse che il ruolo della CIA nel BBRDW era “insignificante.” Successivamente, abbiamo scoperto che Inouye mentiva. In realtà, la BBRDW era profondamente coinvolta nel finanziamento delle attività segrete della CIA in tutta l’Asia, compresi quelli per lo spionaggio industriale in Giappone, le vendite di armi ai guerriglieri anti-comunisti mujahidin afgani e a Taiwan. John C. “Jack” Kindschi è stato uno dei capi della BBRDW, prima di ritirarsi nel 1981, era stato capo della stazione CIA a Honolulu. Il diploma universitario che orna la parete dell’ufficio del Presidente della BBRDW, Ron Rewald, era un falso degli esperti in falsificazioni della CIA, il suo nome era stato aggiunto anche negli archivi degli ex studenti.

Il passato della BBRDW era stato riscritto dalla CIA per fare credere l’esistenza della banca nelle Hawaii dall’annessione dell’isola come territorio degli Stati Uniti [4]. Il presidente Obama sta attualmente combattendo contro le accuse secondo cui i suoi diplomi e le sue note di corso siano falsi, così come il numero della previdenza sociale del Connecticut, e alcuni elementi che impreziosiscono il suo curriculum. La scoperta di documenti falsificati della BBRDW sarebbero alla base dei problemi che si affacciano sul passato di Barack Obama?

La BBRDW était installée dans le quartier d’affaires d’Honolulu, près du siège de la Banque de Hawaii, là où étaient détenus les comptes cachés de la CIA gérés par Madelyn Dunham, la grand-mère d’Obama. La BBRDW èra installata nel quartiere degli affari di Honolulu, vicino alla sede della Bank of Hawaii, dove Madelyn Dunham, la nonna di Obama, teneva nascosti i conti gestiti dalla CIA. La Banca delle Hawaii ha curato molte transazioni finanziarie segrete effettuate dalla BBRDW.

Soetoro-Obama e “Un anno vissuto pericolosamente” [5] a Jakarta

E’ chiaro che Ann Dunham Soetoro e suo marito indonesiano, Lolo Soetoro, il patrigno del Presidente Obama, erano strettamente correlati alle attività della CIA volte a neutralizzare l’influenza cino-sovietica in Indonesia, nell’”anno vissuto pericolosamente“, dopo la cacciata di Sukarno. Il Wayne Madsen Report ha scoperto che i funzionari di grado elevato della CIA erano stati ufficialmente e ufficiosamente nominati a posizioni di copertura in Indonesia, durante lo stesso periodo, delle coperture fornite, tra l’altro, da USAID, Corpi della pace e USIA (Agenzia d’Informazione degli USA).

Uno dei più stretti contatti della CIA di Suharto, fu Kent B. Crane, che era stato tra gli agenti della CIA di stanza presso l’ambasciata USA a Jakarta. Crane era così vicino a Suharto, che dopo il suo “pensionamento” della CIA, era uno dei pochi uomini d’affari “privati” ad avere un passaporto diplomatico dal governo di Suharto in Indonesia. La società Crane, il Gruppo Crane, forniva armi di piccolo calibro alle forze militari degli Stati Uniti, indonesiane e di altri paesi. Crane è stato il consigliere per gli affari esteri del Vice-Presidente degli Stati Uniti, Spiro Agnew, che fu successivamente nominato ambasciatore statunitense in Indonesia dal presidente Ronald Reagan. Questa nomina restò lettera morta, per via dei suoi legami sospetti con Suharto. John Holdridge, stretto collaboratore di Kissinger, fu nominato al suo posto, alla sua partenza per Jakarta, Paul Wolfowitz lo rimpiazzò.

I pupilli di Suharto, che annoveravano anche Mokhtar e James Riady del Gruppo Lippo, furono accusati di aver iniettato più di un milione di dollari, attraverso i contributi illegali esteri, nei conti della campagna di Bill Clinton del 1992. In due occasioni, il presidente Obama ritardò la sua visita ufficiale in Indonesia, forse per paura che un tale viaggio potesse destare l’interesse nel rapporto tra la madre e il patrigno con la CIA?

Ann Dunham visita un allevamento di anatre a Bali, ufficialmente come parte del suo lavoro per sviluppare i programmi per il credito bancario alle piccole imprese.

