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Chi trae vantaggio dalla rivoluzione in Kirghizistan?

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Washington e il futuro del Kirghizistan: assicurare un perno geostrategico

F. William Engdahl*, Francoforte (Germania) 4 agosto 2010

http://www.voltairenet.org/article166541.html

Nella quarta e ultima parte del suo studio, F. William Engdahl spiega l’importanza geopolitica cruciale per gli Stati Uniti dei fatti di sangue in Kirghizistan. Per Washington, l’Asia centrale è una posizione chiave nella propria strategia di dominio globale, che si basa sulla militarizzazione di tutta la regione. Questo obiettivo è servito dalla tattica provata del conflitto a bassa intensità: essa permette l’espansione della presenza permanente della NATO con il pretesto della “guerra contro il terrorismo”, finanziato dalla produzione assai redditizia dell’eroina. In Asia centrale, come suggerito da William Engdahl, dell’impero statunitense si gioca la propria  sopravvivenza.

Il centro di transito degli USA di Manas (Kyrgyzstan) è ufficialmente destinato a sostenere lo sforzo bellico in Afghanistan.

Dal crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, obiettivo strategico di primo ordine per il Pentagono e dei servizi segreti americani americani è infiltrarsi in profondità nei paesi ex-comunisti dell’Asia Centrale. Il Pentagono ha cercato di rafforzare la presenza USA nella regione, ed è riuscito ad attirrare quattro dei cinque paesi dell’Asia centrale nel Partenariato per la Pace della NATO, nel 1994.

Un potenza diventerebbe padrona dell’Eurasia controllando due delle tre regioni più sviluppate e dinamiche del mondo, dal punto di vista economico”. Zbigniew Brzezinski, La Grande Scacchiera (The Grand Chessboard, p. 31).

Le operazioni tattiche degli Stati Uniti volte a garantirne la presenza strategica in Asia centrale, sono state attuate ben prima della caduta dell’URSS, compresa la formazione dei radicali militanti islamici – tra cui Usama bin Ladin e di altri mujahiddin afghani addestrati dalla CIA. Il sostegno degli Stati Uniti a questi gruppi, aveva lo scopo di destabilizzare ulteriormente l’Unione Sovietica stessa. Infatti, nel 1980, la CIA ha organizzato l’armamento dei Mujahidin: l’operazione nome in codice ‘Ciclone’ [1], aveva per scopo l’esaurimento delle forze sovietiche già indebolite e sovra-estese [2]. Questa operazione rimane ancor oggi la più grande e più costosa mai intrapresa dalla CIA. Il giornalista veterano pakistano Ahmed Rashid, ha dato la sua descrizione della stretta relazione tra i mujahiddin e la CIA, nel periodo durante il quale l’Agenzia sosteneva Usama bin Ladin:

“Tra il 1982 e il 1992, circa 35.000 musulmani da quaranta paesi musulmani ingrossarono le fila del Jihad in Afghanistan, incoraggiati dalla CIA e dall’intelligence Pakistana (ISI – Inter-Services Intelligence: Direzione per l’Intelligence Inter-Servizi), che volevano trasformare il jihad afghano in una guerra globale di tutti i paesi musulmani contro l’Unione Sovietica. Decine di migliaia di altri andarono a studiare nelle madrasse pakistane. In definitiva, si può ritenere che più di cento mila musulmani islamisti hanno subito una diretta influenza del jihad in Afghanistan“[3].

Il modello CIA-Mujahidin si dimostrò così efficace in Afghanistan contro l’Armata Rossa, che venne applicato alle reti di mujahidin jihadisti infiltratisi in Cecenia negli anni ‘90. Contando sulla presenza di una popolazione sunnita dalle forti richieste d’indipendenza e quelle degli oleodotti di epoca sovietica, essenziali per il commercio attuale, il secondo conflitto ceceno destabilizzò ulteriormente lo Stato russo, durante il periodo dei disordini sotto Boris Yeltsin [4].

Il programma di lungo termine del Pentagono per l’Asia centrale

Nel 2003, Ariel Cohen – un esperto russo, consulente al Pentagono del think tank finanziato dal settore della difesa, Heritage Foundation [5] – ha testimoniato davanti al Senato USA: “Dopo il fallimento del 2001, gli Stati Uniti pianificarono l’invio di forze aeronavali e di forze speciali, in Asia centrale…”[6].

Ariel Cohen ha confermato che, in realtà, le attività del Pentagono nei paesi post-comunisti in Asia centrale, tra cui Kirghizistan e Uzbekistan, era cominciata ben prima della guerra contro il terrorismo, lanciata dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Ha anche affermato, al Senato, che: “Il Generale Anthony Zinni, l’allora capo del Comando Centrale USA, responsabile della zona dell’Asia centrale, ha cominciato a stabilire contatti alla metà degli ‘90. Parlando nell’anonimato, alcuni funzionari del Pentagono hanno affermato che, anche se gli Stati Uniti non cercassero di installare una base militare permanente, la questione della presenza americana era ancora aperta.” [7].

Cohen, esperto di Asia e di Russia, ha continuato le sue rivelazioni circa lo scenario reale delle attività degli Stati Uniti in Asia centrale: “I responsabili politici e i funzionari hanno sviluppato diverse alternative per organizzare la razionalizzazione della presenza degli Stati Uniti, all’epoca e in futuro. Avrebbero riesumato il programma complessivo su queste linee guida: proteggere le risorse energetiche e la rete di pipeline; soffocare l’insurrezione dei ribelli fondamentalisti islamici in Asia centrale; impedire l’egemonia cinese e/o russa nella zona, facilitando la democratizzazione e le riforme capitalistiche e, infine; esecuzione del piano per installare gli Stati Uniti, favorendo l’uso di aree di rifornimento in Asia centrale come basi per sostenere lo sforzo bellico in Afghanistan. Inoltre, l’Asia centrale era vista come un trampolino di lancio per future operazioni in Iraq e in Iran.”[8].

In breve, l’agenda del Pentagono per l’Asia centrale si estende sul lungo periodo, e si basa su una strategia per incrementare l’occupazione e la militarizzazione di tutta la regione. In favore del Pentagono, l’instabilità e i sentimenti anti-USA, causati dall’occupazione degli Stati Uniti e dai bombardamenti mortali contro i civili, pakistani e afgani, hanno anche fornito un eccellente pretesto per intensificare la militarizzazione USA dell’Asia centrale. Tutto questo è accaduto con la scusa delle missioni di “peacekeeping“, sotto l’egida della ISAF (NATO International Security Assistance Force).

L’inquietudine e instabilità generate dalle operazioni militari statunitensi, e occidentale in generale, servono a giustificare la presenza delle “forze di pace“. Questo piccolo segreto molto imbarazzante, si nasconde dietro la terminologia delle operazioni di mantenimento della pace, sia che la NATO agisca direttamente in Afghanistan e in Kosovo, o che l’ONU intervenga, come ad Haiti dal 2004 o in Sudan dal 2007 (due paesi con ricche risorse di petrolio), o come nella Repubblica democratica del Congo (ricca di minerali) dal 1999.

Cohen ha riferito in merito alle analisi da lui svolte, in quasi sette anni, nell’ottobre 2003, dopo sei mesi di occupazione degli Stati Uniti in Iraq, che si prometteva permanente. Giapponesi e tedeschi possono testimoniare la difficoltà di liberarsi della presenza militare degli Stati Uniti, una volta che si siano installati. La strategia degli Stati Uniti in Asia centrale non ha nulla a che fare, pare, con la recente risorgenza dei taliban. Tutto era già previsto. La strategia degli Stati Uniti è parte di ciò che il Pentagono chiama “Full Spectrum Dominance” (Dominio totale globale), vale a dire il controllo totale di terra, mare e aria.

Nell’aprile 2009, il generale David Petraeus, capo del Comando Centrale USA (responsabile non solo per l’Afghanistan, ma anche di Pakistan Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e altri paesi ex comunisti) ha affermato, davanti al Senato degli USA: “Mentre l’Asia centrale ha ricevuto meno attenzione rispetto ad altre sub-regioni, nell’ambito del Comando Centrale, gli Stati Uniti hanno mantenuto un fermo impegno a stabilire rapporti duraturi di cooperazione con i paesi dell’Asia centrale, e con le altre grandi potenze della regione, per ristabilire la sicurezza nella zona.”[9].

Petraeus ha poi presentato le questioni reali su cui si concentra il vero interesse del Pentagono e della Casa Bianca: “Situata tra Russia, Cina e Sud-Est asiatico, l’Asia centrale occupa una posizione centrale strategica in Eurasia. Questo ne fa una grande area di transito per il commercio regionale e internazionale, e per il rifornimento delle forze della coalizione in Afghanistan.”[10]. [Il corsivo è aggiunto da autore]

Le osservazioni di Petraeus sono una versione alleggerita dei reali interessi strategici di Washington e del Pentagono, nella regione. L’Asia centrale è il fulcro della strategia globale del Pentagono – proprio come lo era per la Gran Bretagna un secolo prima. Questo vale per l’Asia centrale e l’impero – l’impero statunitense, quello del “nuovo secolo americano“; l’impero, o come trionfalmente annunciato da George H. W. Bush nel 1990, dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica, il Nuovo Ordine Mondiale.

Quando descriveva l’Asia centrale come perno in Eurasia degli interessi degli Stati Uniti, Petraeus assumeva in modo rivelatore, le parole scelte dal britannico Sir Halford Mackinder, il padre della geopolitica. Come gli inglesi un centinaio di anni fa, il Comando Militare USA è ben consapevole delle articolazioni geostrategiche della regione [11].

Non si riuscirebbero a capire gli interessi USA in Kirghizistan, se non mettendoli nel contesto del Grande Gioco, perpetuato dal Pentagono nella sua strategia geopolitica eurasiatica, mirata a militarizzare la zona che ne è il perno, l’Heartland (World Island), nella terminologia di Mackinder.

Inoculare il cancro in Asia centrale

E’ chiaro che l’attuale fase di questa guerra, non dichiarata e asimmetrica, degli Stati Uniti, si basa su una ben orchestrata strategia. Questa strategia mira a generare conflitti e insurrezioni in tutta l’Asia centrale – una zona di guerra il cui cuore è in Afghanistan e in Pakistan, che sarebbe ricaduta in Iran e poi in Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan, colpendo, infine, la Russia e, attraverso la provincia di confine dello Xinjiang con il Kirghizistan, la Cina.

La tattica adottata per estendere la militarizzazione sostenuta dagli Stati Uniti, è quella di fomentare le rivolte tribali locali, perpetrando deliberatamente atrocità di ogni genere, soprattutto sui civili, per terrorizzare le popolazioni locali e per incoraggiare disperati atti di resistenza – in breve, una strategia deliberata di crimini di guerra, assunta ufficialmente.

Questa strategia è intesa a evitare al Pentagono di esporre le truppe in prima linea, cosa che non le ripugna; e che non si spiega con la precisione migliorata degli attacchi aerei condotti da droni telecomandati, in confronto con i bombardamenti dai velivoli convenzionali. Ciò consiste, in modo voluto, nell’alimentare l’insurrezione e a suscitare risposte armate alle atrocità e alle altre azioni inumane e illegali commesse dagli Stati Uniti e dalla NATO. Iscrivendosi nella logica della guerra al terrorismo, questa strategia giustifica la promozione dell’ulteriore espansione della presenza della NATO. Con questa strategia, si alimenta una guerra che non potrà mai essere vinta e, di conseguenza, fornire un alibi per la presenza costante di USA e NATO.

Oggi appare evidente a molti analisti perspicaci, che la guerra contro il terrorismo è una farsa. Una farsa dal diabolico intento, tuttavia, un modo per Washington per giustificare la militarizzazione delle zone di conflitto, passo dopo passo, con il Pentagono che amplia la sua area di influenza in tutto il mondo, secondo la sua strategia del “Full Spectrum Dominance“.

Con la sua offensiva propagandistica lanciata 11 Settembre 2001, l’Islam radicale jihadista ha sostituito, con successo, il nemico rosso sovietico nella mente della maggior parte degli statunitensi. Grazie a questo sofisticato e cinico inganno ideologico, questi statunitensi sono convinti di mandare i propri figli a morire per una causa nobile, quella della “vittoria sul terrorismo“.

Dal momento dell’avvento della amministrazione Obama, nel gennaio 2009, la guerra condotta dagli Stati Uniti si è estesa in tutto il territorio pakistano confinante con l’Afghanistan, centimetro dopo centimetro, villaggio dopo villaggio, cadavere dopo cadavere, senza nessun’altra reazione da parte del Presidente pakistano Asif Ali Zardari, che deboli proteste pubbliche.

Il presidente pakistano Asif Ali Zardari, sullo sfondo il ritratto di sua moglie, Benazir Bhutto, assassinata nel 2007.

Zardari è il marito di Benazir Bhutto, assassinata nel 2007. Secondo un’inchiesta del Senato degli Stati Uniti, Zardari ha beneficiato personalmente, negli anni ’90, dei fondi pubblici per un importo di 1,5 miliardi di dollari, come ministro per lo sviluppo, mentre la moglie era primo ministro, e questo gli valse il soprannome di “Mr. 10%“, in riferimento alle compensazioni richieste per facilitare la conclusione di accordi per lo sviluppo. Avrebbe fatto fuoriuscire dei fondi illegalmente e li avrebbe messi in conti privati della Citibank, nascosti in Svizzera e in Dubai. Non sorprende che le autorità statunitensi dell’epoca avessero bloccato l’inchiesta [12].

Oggi, Zardari sembra rassegnato ad accettare la presenza militare degli Stati Uniti nel suo paese. Forse perché gli Stati Uniti sono in grado di ricattarlo, minacciando di rivelare i dettagli delle sue transazioni passate con la Citibank [13].

Viene attribuito a Zalmay Khalilzad, un neo-conservatore statunitense-afgano che ha contribuito a organizzare la guerra in Afghanistan sotto l’amministrazione Bush, la scelta del suo vecchio amico Hamid Karzai alla carica di presidente dell’Afghanistan, un burattino nelle mani di Washington [14]. Khalilzad ha svolto un ruolo centrale nel sostegno degli Stati Uniti a Zardari, in occasione delle elezioni presidenziali del 2008, quando Musharraf apparve sempre meno affidabile agli occhi di alcuni, a Washington. [15]

Come presidente, Zardari è riuscito a ritardare l’azione d’istituzione di un’agenzia nazionale per la lotta contro il terrorismo [16], un atteggiamento che è del tutto appropriato all’agenda del Pentagono. Quasi dieci anni dopo l’inizio della guerra contro il terrorismo, in cui il Pakistan ha un grande ruolo, il paese soffre ancora dell’assenza di un’efficace strategia contro il terrorismo. Zardari ha recentemente lanciato a Dennis Blair, ex Direttore della National Intelligence di Barack Obama, una “richiesta di aiuto.” [17].

Con l’estensione della guerra in territorio pakistano, tra l’altro, i droni della CIA bombardano i civili, con il pretesto di combattere i taliban; gli USA hanno compiuto una manovra sottile linguistica, popolarizzando il termine Afpak per descrivere la zona del conflitto. Acronimo il cui utilizzo comporta l’accettazione che il conflitto dichiarato è stato esteso con successo in Pakistan.

La prossima fase di espansione della guerra in Eurasia coinvolge Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan. La valle di Ferghana, che copre i tre paesi, è il perno attorno al quale i conflitti scoppieranno e da cui gli Stati Uniti e la NATO assumeranno il controllo di tutta l’Asia Centrale. Pertanto, la sfida strategica della presenza statunitense nella regione, è fondamentale.

L’estensione della guerra attraverso la NDN (Rete di Distribuzione del Nord)

Nel contesto di questa strategia, è di vitale importanza, per gli Stati Uniti, concludere accordi con i governi di Kirghizistan e Uzbekistan sulla rete settentrionale dei rifornimenti in Afghanistan. Questa nuova strada è stata nominata Rete di Distribuzione del Nord (NDN Northern Distribution Network), un nome innocuo che nasconde tutt’altre realtà. In questa area altamente strategica dell’Heartland eurasiatico, la NDN è essenziale per l’espansione della presenza militare degli Stati Uniti e delle forze militari della NATO, designate dall’eufemismo “NATO International Security Assistance Force” (ISAF). E la presenza Usa in Kirghizistan è essenziale per lo sviluppo del NDN. La rete di distribuzione nel Nord implica una serie di disposizioni logistiche per collegare i porti del Mar Baltico e del Mar Caspio all’Afghanistan, attraverso la Russia, l’Asia centrale e il Caucaso. In aggiunta alla vasta rete NDN, gli Stati Uniti iniziano a prendere in considerazione lo sviluppo di reti di transito attraverso l’Iran e la Cina, per aprire una breccia alla logistica del Pentagono, intrusione preliminare a ben altro, in questi paesi ostili al regime di Washington.

La rete di distribuzione del Nord è un sogno troppo bello per essere vero: un insieme di meccanismi che costano pochi milioni di dollari in tasse per il trasporto, ma che può penetrare in profondità nel continente eurasiatico. Il flusso di materiale bellico e truppe utilizzando questa rete in espansione, promette di essere denso. Con il rafforzamento della presenza statunitense in Afghanistan, dopo la politica del surge di Barack Obama, la previsione della domanda in rifornimenti non-militari, per gli anni 2010 e 2011, mostra un incremento tra il 200 e il 300% rispetto al 2008 [18].

Richard Holbrooke (a sinistra), l’inviato speciale Usa per l’Afghanistan e il Pakistan, con Hamid Karzai, il presidente dell’Afghanistan.

Richard Holbrooke, l’inviato speciale Usa per l’Afghanistan e il Pakistan, ha visitato i paesi chiave dell’Asia Centrale nel febbraio scorso, per rafforzare i legami con i paesi attraversati dalla NDN, tra cui il Kazakistan, Uzbekistan e Kirghizistan [19].

Durante la sua visita in Kirghizistan, Holbrooke avrebbe probabilmente richiesto un incontro segreto, nella base aerea di Manas, con i membri del Movimento islamico dell’Uzbekistan, una organizzazione ufficialmente dichiarata una “organizzazione terroristica straniera” nel 2002, dal Dipartimento di Stato, di cui Holbrooke è un funzionario [20].

Pare che questo incontro avesse per scopo quello di concentrarsi sulle operazioni per attivare il sabotaggio, da parte dei guerriglieri, delle strutture del nuovo gasdotto che collega Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Cina (TUKC) [21]. Se fosse vero, questo confermerebbe che la realtà oggettiva del posizionamento geopolitico delle forze Usa nella base di Manas, in Kirghizistan, è vicina a interrompere il flusso di energia indispensabile per la Cina e per tutta l’Eurasia, con il pretesto degli attacchi terroristici. Si tratta delle classiche operazioni sotto falsa bandiera, in cui i mandanti reali si nascondono dietro falsi mandanti [22].

Il giudice Paul Quinn, direttore dell’International Crisis Group in Asia centrale, ha dichiarato recentemente al Time, che i flussi crescenti dei rifornimenti militari sulle vie di comunicazione del Kirghizistan e dell’Asia centrale provocherà attacchi ai convogli da parte di gruppi ribelli, come il Movimento islamico dell’Uzbekistan e l’Unione della Jihad islamica. Ha aggiunto: “Il problema con la rete di distribuzione nel Nord è chiaro: l’area del conflitto rischia di estendersi in tutto l’Asia Centrale.” [23].

E’ significativo che nel marzo 2009, Barack Obama abbia stanziato circa 5,5 milioni dollari di aiuti al governo Bakiev, per costruire un centro di addestramento antiterrorismo nel sud del Kirghizistan. Ciò costituirebbe la seconda grande presenza diretta nel paese, e anche una base ideale per esportare la guerra.