Negli anni ‘70 e ‘80, Dunham ha curato i progetti di microcredito in Indonesia per la Fondazione Ford, il Centro Est-Ovest e l’USAID. Il dottor Donald Gordon junior era uno di quelli di stanza presso l’ambasciata degli Stati Uniti. Ha contribuito a proteggere gli edifici delle ambasciate durante le violente proteste studentesche anti-USA, durante il periodo del colpo di Stato contro Sukarno. Aggregato all’Ufficio affari economici, Donald è stato il responsabile del programma di microfinanza dell’USAID per gli agricoltori indonesiani, lo stesso programma cui Dunham ha lavorato, in collaborazione con l’USAID, negli anni ’70, dopo aver insegnato lingua inglese in Indonesia, ancora una volta a nome dell’USAID. Nel libro Who’s Who della CIA, pubblicato nel 1968 in Germania Ovest, Donald è descritto come un agente della CIA che ha anche servito a Latore, in Pakistan, una città che nella quale Dunham avrebbe soggiornato più avanti, in una suite all’Hilton, per gestire, per cinque anni, i progetti di microfinanza per lo sviluppo della Banca asiatica.

Tra gli uomini di stanza a Jakarta, il Who’s Who della CIA fa comparire Robert F. Grealy; che sarebbe divenuto il direttore delle relazioni internazionali per l’Asia-Pacifico della J. P. Morgan Chase, il direttore della Camera di Commercio per gli Stati Uniti e l’Indonesia. Il CEO di J. P. Morgan Chase, Jamie Dimon, inoltre è stata recentemente citato come un potenziale sostituto di Richard Geithner, segretario al Tesoro, il cui padre, Peter Geithner ha lavorato presso la Fondazione Ford e aveva l’ultima parola per l’assegnazione di fondi per i progetti di microfinanza della Dunham.

I progetti vergognosi della CIA e le Hawaii

Durante la permanenza in Pakistan, Ann Dunham ha ricevuto la visita di suo figlio Barack nel 1980 e nel 1981. Obama è andato nello stesso tempo a Karachi, Lahore e nella città indiana di Hyderabad. Durante questo stesso periodo, la CIA intensificava le sue operazioni in Afghanistan dal territorio pakistano.

Il 31 gennaio 1981, il vice direttore dell’Ufficio per la ricerca e le relazioni della CIA (ORR Ufficio Ricerca e Relazioni) trasmise al direttore della Central Intelligence, Allen Dulles, una lunga nota, classificata con il codice segreto NOFORN [6] e ora declassificata. Vi era la relazione di una accurata raccolta di dati effettuata tra il 17 novembre e 21 dicembre 1957 in Estremo Oriente, Sud Est asiatico e Medio Oriente.

Il capo della ORR faceva riferimento al suo incontro con la squadra del generale in pensione Jesmond Balmer, alto funzionario della CIA nelle Hawaii, su richiesta del capo dell’US Pacific Command, per “la raccolta di informazioni complete che richiedono approfondite ricerche”. Il capo della ORR ha poi fatto riferimento alla ricerca, svolta dalla CIA, per reclutare “studenti dell’Università delle Hawaii sinofoni, in grado di effettuare missioni di intelligence”. Ha poi affrontato le discussioni svoltesi nel corso di un seminario sulla contro-intelligence verso l’Organizzazione del Trattato nel Sud- est Asiatico, che si era tenuto a Baguio tra il 26 e il 29 novembre 1957. Il Comitato innanzitutto aveva discusso dei “fondi per lo sviluppo economico” per combattere le “attività sovversive svolte dal blocco sino-sovietico nella regione“, prima di “prendere in considerazione tutte le reazioni che possono essere attuate.”

Le delegazioni tailandese e filippina fecero grandi sforzi per ottenere i finanziamenti dagli Stati Uniti per un fondo di sviluppo economico, che avrebbe innescato gli altri progetti dell’USAID nella regione, dello stesso tipo di quelle in cui Peter Geithner e la madre di Barack Obama s’impegnavano  pesantemente.

Esiste una importante letteratura sugli aspetti geopolitici delle operazioni segrete della CIA condotte dall’Università delle Hawaii, non è lo stesso per gli elementi più vergognosi della raccolta di dati e operazioni del tipo MK-ULTRA, che non sono stati associati in modo coerente con l’Università delle Hawaii.