Il fatto che la politica estera segreto del Pentagono e della CIA, consiste in parte nell’uso dei militanti islamici, è dimostrato. I consiglieri che addestrano i terroristi, addestrano anche gli anti-terroristi. Questo può sembrare una politica stranamente contraddittoria, ma ci si sarebbe dimenticati l’essenza della tattica di guerra statunitense e britannica, attivamente applicata dai primi anni ‘50.

Guerre di bassa intensità e guerre di mantenimento della pace

Questa particolare strategia è stata chiamata “guerra di bassa intensità” (Low Intensity Warfare) da parte del funzionario britannico Frank Kitson. Ha sviluppato e affinato il suo metodo per riavere il sopravvento in aree assoggettate, come la Malesia e il Kenya, durante la rivolta dei Mau Mau e le lotte per l’indipendenza, e poi in Irlanda del Nord.

Questo concetto di guerra a bassa intensità, come definito da Kitson [24], comprende l’uso dell’inganno, l’infiltrazione di agenti e doppi agenti, e anche azioni provocatorie di disertori infiltrati nei movimenti popolari legittimi, come è accaduto con i movimenti anti-coloniali dopo il 1945.

Questa tattica è chiamata anche banda/antibanda. L’idea di base era che l’agenzia di intelligence o la forza di occupazione militare in questione – l’esercito britannico in Kenya o la CIA in Afghanistan – controlla in realtà le operazioni di entrambe le parti di un conflitto interno, creando così piccole guerre civili tra bande. L’obiettivo risiede nella divisione di tutti i movimenti legittimi, fornendo così l’alibi per convogliare ulteriori rinforzi militari, così come gli Stati Uniti fanno con la NATO International Security Assistance Force (ISAF) una missione al nome ingannevole [25].

Nel suo corso all’US Air War College, sull’azione militare degli Stati Uniti dopo la guerra del Vietnam, Grant Hammond si riferisce chiaramente alla guerra di bassa intensità, altrimenti detta “operazione di mantenimento della pace“, definendola la “guerra di cui non si dice il suo nome” [26].

Infatti, secondo numerosi rapporti dall’Iraq, dopo l’invasione statunitense dell’Afghanistan, nel 2003, le forze speciali britanniche e statunitensi hanno segretamente armato i terroristi cosiddetti antigovernativi, di Iraq e Afghanistan, che beneficiavano del sostegno degli Stati Uniti. Questo significa armare i taliban, mentre si spendono milioni di dollari per armare i combattenti dall’anti-terrorismo locale [27]. Se fosse vera, questa sarebbe la consacrazione della metodologia sviluppata da Kitson.

All’interno delle forze speciali che armano gli insorti, e più grave, vi sono anche mercenari privati e uomini appartenenti alle compagnie militari private, come la Blackwater (recentemente rinominata Xe, dopo la rivelazione del suo coinvolgimento flagrante in assassini di civili, in Iraq).

Sull’addestramento della polizia…

Al centro di questa strategia per estendere dall’Afghanistan la guerra di bassa intensità in tutta l’Asia Centrale, vi è che il nuovo programma di “addestramento” della polizia afgana, il cui scopo ufficiale è quello di ripristinare l’ordine. Secondo un recente sondaggio, meno del 20% della popolazione delle province orientali e meridionali dell’Afghanistan ha fiducia nelle forze di polizia addestrate dagli Stati Uniti. Un tassista notava: “I talebani, non ci interessano, è la polizia ci inquieta” [28].

Jeremy Kuzmarov, uno molto prolifico storico statunitense sull’esercito degli Stati Uniti, ha analizzato in dettaglio gli oltre cento anni di schema consapevolmente adottato dagli Stati Uniti come parte delle politiche di addestramento nazionali. Per lui, questi addestramenti, a priori banali e di routine, sono il modo più efficace per gli Stati Uniti di garantire ai loro regimi clienti la fedeltà degli apparati di sicurezza interni, permettendo loro di consolidare il potere e di soffocare il dissenso politico. Spiega:

Con l’estensione della guerra in Afghanistan e Pakistan, l’amministrazione Obama si è concentrata sui programmi di addestramento della polizia. L’obiettivo dichiarato è quello di garantire la sicurezza della popolazione, così che le forze locali siano in grado di riprendere progressivamente il processo di pacificazione. La stessa procedura è stata usata dagli Stati Uniti in Iraq. In entrambi i casi, gli uomini addestrati dagli Stati Uniti sono colpevoli di violenza religiosa, esecuzioni sommarie e torture. Allo stesso tempo, le armi e le attrezzature che gli Stati Uniti gli forniscono finiscano frequentemente nelle mani dei ribelli, molti dei quali sono infiltrati nelle forze armate ufficiali. Tutto ciò ha contribuito a prolungare questi conflitti.” [29].

L’ultimo punto è essenziale: la repressione è l’arma fondamentale della guerra di bassa intensità (e irregolare) sostenuta dagli Stati Uniti, oltre ad essere una leva per l’esercizio del potere. In Afghanistan, la repressione serve a rafforzare il conflitto interno e la resistenza finché la presenza militare degli Stati Uniti diventi intollerabile per il popolo. In cambio, lo sviluppo della resistenza è usato per giustificare tale estensione della guerra; è il surge di Obama. È un processo che si autoalimenta, un obiettivo degli Stati Uniti dalla fine dell’era sovietica.

Secondo Kuzmarov, la polizia afgana, disprezzata e temuta, è manipolata dai signori della guerra tribali pagati dalla CIA. Le operazioni ordinarie consistono nell’attaccare a caso i checkpoint, sparare contro manifestanti disarmati, privare i piccoli agricoltori della loro terra, terrorizzare la popolazione civile mediante la realizzazione di una guerra di ripulitura, attaccando sistematicamente le case, durante i raid che gli USA e la polizia afgana che addestrano, attuano. Kurmazov continua: “Questo tipo di abuso corrisponde a modelli osservati in passato, e sono il risultato di conflitti etnici e della polarizzazione sociale, aggravata dalla presenza degli Stati Uniti e dalla mobilitazione delle forze di polizia per fini politici e militari.” [30]. Ciò ricorda l’Operazione Phoenix degli Stati Uniti in Viet Nam.

Una iniziativa dubbia: l’Iniziativa di Difesa della comunità (Community Defense Initiative)

Negli ultimi mesi, il capo del comando Usa in Afghanistan, Robert McChrystal, è riuscito a spendere 1,3 miliardi di dollari per finanziare le milizie ‘anti-taliban’ in quattordici aree del paese. Questo programma è così segreto che McChrystal si rifiuta di rivelarne i dettagli ai suoi alleati della NATO, benché sia anche il comandante delle operazioni dell’ISAF in Afghanistan. Ma chi può distinguere chi è un taliban da un anti-taliban, tra queste bande, armate dagli Stati Uniti, che attaccano le forze della NATO? Il giornale del Pentagono ed i suoi giornalisti affiliati, senza dubbio, ci danno la risposta [31].

Questo programma d’iniziativa per difendere la comunità non è stato battezzato con questo innocente eufemismo, per caso. Sarebbe stato preso incarico dal nuovo “gruppo di forze speciali” (Special Forces Group) che fa capo direttamente a McChrystal, in quanto a capo del comando USA in Afghanistan. Nonostante il fatto che McChrystal sia a capo della missione NATO in Afghanistan (la molto ufficiale ISAF), gli altri membri sono tenuti all’oscuro delle operazioni che si occupano specificatamente della questione dell’armamento delle milizie locali, con l’Iniziativa di Difesa della comunità. Questo è abbastanza rivelatore [32].

Forse, questi scontri con gli alleati della NATO, si spiegano in parte nella loro strenua opposizione a tale approvvigionamento di armi a vantaggio delle milizie locali.

McChrystal avrebbe esternalizzato l’organizzazione delle operazioni di milizie locali. E’ Arif Noorzai che se ne è preso la responsabilità, è un politico molto controverso della provincia di Helmand, la prima regione per produzione di oppio, in tutto il mondo. Nessuno si fida di Arif Noorzai, per dirla senza mezzi termini. Questi fondi e le forniture di armi sembrano pienamente compatibili con la strategia del surge guidata da Petraeus.

Il 19 maggio, il servizio stampa del Pentagono ha annunciato che i ribelli avevano portato un pesante attacco contro la base fortificata di Bagram, in Afghanistan, con razzi, granate e altre armi. Ci furono sette soldati statunitensi feriti e molti ribelli uccisi. Il giorno prima, un gruppo di kamikaze ha attaccato un convoglio militare statunitense a Kabul, uccidendo diciotto persone, tra cui cinque soldati statunitensi. I funzionari del Pentagono hanno riferito che i taliban avevano rivendicato l’attacco [33].

Noi qui abbiamo descritto i fatti così come sono visibili alla superficie. Ciò che è assolutamente chiaro, è la natura di questi “ribelli“; sono parte di quelle migliaia di civili reclutati da Arif Noorzai, a nome della così equivocata Iniziativa di Difesa della comunità, o si tratta realmente di afgani che resistono agli assalti e alle atrocità perpetrate dagli Stati Uniti? Le ragioni per la rivendicazione di questi attacchi, da parte dei taliban, sono poco chiare e potrebbero essere una manovra di opportunismo politico da parte loro, un trucco per apparire più forti di quello che realmente sono, agli occhi degli altri afgani.