Diverse note declassificate dalla CIA, datate 15 Maggio 1972, riguardano la partecipazione dell’ARPA (Advanced Research Projects Agency) del Dipartimento della Difesa e l’Università delle Hawaii in un programma di studi sul comportamento della CIA. Queste note sono state scritte da Bronson Tweedy, allora vice direttore della CIA, il direttore del PRG (Program Review Group) della US Intelligence Community e il direttore della CIA, Robert Helms (Richard. NdT). Queste note hanno per tema la “ricerca condotta dall’ARPA in materia di intelligence.” La valutazione del direttore del PRG affronta una conferenza a cui hanno partecipato il Tenente-colonnello Austin Kibler, direttore degli studi comportamentali dell’ARPA, 11 maggio 1972. Kibler ha curato la ricerca ARPA sui cambiamenti comportamentali e il monitoraggio remoto. Il memo del direttore del PRG cita alcuni alti ufficiali: Edward Proctor, vice direttore responsabile dell’intelligence della CIA, Carl Duckett, il vice direttore responsabile scienza e tecnologia della CIA e John Huizenga, Direttore dell’Office of National Estimates [7].

Nel 1973, dopo che James Schlesinger, allora direttore della CIA, aveva ordinato un’inchiesta amministrativa su tutti i programmi della CIA, l’Agenzia ha prodotto una serie di documenti sui vari programmi, denominati “gioielli di famiglia.” La maggior parte di questi documenti sono stati pubblicati nel 2007 e, nello stesso tempo, abbiamo saputo che Helms ha ordinato al dottor Sidney Gottlieb di distruggere le registrazioni relative alle ricerche che stava conducendo; quest’ultimo è stato il direttore del progetto MK-ULTRA, un programma di ricerca della CIA sui cambiamenti del comportamento, il lavaggio del cervello e l’iniezione di droga. In una nota scritta dall’agente della CIA Ben Evans, e inviato a William Colby, direttore della CIA, datato 8 maggio 1973, Duckett confidò la sua opinione: “Sarebbe sbagliato che il direttore si dichiari al corrente di questo programma“, in riferimento agli esperimenti condotti da Gottlieb per il progetto MK-ULTRA.

Dopo la pubblicazione dei “gioielli di famiglia“, diversi membri dell’amministrazione del presidente Gerald Ford, il cui capo dello staff della Casa Bianca, Dick Cheney e il segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, hano fatto in modo che nessuna rivelazione veisse fatta sui programmi di modificazione comportamentale e psicologica, che comprendeva i progetti MK-ULTRA e ARTICHOKE (carciofo).

Molti dei memo del 15 maggio 1972 si riferiscono al progetto SCANATE, avviato lo stesso anno. Questo è uno dei prima programmi di ricerca da guerra psicologica della CIA, in particolare, sull’uso di psicofarmaci per il monitoraggio remoto e la manipolazione psicologica. Vi è anche menzionato Kibler dell’ARPA e il “suo” sub-appaltatore, e più tardi si è appreso che questa era la Stantford Research Institute (SRI), con sede a Menlo Park, California.

Helms aveva inviato una comunicazione a, tra gli altri, Duckett, Huizenga, Proctor e al Direttore dell’Agenzia d’Intelligence Militare (Defense Intelligence Agency, DIA) – quest’ultima, poi, ha ereditato il progetto della CIA “GRILL FLAME”, di monitoraggio remoto. Helms ha insistito a che l’ARPA supportasse, “per un certo numero di anni”, la ricerca sul comportamento e le potenziali applicazioni di cui ne potrebbe beneficiare l’intelligence, “con la partecipazione di MIT, Yale, Università del Michigan, UCLA, University of Hawaii e altre istituzioni o gruppi di ricerca.”

La collaborazione dell’Università delle Hawaii con la CIA, nel campo della guerra psicologica, continua ancora oggi. La Dr.ssa Susan Brandon, direttore del programma in corso di studi comportamentali condotti dal Centro di controspionaggio e d’intelligence (Defence Counterintelligence and Human Intelligence Center, DCHC) all’interno della DIA, ha ricevuto il suo Ph.D. in Psicologia all’Università delle Hawaii. Brandon è stata coinvolta in un programma segreto, frutto della collaborazione della ABS (American Psychological Association), della RAND Corporation e della CIA, volto a “migliorare i metodi di interrogatorio“, l’oggetto della sua ricerca si è concentrata sulla privazione del sonno e della percezione sensoriale, la sopportazione a forti dolori e al completo isolamento, sui procedimenti attuati sui prigionieri della base aerea di Bagram, in Afghanistan e in altre prigioni segrete [8]. La Brandon è stata anche vicedirettrice del Dipartimento di Scienze sociali comportamentali ed educativi, presso l’Ufficio della Scienza e della Tecnologia dell’amministrazione di George W. Bush.

I legami tra la CIA e l’Università delle Hawaii non si affievoliscono neanche nei tardi anni ‘70, quando l’ex rettore dell’Università delle Hawaii, tra il 1969 e il 1974, Harlan Cleveland, fu invitato a tenere una conferenza al quartier generale della CIA, il 10 maggio 1977. Prima di prendere il suo posto presso l’Università delle Hawaii, Cleveland era segretario dell’Ufficio di Presidenza nei casi relativi alle organizzazioni internazionali (Bureau of International Affairs Organization) 1965-1969.