Si tratta di una pratica ben nota del Pentagono, di assumere società private militari in Afghanistan e altrove, per eseguire gli ordini a cui le forze armate statunitensi, nel rispetto della legge, non possono obbedire: è la privatizzazione della guerra, se si vuole. Recentemente il New York Times ha rivelato l’uso illegale e segreto, da parte del Pentagono, di società private militari attraverso la Lockheed Corporation – dei raggruppamenti dai diversi nomi, quali: Alternativa per influenzare la politica o American Society of International Security – per condurre operazioni segrete in Afghanistan orientale, e al di là del confine con il Pakistan. Questa rete, che utilizza mercenari americani, afgani e pachistani, sarebbe controllata da un ex agente della CIA ed esperto dell’anti-terrorismo, Duane “Dewey” Clarridge, che ha giocato un ruolo importante nelle operazioni di traffico di droga con i gruppi armati dei Contras, in Nicaragua negli anni ’80. [34]

Armare le milizie afgane, schierare le unità mercenarie d private di origine afgana o pakistana, non soggette alle norme della Convenzione di Ginevra o alle leggi dell’Afghanistan, e guidate da veterani dei servizi segreti statunitensi, in ciò consiste la ricetta che può portare all’accensione di nuove aree di conflitto. Gli archivi del comando Usa in Iraq e anche in Afghanistan, oggi, suggeriscono che la loro intenzione è proprio utilizzare la guerra di bassa intensità come strategia per estendere la guerra, con il pretesto della “missione di mantenimento della pace” della NATO.

La soluzione sta nella rete di distribuzione del Nord

Attualmente, gli Stati impegnati nella rete di distribuzione del Nord, sono la Lettonia, un Paese membro della NATO e paese ex-comunista, il petrolifero e sottomesso agli Stati Uniti Azerbaigian, lo stato fantoccio della Georgia, Kazakistan, Russia, Tagikistan e Uzbekistan. In un esercizio di stile linguistico, degno di un romanzo di Orwell, il Pentagono ha cambiato la definizione delle basi militari impiegate nei conflitti, in centri di transito. Sono ancora basi militari Usa, nonostante il cambio della definizione.

Il ruolo della Russia nella Rete di Distribuzione del Nord è complesso. Mosca ha facilitato la costruzione di una ferrovia che è l’arteria principale della NDN e si estende dalla Lettonia al confine tra l’Uzbekistan e l’Afghanistan. Il governo Putin ha, inoltre, lavorato con l’amministrazione Obama a questo riguardo, i Russi hanno accettato il sorvolo del loro territorio da parte di cargo di materiali letali. Le società russe, che si dibattevano nelle turbolenze dei mercati finanziari della crisi globale per rimanere a galla, improvvisamente hanno beneficiato di contratti di logistica con il Pentagono, e hanno guadagnato decine di milioni di dollari, di cui hanno disperatamente bisogno. Eppure, allo stesso tempo, Mosca ha cercato di convincere il governo Bakiyev del Kirghizistan, a ritirare agli Stati Uniti il diritto di accesso alla base di Manas [35]. Su questo punto, Mosca ha fallito.

Inoltre, la Rete di Distribuzione del Nord offre a Washington una flessibilità sempre più importante, rispetto alle economie sottosviluppate e instabili dell’Asia centrale. Gli accordi di transito legano economicamente i vettori locali agli Stati Uniti. Questi vettori stanno vedendo indebolire i loro legami con la Russia, in molti casi, dove si creano gruppi di interesse per continuare la cooperazione con la NATO. E’ facile immaginare le potenzialità che ha la rete di distribuzione nel Nord nel creare una cooperazione economica regionale antagonista all’Organizzazione del Trattato di Shanghai. Le società russe raccolgono da sole oltre un miliardo di dollari all’anno, in contratti necessari al Pentagono per inviare rifornimenti militari tramite la Russia e la Rete di distribuzione del Nord [36].

Se gli Stati Uniti riusciranno a militarizzare l’Asia Centrale dall’Afghanistan, sarebbe uno scacco matto, in effetti, essi sarebbero in grado di impedire a una serie di stati di opporsi al programma Full Spectrum Dominance del Pentagono. La capacità delle Nazioni Sudamericane (dal Venezuela alla Bolivia, dal Brasile a Cuba) di seguire un programma politico ed economico indipendente dai dettami di Washington, sarebbe spazzata via. La capacità della Cina di creare una zona economica stabile in Asia, al riparo dal pericolo del crollo del dollaro, scomparirebbe. In Russia scoppierebbero violenti disordini civili, mano a mano che conflitti tribali, etnici e religiosi si estendano negli Stati del blocco ex comunista, come una nuova Guerra dei Trent’Anni. Anche la posta in gioco per Washington, negli eventi del Kirghizistan, che sembrano così distanti, ha una fondamentale importanza geopolitica.

L’NDN e il “centro anti-terrorismo” di Batken

In questo contesto, il nuovo centro di addestramento all’anti-terrorismo in Batken, in Kirghizistan, è di vitale importanza per la Grande Strategia che condurranno in futuro gli Stati Uniti, nel cuore dell’Asia centrale. Il centro di addestramento è stato costruito su iniziativa dell’amministrazione Obama per formare unità delle Forze Speciali, denominate ‘Scorpion’, “per condurre operazioni contro la droga e il terrorismo“. Questa base di addestramento è un ancoraraggio con cui controllare tutta la regione eurasiatica, dalla Russia, attraverso il Kazakistan, alla Cina.

Il 17 marzo 2010, il Ministro della Difesa del governo Bakiev, ora deposto, ha fatto una dichiarazione riguardo il centro di addestramento nella provincia di Batken (Batken Oblast). Egli credeva che la sua costruzione fosse “un progetto basato sulle relazioni bilaterali tra Kirghizistan e gli Stati Uniti, e che il suo scopo [era] di lottare contro il terrorismo internazionale, l’estremismo religioso, la criminalità internazionale e il traffico di droga. Secondo il ministro, il progetto non è “diretto contro un paese terzo”, e non entra in conflitto con gli obblighi del Kirghizistan verso l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva e le altre organizzazioni internazionali.” [37]

Fonti anonime del ministero della Difesa del Kirghizistan prevedevano che i soldati ‘anti-terroristi’ del Kirghizistan, addestrati dagli Stati Uniti, fossero impiegati in eventuali “conflitti locali” – e specificamente con l’Uzbekistan. Ciò dovrebbe fornire un’ottima scusa per estendere il conflitto orchestrato dagli Stati Uniti nella Valle del Ferghana, una zona altamente strategica.

Il ministro della difesa del Kirghizistan ha aggiunto che la costruzione del campo di addestramento statunitense nella provincia di Batken, è stata “uno dei tanti progetti comuni tra Kirghizistan e gli Stati Uniti” nel campo militare, e faceva parte delle “relazioni di cooperazione tra i due Paesi su questioni militari, identificate dal programma di finanziamento militare estero del Pentagono (Foreign Military Financing, FMF) dal 1996.” [38]

Alcuni esperti di strategia militare in Cina e in Russia, che l’autore ha incontrato privatamente, ritengono che l’addestramento di soldati nazionali da parte degli Stati Uniti, soddisfa certe intenzioni del Comando Centrale USA: in primo luogo, l’espansione della presenza militare degli Stati Uniti e della NATO sulle rotte di comunicazione strategiche dell’Asia centrale, quindi il posizionamento delle forze per influenzare l’evoluzione dei negoziati politici ed energetici in Eurasia, dalla Russia alla Cina.

Zbigniew Brzezinski, il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter, ritiene che l’area eurasiatica sia l’unica area che raggruppa paesi in grado di sfidare l’egemonia statunitense.

Brzezinski è un protetto di David Rockefeller e un seguace del geopolitico britannico Mackinder. Nel 1997, ha scritto queste righe:

Gli Stati Uniti sono ora l’unica superpotenza globale, ed è in Eurasia che si gioca tutto. Pertanto, la distribuzione del potere nel continente eurasiatico sarà di importanza fondamentale per la supremazia degli Stati Uniti e per il suo retaggio storico … Fino a quando i segnali giunti dall’Europa e dall’Asia sono incoraggianti, ogni politica degli Stati Uniti, per avere successo, deve concentrarsi sull’Eurasia e considerare il continente nel suo complesso. Le politiche devono essere guidate principalmente da una strategia globale di geopolitica… Per questo, la priorità è quella di praticare l’inganno e la manipolazione per prevenire l’emergere di una coalizione ostile che potrebbe tentare di soppiantare il dominio degli Stati Uniti.” [39]

Nel suo libro più rivelatore del suo pensiero, Brzezinski continua:

Il compito più urgente è quello di garantire che nessuna nazione o gruppo di nazioni, si arroghi la capacità di cacciare gli Stati Uniti dall’Eurasia o a ridurne il ruolo di arbitro nella regione.” [40]

Alla luce di questa corrente di pensiero, alcuni fatti s’illuminano in maniera diversa:

Nel gennaio 2009, il capo del Comando Centrale USA, il generale David Petraeus, ha annunciato che gli accordi sulle vie di comunicazione era stato firmato con la Russia, il Kazakistan e l’Uzbekistan.

Nel marzo 2009, il governo uzbeko ha permesso il trasferimento dei soldati statuitensi in Afghanistan con gli aerei della Luftwaffe, dalla base militare tedesca di Termez.

Nel maggio 2009, gli Stati Uniti hanno creato un centro di approvvigionamento nell’aeroporto di Navoi, in Uzbekistan, dove le operazioni di transito sono gestite da un’azienda sud-coreana.

Nel giugno 2009, il contratto di utilizzo della base aerea di Manas è stato prorogato, mentre il Kirghizistan aveva precedentemente e ripetutamente annunciato che gli Stati Uniti sarebbero stati costretti a lasciarla nell’agosto 2009.

Infine, nel luglio 2009, è stato rivelato pubblicamente che l’US Air Force stava conducendo una modesta operazione di rifornimento, in attrezzature e combustibile, da una località sconosciuta situata in Turkmenistan [41].

Gli strateghi del Pentagono si sono dedicati al progetto della rete di distribuzione del Nord a partire dall’inizio del 2006, mentre poche informazioni sono filtrate circa l’insurrezione dei taliban e l’offensiva militare che stava perdendo slancio. E’ facile vedere che la presenza statunitense in Afghanistan è in crescita, e le operazioni delle milizie ribelli s’intensificato pure. L’abbiamo già notato, e questa correlazione non è casuale. A poco a poco, passo dopo passo, le autorità statunitensi hanno chiesto di stipulare accordi per i diritti di transito con stati importanti, come la Russia, e altri paesi confinanti con l’Afghanistan.