Una nota del direttore dell’Agenzia d’intelligence, in data 21 Maggio 1971, indica che la CIA aveva reclutato un ufficiale della Marina che aveva iniziato il secondo ciclo di studi presso l’Università delle Hawaii.

La famiglia Obama e la CIA

Molti documenti sono disponibili sul rapporto di George H. W. Bush con la CIA, e sulle attività di suo padre e dei suoi figli, tra cui l’ex presidente George W. Bush, per conto della CIA. Barack Obama, nel frattempo, è riuscito a nascondere le tracce dei suoi legami con l’Agenzia, così come quelle dei suoi genitori, del patrigno e della nonna (molto poco si sa suo nonno, Stanley Dunham Armour, e si suppone che si sia dedicato al business mobiliare alle Hawaii, dopo aver prestato servizio in Europa durante la seconda guerra mondiale). Presidenti e vicepresidenti degli Stati Uniti non sono soggetti ad alcuna indagine di fondo, prima di assumere le funzioni, a differenza di altri membri del governo federale. Questa attività di indagine è lasciata alla stampa. Nel 2008, i giornalisti hanno miseramente fallito nel loro compito di indagare sulle informazioni troppo superficiali, riguardo l’uomo che sarebbe entrato alla Casa Bianca. Il rapporto dei genitori con l’Università delle Hawaii e il ruolo delle università nei progetti MK-ULTRA e ARTICHOKE, invitano a questa domanda: “Che cosa nasconde ancora Barack Obama?”

Wayne Madsen

Ex contrattista della National Security Agency (NSA) è diventato giornalista specializzato nell’intelligence elettronica e nell’intelligenza in generale. E’ stato curatore della sezione francese della rivista Intelligence Ondine, fino a quando non fu acquistata da Le Monde. Pubblica il Wayne Madsen Report e interviene regolarmente sul canale satellitare Russia Today.

Note

[1] Di questi eventi, si veda anche l’articolo “1965: Indonésie, laboratoire de la contre-insurrection” (http://www.voltairenet.org/article13984.html) di Paul Labar, Voltairenet, 25 Maggio 2004.

[2] N.d.T. o Yogyakarta

[3] Sull’Operazione Phoenix vedi anche: “Opération Phénix: le modèle vietnamien appliqué en Irak” (http://www.voltairenet.org/article15519.html), di Arthur Lepic, Voltairenet, 16 novembre 2004.

[4] N.d.T. 1898

[5] N.d.T. Il film ‘Un anno vissuto pericolosamente’ di Peter Weir, è stato pubblicato nel 1982. Si svolge durante il tentato colpo di stato attribuito ai comunisti in Indonesia, nel 1965.

[6] N.d.T. per “no foreign dissemination”, nessuna divulgazione di informazioni ai servizi esteri

[7] N.d.T. ufficio incaricato di valutare l’intelligence americana, ora National Intelligence Council.

[8] A questo proposito si veda anche l’articolo “Il segreto di Guantanamo” (http://www.voltairenet.org/article162599.html), di Thierry Meyssan, Voltairenet, 28 Ottobre 2009.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://www.aurora03.da.ru

http://www.bollettinoaurora.da.ru

http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/

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The other Sakinehs

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By now, a number of weeks passed that, on front pages of half world’s newspapers, hold the stage the case of Sakineh Ashtiani, an Iranian woman sentenced to death in the Persian country for murdering her husband in connivance with her lover.

Reams and reams were written to defend Ms. Ashtiani, whose case has mobilized more or less famous figures – from Ms. Carla Bruni in Sarkozy to football player Francesco Totti. Striking the contrast with the dead silence which enshroud the fate of many other “Sakinehs”, women who have faced or are about to face death penalty in their own countries.

Those women don’t have oriental names, are not Muslim and don’t carry a veil on their heads. Strikingly, that seems sufficient so that millions of “human rights activists” that cry shame for Ms. Ashtiani, take no interest in their cause.

The more striking case is that, very topical, of Teresa Lewis, which has many analogies with Ms. Ashtiani affair. Ms. Lewis, in fact, was sentenced because she favored her husband and stepson’s murders in order to pocket the insurance premiums; effective killers are two men who, for admission of one of them, had deceive her. Teresa Lewis, in fact, have a marked intellectual deficit, proved also by Q.I. tests. However, she will be execute in that hours: governor of Virginia, Bob McDonnell, didn’t concede the mercy. Emblematically, conservative McDonnell is in front line to defend Ms. Ashtiani; so there’s no surprise that Iranian press is raising Lewis affair, blaming Western media for double standards.