In generale, gli accordi bilaterali passerebbero inosservati. Hanno preso la loro forma definitiva nel 2008, in quello che il Pentagono ha ora chiamato la Rete di Distribuzione del Nord. Una rapida occhiata alle immagini satellitari da Google Maps o della National Oceanic e Atmospheric Administration (NOAA) rende perfettamente esplicita l’importanza della NDN.

Un cargo militare in transito attraverso il NDN può partire da uno dei due hub occidentali, in Lettonia e Georgia. Iniziando da una di queste aree sicure, si ci trasferisce in Afghanistan con il treno, camion, traghetto attraversando la Russia e i suoi stati ex-satelliti: sia il Kazakistan che le Repubbliche del Kirghizistan e del Tagikistan, Uzbekistan neanche. Le dichiarazioni ufficiali giustificano i percorsi proposti con la necessità di avere vie d’accesso sicure in Afghanistan, evitando che si attraversi il Pakistan [42].

E’ un destino molto ironico per Riga, capitale della Lettonia, che è diventata punto di partenza della via più importante della NDN. Questo porto sul Mar Baltico, dal clima mite tutto l’anno, è ora utilizzato per trasferire carichi dai cargo noleggiati dagli Stati Uniti nei treni russi. Dopo la Russia, la rete ferroviaria si estende a sud e attraversa il Kazakistan e l’Uzbekistan, lungo le coste del Mar Caspio, e finisce nel nord dell’Afghanistan. Le ferrovie russe sono state costruite dall’URSS per sostenere il suo sforzo bellico in Afghanistan nel 1980; e oggi, animata dalla sua disponibilità a collaborare con gli USA e la NATO, la Russia mette loro a disposizione la rete ferroviaria in modo che possano condurre la loro campagna in Afghanistan [43].

Un altro itinerario attraverso la NDN dalla Georgia, evita la Russia passando attraverso il porto di Ponti, sul Mar Nero, e si estende fino a Baku, in Azerbaijan, dove i carichi militari, imbarcati sui traghetti, attraversano il Mar Caspio e raggiungono il Kazakistan. I camion prendono in consegna i carichi, in Uzbekistan e in Afghanistan. Questo percorso è usato da un terzo del totale dei flussi in transito attraverso la NDN. La terza rotta della NDN evita di passare attraverso l’Uzbekistan, ma attraversando Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan arriva in Afghanistan [44].

Il contesto geografico è fondamentale ed è abbastanza chiaro che il Kirghizistan, in futuro, sarà lo scenario di nuovi conflitti che il Pentagono prepara, in vista della strategia eurasiatica: il paese è, nelle parole del Generale Petraeus, il perno centrale di questa strategia. Così la descrive Peter Chamberlain, uno specialista dell’Asia centrale:

Il brusco adeguamento degli interessi comuni dei taliban e del Pakistan (formalizzata dagli arresti in serie dei taliban) è un tentativo, da parte degli Stati Uniti e della NATO, per giustificare l’apertura di questo nuovo fronte nella guerra contro il terrorismo, dando la priorità nell’assicurare la Rete di Distribuzione del Nord. La rete prepara il terreno per la realizzazione delle pipeline  previste che sfrutteranno le attraenti miniere energetiche che aspettano solo di essere estratte dal ricco sottosuolo del bacino del Mar Caspio. Questo ultimo adeguamento, con particolare attenzione verso l’interno del continente eurasiatico, è stato possibile solo grazie agli arrangiamenti degli Stati Uniti con Islamabad, per sfruttare le relazioni cordiali che il Pakistan intrattiene con i taliban, piuttosto che opporsivi.” [45]

L’oppio nella guerra in Asia Centrale

E’ l’oppio che dà, senza dubbio, coerenza alla strategia americana di guerra a bassa intensità.

Come è avvenuto per le società commerciali inglesi e degli Stati Uniti, durante la Guerra dell’Oppio contro la Cina, nel 1840, l’oppio svolge ancora un ruolo centrale nella strategia per il controllo dell’Asia centrale.

Wayne Madsen, un giornalista investigativo di Washington, che tramite il suo sito web Wayne Madsen Report (WMR), descrive il ruolo del commercio dell’oppio durante l’invasione degli Stati Uniti del 2001 e l’occupazione del territorio: “Secondo le informazioni rese a WMR da un veterano delle Delta Force, quando le unità d’elite delle forze militari sono state inviate in Afghanistan, dopo gli attentati dell’11 settembre, il primo ordine che hanno ricevuto dalla CIA era quello di proteggere le coltivazioni di papavero. Le fonti di WMR presso l’FBI, confermano che il traffico in Afghanistan ha preso il posto di quello guidato da Khun Sa, il re di oppio, nel Triangolo d’Oro, in Birmania, e il paese è ormai la principale fonte di oppio e eroina a disposizione della CIA, per le sue operazioni di traffico di droga.” [46]

Da diversi decenni, la CIA e il Pentagono addestrano e infiltrano agenti che posano da terroristi islamici in Asia centrale, in particolare nelle zone confinanti con la Valle di Fergana, ricco di uranio, sui territori di Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan. Uno dei principali attori di questa farsa è un’organizzazione, la cui creazione è stata finanziata dalla CIA, il Movimento islamico dell’Uzbekistan (Islamic Movement of Uzbekistan, IMU). Il Movimento islamico dell’Uzbekistan, attivo anche al di là del confine con il Kirghizistan e l’Uzbekistan sulla valle del Ferghana, ora gestisce i propri fondi provenienti dal lucroso commercio di oppio.

Secondo l’Interpol, il Movimento islamico dell’Uzbekistan è pesantemente coinvolto nel traffico di eroina prodotta in Afghanistan, che circola in Kirghizistan, Uzbekistan e in tutta l’Asia centrale. In un’audizione davanti al Congresso USA, Ralf Mutschke, esperto nella lotta contro il traffico di droga dell’Interpol, ha dichiarato: “Malgrado l’agenda politica e ideologica di questo movimento, la sua natura non è solo quella di una organizzazione terroristica, è più che altro un’organizzazione ibrida, in cui è data più facilmente priorità agli interessi illegali che agli obiettivi politici. I leader del Movimento islamico dell’Uzbekistan hanno un qualche interesse a perpetuare tensioni e instabilità nella regione, per assicurarsi i canali di comunicazione che sfruttano per il traffico di droga.” [47]

Lo specialista dell’Asia centrale, Peter Chamberlain dimostra che il Movimento islamico dell’Uzbekistan sia una rete del traffico di droga creata su ordine della CIA:

C’è motivo di credere che il Movimento islamico dell’Uzbekistan sia una creazione della CIA. Citiamo l’analisi indiscutibile della questione che Steve Coll ha pubblicato nel suo libro ‘La guerra segreta della CIA’: “Il direttore della CIA, William Casey, con una decisione che andava oltre le sue funzioni, ha deciso di intensificare le operazioni di propaganda volte a destabilizzare l’Unione Sovietica all’interno delle sue frontiere. A tal fine, la Cia ha promosso l’Islam in Uzbekistan: in primo luogo, assumendo un esiliato uzbeko in Germania, per tradurre il Corano in uzbeko, e poi aiutando i servizi segreti pakistani a distribuirne 5000 copie … Fin dall’inizio, anche prima dell’invasione sovietica, la rivoluzione afgana fu progettata da una coalizione di paesi guidati dalla CIA. Analogamente, l’Islam wahabita – una forma di Islam politico, insegnata ai combattenti, nelle madrasa locali, da testi chiamati musulmani, made in USA presso la University of Nebraska – è un’aberrazione dell’Islam, che integra tecniche di modificazione comportamentale.” [48]

Chamberlain continua:

Se è vero che la CIA ha fornito i libri per diffondere il pensiero jihadista in madrasse frequentate dai militanti del Movimento islamico dell’Uzbekistan, allora tutto ciò che viene attuato da questo movimento nasce dalle … missioni militari della CIA, e la lotta al traffico di droga organizzato dagli Stati Uniti, per condurre la caccia ai terroristi e ai trafficanti di droga del Movimento islamico dell’Uzbekistan, viene utilizzata per coprire le attività degli agenti delle Forze Speciali che cercano di avere influenza a livello locale, per anticipare gli sviluppi futuri, o una possibile cessazione delle operazioni … Il programma di Partenariato per la Pace della NATO, ha significato l’arrivo di migliaia di consiglieri degli Stati Uniti e della NATO,  che sono stati assegnati in basi che permettono loro di lanciare operazioni di azione diretta. Il Partenariato per la Pace permette anche il trasferimento dell’enorme surplus di materiale militare alle popolazioni di potenziali consumatori che vivono nelle regioni petrolifere, preparando così il terreno per i futuri giochi di guerra della coalizione.” [49] Nel giugno 2009, Richard Holbrooke ha annunciato che la campagna statunitense per eliminare il commercio di oppio in Afghanistan, sarebbe stato abbandonato in favore di ciò che il Pentagono chiama una campagna d’interdizione. In un commento ricevuto dall’Associated Press, Holbrooke ha detto che Washington avrebbe abbandonato le operazioni di eliminazione progressiva dell’oppio in Afghanistan.” [50]

Secondo un articolo del The New York Times, Ahmed Wali Karzai, fratello di Hamid Karzai, presidente afgano sostenuto dagli Stati Uniti, lavorerebbe per la CIA da otto anni; Wali, sarebbe un barone della droga anche nella provincia di Helmand. Tra le altre cose, la CIA remunererebbe Ahmed Wali Karzai, affinché recluti “una forza paramilitare che può operare in Afghanistan sotto il comando della CIA nella città di Kandahar, e attorno alla regione d’origine di Karzai.” [51]

L’influenza della CIA sul traffico di droga in Afghanistan, è molto simile a quello che l’agenzia ha esercitato sul traffico di oppio nel Sud-est asiatico, durante la guerra del Vietnam, una cosa molto allarmante. La conclusione che si può trarre è evidente: in entrambi conflitti, il traffico non è stato utilizzato per adempiere agli obiettivi militari, ma erano piuttosto nel cuore della strategia globale di Washington.

Ahmed Wali aveva utilizzato il denaro della droga per finanziare la repressione violenta del governo, come l’intimidazione degli oppositori durante le elezioni fraudolente del 2009. Nel 2007, Hamid Karzai chiamò alla carica di capo del servizio anti-corruzione, Izzatullah Wasif, anche se questo aveva trascorso quattro anni in prigione, in Nevada, per aver tentato di vendere droga a un poliziotto in borghese [52]. Sembra che la filosofia di questo metodo sia il seguente: “Niente vale quanto un trafficante di droga per acciuffare un altro trafficante di droga“.

La regione di Karzai, Helmand, comprende gran parte delle aree di coltivazione di oppio in Afghanistan. Questa è l’area del mondo in cui si concentra la più alta produzione di oppio, il 40% del volume totale presente sul mercato illegale globale, queste cifre sono quelle di John W. McCoy, un ricercatore degli Stati Uniti che ha descritto il ruolo dei servizi segreti statunitensi nel traffico di droga in Asia, dalla guerra del Vietnam, a partire dalla fine degli anni ‘60. Nella provincia di Helmand, circa 103000 ettari di oppio erano coltivati nel 2008, ciò rappresenta i due terzi di tutta la produzione in Afghanistan.

McCoy ha osservato che mentre la CIA ha sostenuto la guerriglia dei mujaheddin afghani contro l’Unione Sovietica, negli anni ‘80, ha usato il denaro della droga – guadagnato con l’oppio prodotto dai Mujahiddin – per finanziare una guerra segreta, resa popolare dal film di Hollywood, ‘La Guerra di Charlie Wilson’ (Charlie Wilson’s War). McCoy ha detto che nel corso degli anni ’80, “La guerra segreta della CIA è stato il catalizzatore per la trasformazione delle regioni di frontiera, tra l’Afghanistan e il Pakistan, in una vasta area di produzione di eroina, la più grande del mondo“.

Sul tema della sconfitta dei talebani, dopo le rappresaglie per l’11 settembre, McCoy ha continuato l’analisi del traffico di droga in Afghanistan:

La CIA è riuscita a mobilitare gli ex signori della guerra attivamente coinvolti nel traffico di eroina, e a occupare tutta le città dell’Afghanistan orientale. In altre parole, l’Agenzia e i suoi alleati locali, hanno creato le condizioni ideali per il rovesciamento del divieto dei taliban della coltivazione del papavero, e così farne rivivere il traffico. Poche settimane dopo la caduta dei taliban, le autorità siresero conto del drammatico aumento della coltivazione di oppio nelle province interne di Helmand e Nangarhar.” [53].

Fu stabilito che prima che i militari statunitensi espellessero i taliban, alla fine del 2001, la produzione di oppio era stata ridotta significativamente sotto il loro governo. E’ stato inoltre stabilito, – dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine, come si è ricordato – che dopo che le forze della NATO, guidate dagli USA, occupassero l’Afghanistan, i raccolti di papavero non solo avevano recuperato il loro precedente livello di produzione, ma aveva superato anche i massimi livelli di produzione raggiunti nella storia del paese [54], si aggiunse a questo aumento, anche il drammatico incremento del volume della produzione di oppio.

Nel 2000, i taliban avevano posto fine alla coltivazione del papavero. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine, da quando gli Stati Uniti hanno assunto il controllo militare del paese, il raccolto di oppio in Afghanistan è aumentato da 185 tonnellate, su una superficie inferiore a 8000 ettari, nel 2001, a 8.200 tonnellate in più di 193.000 ettari, nel 2007. Ciò rappresenta una moltiplicazione per quarantaquattro dei raccolti totali, durante gli otto anni dell’occupazione statunitense in Afghanistan [55].

Nel 2008, gli Stati Uniti e la NATO sommersero la stampa di commenti sul declino del 19% della superficie totale dei campi di papavero, rispetto all’anno precedente, ignorando l’aumento del 15% della resa; dati che ha mantenuto l’Afghanistan al posto di primo produttore di oppio e traffico di eroina, molto più avanti degli altri [56].

Negli ultimi cinque anni, la produzione di oppio in Afghanistan, ha costituito il 50% del PIL del paese, e oltre il 93% del materiale necessario alla produzione mondiale di eroina [57]. Eppure sarebbe sbagliato ritenere che, dall’occupazione dell’esercito USA, nel 2001, la crescita dell’economia afgana sia stata rallentata. Il PIL è prodigiosamente aumentato del 66%, grazie al sistema di produzione in forte espansione, quasi industriale, dell’oppio mantenuto dagli Stati Uniti e dal regime Karzai, un protetto di Washington [58].

Il capo dell’agenzia federale russa per la lotta alla droga, ha stimato il valore attuale della produzione di oppio in Afghanistan, a 65 miliardi di dollari. Solo 500 milioni di dollari di questa somma considerevole, viene restituita agli agricoltori afgani e 300 milioni sono pagati ai guerriglieri taliban, la “mafia della droga” riceve il resto, circa 64 miliardi dollari [59].

Nel marzo 2010, durante una riunione del Consiglio NATO-Russia, il capo della FSKN (il Servizio federale russo per il controllo della droga), Victor Ivanov, ha dichiarato: “Il papavero afgano è stato la causa della morte per overdose di un milione di persone, negli ultimi dieci anni, le cifre sono delle Nazioni Unite. Non vi è qui una minaccia alla pace mondiale e alla sicurezza?” [60]

La NATO s’è categoricamente rifiutata di soddisfare la domanda russa di distruggere tutte le piantagioni di oppio in Afghanistan.? Perché? La NATO (cioè il Comando Centrale USA) ha detto che la loro distruzione priverebbe il paese della sua “fonte di ricchezza“, una formula che racchiude in sé l’assurdità criminale della missione NATO in Afghanistan.

In una più recente riunione del Consiglio NATO-Russia, Ivanov ha invitato la NATO che la sua cosiddetta missione di “normalizzazione della situazione in Afghanistan“, comprenda un piano “per sradicare la produzione della droga.” [61]

James Appathurai, portavoce della NATO, ha dichiarato la sua “comprensione” per le preoccupazioni della Russia [62] e le stime del consumo di droga in Russia sono impressionanti: 200.000 persone sono dipendenti da eroina o morfina, e decine di migliaia di loro muoiono ogni anno a causa della loro dipendenza. In effetti, Dall’occupazione statunitense dell’Afghanistan e dall’aumento del traffico, la Russia è diventata la principale meta della droga afgana, e il paese ne soffre le gravi conseguenze sociali ed economiche.

Appathurai ha anche detto che il problema della droga in Afghanistan deve essere trattato con cura, per evitare che la popolazione locale “si rivolti”. Appathurai ha continuato il suo commento, un gioiello del doppio linguaggio della NATO: “Siamo d’accordo che dobbiamo affrontare questo problema. Ma le nostre opinioni divergono leggermente. Non possiamo assumerci la responsabilità per il taglio dell’unica fonte di reddito della popolazione di uno dei paesi più poveri del mondo, senza essere in grado di offrire un’alternativa. E  ‘semplicemente impossibile.”[63]

L’esercito statunitense esporta oppio?

Il papavero potrebbe diventare il collegamento ideale delle guerre statunitensi in Asia centrale. Può finanziare gruppi ribelli come il Movimento islamico dell’Uzbekistan. Fino al 10% della popolazione afgana vive col denaro della droga – tra cui il fratello del presidente, o forse lo stesso presidente.

Come sperimentato dagli inglesi durante le guerre dell’oppio in Cina, la dipendenza da oppio porta anche i popoli eurasiatici delle tribù e delle minoranze etniche; la passività, la criminalità e il caos che la droga causa, sono ottimi modi per corrompere un paese dall’interno, e quindi giustificare la maggiore presenza di forze di “peacekeeping“.

Approfittate della migrazione dal Kirghizistan allo Xinjiang, e in altre province cinesi, per inondare la Cina con l’oppio, sarebbe una strategia inevitabile che il Pentagono avrebbe interesse a “promuovere” con pazienza. Attualmente, la Russia è già devastata dal flagello della eroina afgana a buon mercato, che crea numerose dipendenze, aumento della criminalità e insubordinazione.

Ma ciò che ci dicono Richard Holbrooke e altri strateghi dell’U. S. Central Command, è che le tribù in Afghanistan, Tagikistan o Uzbekistan fanno passare a dorso di mulo la droga, attraverso valli pericolose che portano in Russia o altrove. La verità sembra diversa. In effetti, l’oppio sarebbe trasportato da ciò che è più moderno in fatto di trasporti militari.

E’ l’aspetto più esplosivo di questa benigna negligenza degli Stati Uniti nei confronti dei campi di papavero, in Afghanistan. L’oppio e l’eroina trattati sarebbero trasportati dai convogli militari degli Stati Uniti, da basi come Manas in Kirghizistan. I carichi sarebbero nascosti e segreti.

Richard Holbrooke ha visitato di recente il centro di transito di Manas, probabilmente per organizzare il sabotaggio del gasdotto della rete TUKC (Turkmenistan – Uzbekistan – Kirghizistan – Cina) entrato in servizio di recente.

Un tale uso delle attrezzature militari, se provato, dimostrerebbe che gli Stati Uniti possono agire “senza limiti” e che nessuno può avvicinarsi ai loro carichi o controllare il contenuto. E’ la ripetizione su larga scala del trasporto di eroina per via aerea, organizzato dalla CIA in Viet Nam negli anni ’60. [64]

Questa accusa è stata lanciata da un efficiente agente dei servizi segreti della regione, il generale Hamid Gul, ex capo dell’intelligence pakistana (ISI), è stato il capo dei servizi segreti militari durante la guerra in Afghanistan, negli anni ‘80.