But Teresa Lewis affair is just the tip of an iceberg, that of death penalty in USA – country among the more engaged in pro-Ashtiani movement. When current year began 3.261 prison inmates were in US death rows: six times those of 1968, three time those of 1982. Since 1900 50 women have been executed in the USA: over a third were black or Asiatic, even if their ethnics represents together only 17% of US total population.

Moreover, US history record 364 executions of minors, or persons sentenced for crime committed when minor. In the twentieth century the younger was George Junius Stinney Junior, executed in 1944 at only 14 years old. The 23rd March of that year, two white female children were found murdered in South Carolina: that very day the black kid was arrested, interrogated by white policemen in his defense attorney’s absence, and in an hour induced to confess the crime. The trial took place a month later and lasted two hours in all: the jury took 10 minutes to return a verdict of guilty. Eighty days after the murder, the very young George Junius was put on an electric chair which killed him after 4 minutes of agony. Some thousands kilometers away, US troops (with blacks strictly confine in own battalions lead by white officers) were fighting against Nazi Germany, in what would be glorified a posteriori as an anti-racist crusade by a nation which, nevertheless, at home abolished racial segregation only in 1968.

Since 1976, year when death penalty was reintroduced in the USA after a short suspension imposed by the Supreme Court, 22 are the execution which have affected minor at the crime’s time, and sometimes even at that of execution. The more recent case is that of Leonard Schockley, asphyxiated in a gas chamber in 1959, while he was 17. Also Schokley was black. In 2005 Supreme Court forbade death penalty for crimes committed when minor: so the last one to suffer it has been Scott Hain, executed in 2003.

Ethnic identity of the condemned persons has been underlined regularly because racist problem is often raised by who critics US judiciary system. Afro-American are 12% of population, but since 1976 executions regarded for 34% black people. Trend isn’t bound to reverse: 41% of current US death row’s inmates are blacks. More relevant is the victim’s race, since doesn’t work the objection that, perhaps, blacks commit more crimes than whites. Even if murder’s victims were half whites and half blacks, since 1976 80% of death warrants are made provision for murder of a white person.

Homicide is not the only offense that could be punished by death in the United States of America: are liable to capital punishment also treason, espionage, terrorism, rape, kidnapping, hijacking, drug smuggling and perjury. The last condemned killed for a crime different from murder was 38 years old James Coburn, put on an electric chair in 1964 for robbery. Demarcus Sears, currently detained in Georgia, may soon steal him the not enviable record, lying in wait of execution for aggravated kidnapping.

Those few lines don’t aim to raise the problem of whether death penalty is acceptable or not. On this matter a large debate exists, with conflicting opinions. What disturbs is the difference of interest, judgment and attitude that Italian (and generally Western) public opinion shows in front of similar cases, but regarding different countries. Sakineh Ashtiani affair resembles strongly to that of Teresa Lewis: both helped the respective lover to kill their husbands. Some elements, however, lead to think that the Lewis case should be considered overriding by death penalty’s opponents. In fact, Ms. Lewis is dying those very hours, while Ashtiani case is still being examined by the investigating officers, and there is the possibility that she will be acquitted. It could be added that Ms. Lewis is mentally handicapped, unlike Ms. Ashtiani, and that constitutes a sort of extenuation in many countries’ jurisprudence.

Yet, every or almost every voices have raised only for Ms. Ashtiani. What have determined that difference of treatment, such reversal of logical priorities? Supposedly, mass media behavior. Lewis case have crossed US borders only in the last days, whereas that of Ashtiani has been holding court for weeks. Moreover, either for incompetence or for bad faith, several journalistic inaccuracies were made in telling the Iranian affair.

Still now some reporter maintain that Sakineh Ahstiani would have been “condemned” (in fact, final verdict is still to come) for “adultery” (in fact, for complicity in a murder) to “stoning” (in fact, she’s facing hanging, because since 2002 there is a moratorium in Iran on that particularly brutal and loathsome form of execution). There’s no difficulty in understanding why leading media of NATO countries have given so much emphasis (and distortion) to Ashtiani affair, while with unbelievable coldness they have been silent of Lewis case until a few days before execution. There’s no difficulty in understanding why Western public opinion easily mobilize to defend a condemned in a Muslim country, but ignore her counterpart in a Christian one. Because it is easier to see the straw in someone else’s eye, that admit to have a beam in one’s own.

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