Nell’agosto 2009, Hamid Gul ha detto, senza mezzi termini: “Ahmed Wali Karzai è il più grande barone della droga in Afghanistan.” Ha detto che i baroni della droga lo sono anche del traffico di armi, un “mercato in crescita” in Afghanistan. “Ma la cosa più inquietante per me è che l’aeronautica – l’Aviazione degli Stati Uniti – è anch’essa coinvolta. Avete detto giustamente: la droga viene trasportata a nord nelle Repubbliche dell’Asia Centrale e in Russia, e poi raggiunge l’Europa e il resto del mondo. Ma un certo volume di stupefacenti segue una via diretta. E’ trasportata da aerei militari.” [65].

Gul è stato a capo dell’ISI nel 1987-1989, durante la fase più intensa della guerriglia dei Mujahiddin, durante il quale ha lavorato a stretto contatto con la CIA. Dopo, gli è stato vietato l’ingresso degli Stati Uniti e nel Regno Unito, perché lui dice che è troppo prolisso riguardo ai piani reali ideati dai due paesi per l’Asia Centrale. Per lui, i piani prevedono la distruzione sistematica del Pakistan come nazione. [66]

Secondo le accuse di Gul, l’oppio e l’eroina dall’Afghanistan sono trasportati segretamente dagli aerei militari degli Stati Uniti, nella base militare di Manas, e passano attraverso i vari canali della Rete di Distribuzione del Nord. Tale analisi è stata confermata da fonti tagike e afgane, dalle rivelazioni dei membri delle forze armate statunitensi, che ne parlano da esterni, e dalle relazioni russe [67].

La base di Manas svolge un ruolo cruciale, a cui si aggiunge la base di addestramento “in materia di lotta alla droga e al terrorismo” nel sud-ovest del Kyrgyzstan, a Batken, vicino alla valle di Ferghana. Questa combinazione si adatta perfettamente alla nuova politica degli Stati Uniti di divieto selettivo del papavero in Afghanistan, che Holbrooke ha detto  di preferire all’eradicazione totale. Questa nuova politica del Pentagono consente al 93% dell’oppio del mondo di circolare, evitando ogni “eradicatore” statunitense, d’essere trasformato in eroina e venduta in Cina, Uzbekistan, Russia e altrove, come in una nuova Guerra dell’oppio.

Il grandi media degli Stati Uniti accusano i taliban di essere a capo del traffico di oppio. Eppure, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine, elementi anti-governativi (AGE), che comprendono militanti taliban, ma anche militanti di altri movimenti, non ne beneficino che per il solo 2% del totale degli introiti della droga, del valore totale di 3,4 miliardi di dollari. Questo dato è anche confermato dalla CIA e dalla DIA (Agenzia dell’Intelligence  della Difesa), che sostengono che i taliban hanno guadagnato “solo” 70 milioni di dollari all’anno, col traffico di stupefacenti. La maggior parte della produzione di eroina e di oppio non elaborato, si trova nelle mani dei signori della guerra collegati al sistema di Karzai.

La futura strategia degli Stati Uniti per gestire il “problema” della droga in Afghanistan, è studiata con attenzione. I trafficanti di droga, i cui legami con i “ribelli” sono conosciuti, sono elencati nella lista delle persone da eliminare (da uccidere). Questi elenchi sono esenti dai nomi dei maggiori baroni della droga, che tuttavia generano circa il 98% dei redditi da papavero e che lavorano con la famiglia ed il regime di Karzai, una cerchia di notori tossicodipendenti corrotti.

Infatti, come sottolineato da un analista, l’esercito degli Stati Uniti “fornisce assistenza ai signori della droga alleati con le forze di occupazione o col governo afgano, per monopolizzare ulteriormente il mercato e il traffico di droga.” [68]

Craig Murray, ambasciatore del Regno Unito in Uzbekistan fino al 2004, dice che sotto l’autorità del generale Rashid Dostum – che è stato nominato nel 2009, ancora una volta, ministro della Difesa nell’Afghanistan di Karzai – convogli militari trasportano la droga al di là del confine con l’Afghanistan [69].

Secondo Craig Murray, Dostum è stata una figura chiave nel traffico di oppio in Afghanistan, che dirige dal suo paese natale, vicino a Mazar-e Sharif. Fu richiamato dall’esilio da Karzai, con l’approvazione degli Stati Uniti, per le elezioni presidenziali, durante la quale ha assegnato il 100% dei voti dei più grandi distretti a Karzai. Per “combattere” in modo cospicuo contro i taliban, il Pentagono propone ora di fornire grandi quantità di armi alle milizie private (dell’anti-droga) che Dostum comanda, nonostante la sua posizione ufficiale come capo dell’esercito, nonostante il fatto che Washington sa tutto delle sue attività con il traffico d’eroina [70].

Il fratello del presidente Karzai, Ahmed Wali Karzai, che secondo il New York Times [71] figura tra i collaboratori della CIA, è accusato di essere egli stesso un potente signore della droga, fornisce un quadro completo dello squallido governo atlantista di Karzai [72].

Murray continua e dice che l’Afghanistan “non esporta più oppio, ma eroina. L’oppio viene trasformato in eroina su scala industriale, non in cucine, ma nelle fabbriche. Milioni di litri di prodotti chimici necessari per le operazioni di trattamento sono importati con camion cisterna. Questi camion ed automezzi pesanti, carichi di oppio, raggiungono gli impianti, percorrendo le strade ristrutturate dagli Stati Uniti, quelle usate dalle truppe NATO … Una quarta parte del commercio dell’eroina riunisce i dignitari del governo afgano. Quando gli Stati Uniti hanno attaccato l’Afghanistan, l’esercito ha bombardato il territorio mentre la CIA pagava, armava ed equipaggiava i signori della guerra e i baroni della droga, allora in disgrazia.” [73]

Conclusioni

Quando si guarda attentamente una cartina dell’Asia centrale, è chiaro che l’Afghanistan è al centro della strategia degli Stati Uniti per destabilizzare e militarizzare la regione. Si tratta di una posizione ideale per minacciare simultaneamente Cina, Russia, Iran e paesi vicini, specialmente i membri dell’Organizzazione del Trattato di cooperazione di Shanghai.

La proliferazione delle droghe e la lotta anti-droga, il terrorismo e le operazioni antiterrorismo, la deliberata brutalità della polizia locale e la cattura dei gasdotti eurasiatici, esistenti o futuri, sono tutti gli ingredienti nella ricetta esplosiva delle missioni Nato, che sotto la guida degli Stati Uniti, sono proiettate al di fuori dell’Afghanistan.

Il Kirghizistan ora svolge un ruolo chiave nell’espansione strategica della guerra in tutta l’Asia centrale. Mosca lo sa. Pechino lo sa. Ciò che si decide, nel Grande Gioco in Kirghizistan e in Asia centrale, non è altro che l’ultima occasione della strategia di sopravvivenza, la Full Spectrum Dominance per l’egemonia militare globale degli Stati Uniti.

Come negli anni ‘60 e ’70 in Vietnam, è sempre più chiaro che la “guerra al terrorismo” in Afghanistan è stata deliberatamente progettata da Washington affinché sia un’altra guerra senza nessun vincitore.

Il fallimento della guerra in Afghanistan è prevista per giustificare un aumento della presenza militare in Kirghizistan, Uzbekistan, Tajikistan, nella Valle di Ferghana e poi in tutta l’Asia centrale. Prima della rivolta in Kirghizistan che ha mandato in esilio la banda Bakiyev, a marzo, Washington era sulla buona strada per espandere la guerra grazie agli accordi con Bakiyev, per costruire diversi campi di addestramento antiterrorismo nel paese. Con tali basi disponibili, il controllo del continente eurasiatico, dallo Xinjiang al Kazakistan e alla Russia, sarebbe diventato una questione di tempo, in quanto, già attualmente, lo sviluppo delle linee dal traffico di droga ne prepara il terreno.

Questa volta, a differenza di quello che è successo nei primi anni ‘70, è una questione importante per l’egemonia degli Stati Uniti. Il ruolo che svolgeranno il governo provvisorio del Kirghizistan, Mosca, Pechino, Iran e Uzbekistan sarà decisivo in questa regione, dove si concentrano i conflitti più intensi del mondo.

F. William Engdahl

Giornalista statunitense, ha pubblicato numerosi libri dedicati alle questioni energetiche e geopolitiche. Ultimi libri pubblicati: Pétrole, une guerre d’un siècle: L’ordre mondial anglo-américain (Jean-Cyrille Godefroy éd., 2007) e I Semi della Distruzione Dal controllo del cibo al controllo del mondo, (Arianna ed., 2010).

Note

[1] Edouardo Real, Zbigniew Brzezinski: Defeated by his Success, 30 gennaio 2008.

[2] Rashid, The Taliban: Exporting Extremism, Foreign Affairs, New York Council on Foreign Relations, novembre-dicembre 1999, p.31.

[3] Ibid.

[4] Lorenzo Vidino, How Chechnya Became a Breeding Ground for Terror, Middle East Quarterly, Estate 2005, Philadelphia

[5] La relazione 2006 della Heritage Foundation, Washington DC, include i giganti degli armamenti McDonnell Douglas e Boeing, e del petrolio Chevron ed ExxonMobil, tra le fonti dei finanziamenti. Vedasi: Heritage Foundation

[6] Ariel Cohen, Radical Islam and US Interests in Central Asia, Ariel Cohen, l’Islam radicale e U. S. interessi in Asia Centrale , Audizione alla sottocommissione per il Medio Oriente e Asia Centrale, Commissione per le Relazioni Internazionali, Camera dei Rappresentanti, 29 ottobre 2003.

[7] Ibid.

[8] Ibid.

[ 9 ] General David H. Petraeus, US Army, Commandant de l’US Central Command, Statement to Senate Armed Services Committee on the Afghanistan-Pakistan Strategic Posture Review and the Posture of US Central Command, 1 aprile 2009.

[10] Ibid.

[11] Halford J. Mackinder, The Geographical Pivot of History, Londra, Royal Geographic Society, 1904. La regione perno di Mackinder fu poi più o meno sussunta dall’Unione Sovietica, che includeva l’Asia centrale, più l’Afghanistan.

[12] «Pakistan: Asif Ali Zardari est toujours inculpé en Suisse», Réseau Voltaire, 22 agosto 2008.

[13] Sottocommissione permanente del Senato USA per le indagini, Minority Staff Report for Permanent Subcommittee on Investigations Hearing on Private Banking and Money Laundering : A Case Study of Opportunities and Vulnerabilities, (2) Asif Ali Zardari Case History, Washington DC, 9 novembre 1999.

[14] «Khalilzad revient en Irak», Réseau Voltaire, 21 giugno 2010.

[15] Helene Cooper, Mark Mazzetti, «UN Envoy’s Ties to Pakistani Are Questioned», The New York Times, 25 agosto 2008.

[16] Syed Ifran Raza, Minister criticized over anti-terror authority, Dawn, Karachi, 12 dicembre 2009.

[17] Zardari calls for counter-terror strategy, Dawn, Karachi, 16 Marzo 2010.

[18] Thomas M. Sanderson e Andrew C. Kutchins, The Northern Distribution Network and Afghanistan: Geopolitical Challenges and Opportunities, Washington, CSIS, A Report of the CSIS Transnational Threats Project and the Russia and Eurasia Program, gennaio 2010.

[19] US not to use Uzbek base, says Holbrooke, Dawn, Astana, 21 febbraio 2010.

[20] Richard Boucher, Re-designation of the Islamic Movement of Uzbekistan as a Foreign Terrorist Organization, Washington DC, 25 settembre 2002, Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America.

[21] Wayne Madsen, citato da Peter Chamberlain, America’s ‘Islamists’ Go Where Oilmen Fear to Tread, News Central Asia, 24 marzo 2010.

[22] Ibid.

[23] Mark Thompson, Moving Troops to Afghanistan Harder Than Getting Them, Time, New York, 14 ottobre 2009.

[24] Frank E. Kitson, Low Intensity Operations: Subversion, Insurgency and Peacekeeping, Londra, 1971, Faber and Faber.[25] CM Olsson e EP Guittet, Counter Insurgency, Low Intensity Conflict and Peace Operations: A Genealogy of the Transformations of Warfare, 5 marzo 2005, documento presentato alla riunione annuale della International Studies Association.

[26] Grant T. Hammond, Low-intensity Conflict: War by another name, Londra, Small Wars and Insurgencies, Vol.1, N°3, dicembre 1990, pp. 226-238.

[27] Jon Boone, US pours millions into anti-Taliban militias in Afghanistan, 22 novembre 2009, The Guardian, Londra.

[28] Jeremy Kuzmarov, American Police Training and Political Violence: From the Philippines Conquest to the Killing Fields of Afghanistan and Iraq, The Asia-Pacific Journal, 11-1-10, 15 marzo 2010.

[29] Ibid.

[30] Ibid.

[31] Ibid.

[32] Ibid.

[33] Rahim Faiez, US: Insurgents attack Bagram Air Field, Associated Press, 19 maggio 2010.
[34] Mark Mazzetti, US Is Still Using Private Spy Ring, Despite Doubts, The New York Times, 15 maggio 2010.

[35] Ibid.

[36] Ibid.

[37] Central Asia News, Kyrgyz Defense Ministry: The training center in Batken is not oriented against third countries, Ferghana.ru, 18 mars 2010

[38] Ibid.

[39] Zbigniew Brzezinski, La Grande Scacchiera: l’America e il resto del mondo, Milano, Longanesi, 1998, pp. 194-198.

[40] Ibid.

[41  Cornelius Graubner, Implications of the Northern Distribution Network in Central Asia, Central Asia-Caucasus Institute, Johns Hopkins University, 1 settembre 2009.

[42] Bill Marmon, New Supply ‘Front’ for Afghan War Runs Across Russia, Georgia and the ‘Stans, 21 marzo 2010.

[43] Ibid.

[44] Ibid.

[45] Peter Chamberlain, America’s ‘Islamists’ Go Where Oilmen Fear to Tread, News Central Asia, 24 marzo 2010.

[46] Wayne Madsen, CIA Involvement With Drug Trade Resulted In Death Threats Against US Senator.

[47] Ralf Mutschke, Threat Posed by the Convergence of Organized Crime, Drug Trafficking, and Terrorism, Audizione dinanzi alla sottocommissione per la criminalità della commissione Giustizia, Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, 106.mo Congresso, seconda sessione, Ufficio Stampa del Governo  degli Stati Uniti, Washington DC, 13 dicembre 2000.

[48] Peter Chamberlain, op. cit.

[49] Ibid.

[50] Richard Holbrooke, citato in US to shift approach to Afghanistan drug trade The focus will move from opium eradication to fighting trafficking and promoting alternate crops, citazione dell’inviato speciale degli Usa, Richard Holbrooke, l’Associated Press, 28 Giugno 2009

[51] Dexter Filkins, Mark Mazetti e James Risen, Brother of Afghan Leader Said to be Paid by CIA, The New York Times, 27 ottobre 2009. «Hamed Wali Karzai chargé de négocier avec les Talibans», Réseau Voltaire, 14 maggio 2010.

[52] Jeremy Kuzmarov, op. cit.

[53] Ibid.

[54] United Nations office on Drugs and Crime, World Drug Report:

[55] Ibid.

[56] Ibid.

[57] Alfred W. [ 57 ] Alfred W. McCoy, op. McCoy, op. cit. cit.

[58] Craig Murray, Britain is protecting the biggest heroin crop of all time, Londra, Daily Mail, 21 Luglio 2007.

[59] Ibid.

[60] Andrei Fedyashin, Russia and NATO divided over Afghan opium, 25 marzo 2010, RIA Novosti. «Pavot: la Russie met en cause la responsabilité de l’OTAN», Réseau Voltaire, 3 marzo 2010.

[61] RIA Novosti, Russian official mocks NATO concern for Afghan poppy growers, Moscou, 25 marzo 2010.

[62] Ibid.

[63] Ibid.

[64] Jeremy R. Hammond, Ex-ISI Chief Says Purpose of New Afghan Intelligence Agency RAMA Is ‘to destabilize Pakistan’, Foreign Policy Journal, 12 agosto 2009.

[65] Ibid.

[66] Ibid.

[67] Diverse conversazioni private con l’autore nei mesi di aprile e maggio 2010.

[68] Ibid.

[69] Cfr. anche su questo argomento «Craig Murray: “Les États-Unis contrôlent le trafic de l’héroïne afgane”» , Voltairenet, 17 Novembre 2005

[70] Craig Murray, On Missiles and Missile Defense, 23 settembre 2009.

[71] Dexter Filkins, Mark Mazzetti, James Risen, Brother of Afghan Leader Said to Be Paid by CIA , The New York Times, 27 ottobre 2009.

[72] Craig Murray, US Supported Afghan Government Warlords Control World Heroin Trade, 13 agosto 2009.

[73] Craig Murray, Britain is protecting the biggest heroin crop of all time, Londra, Daily Mail, 21 Luglio 2007.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Crescenti sospetti sul possibile collegamento tra il PKK e Israele

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Fonte: Global Research

5 Agosto 2010 Today’s Zaman

Tra l’indignazione crescente per l’attacco israeliano alle navi civili in acque internazionali, che ha ucciso nove attivisti turchi pro-palestinesi e ferito decine, la scorsa settimana, c’è un profondo sospetto circa il possibile coinvolgimento di Israele nell’uccisione di sette soldati in un attacco terroristico con razzi, nella base navale di Iskenderun, nella parte meridionale della provincia di Hatay.

Le organizzazioni di intelligence turche stanno esaminando i possibili collegamenti tra i due incidenti, che si sono verificati lo stesso giorno a solo poche ore di distanza.

L’attacco terroristico è stato effettuato dal PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), una organizzazione fuorilegge che è stata definita gruppo terrorista, sia in Turchia che in gran parte della comunità internazionale. Gli analisti sostengono che i servizi segreti israeliani potrebbero aver contrattato il lavoro al PKK, per inviare un messaggio al governo turco.

Sedat Laçiner, a capo dell’International Strategic Research Organization (USAK) di Ankara, ha detto al Sunday’s Zaman, che ci sono alcuni gruppi in Israele che collaborano attivamente con il PKK usando la sua ala iraniana, il Partito per una Vita Libera in Kurdistan (PJAK), che conduce una guerriglia nella parte occidentale dell’Iran. Ha detto che il legame è più di una semplice teoria della cospirazione, l’ha sostanziata con il fatto che alcuni membri del Mossad ed ex ufficiali israeliani sono stati visti addestrare i combattenti curdi nel nord della regione curda irachena.

Il fatto che un attacco contro soldati turchi sia avvenuto lo stesso giorno in cui i soldati israeliani hanno attaccato un convoglio di aiuti umanitari, in acque internazionali, guidati da una nave turca, ha sollevato sospetti sul possibile coinvolgimento d’Israele con il PKK. Il fatto che il gruppo terroristico curdo, con sede nel nord dell’Iraq, abbia annunciato il 1° giugno che avevano posto termine al suo cessate il fuoco unilaterale con la Turchia, ha rafforzato la teoria che Israele sia in qualche modo collegato con il PKK.

Parlando ai giornalisti la settimana scorsa, ad Ankara, il ministro dell’Interno Besir Atalay ha sottolineato che stanno ampiamente indagando su entrambi gli attacchi. “Abbiamo lavorato duramente, in particolare per accertare cosa sia accaduto nell’incidente ad Iskenderun“, ha detto, segnalando che il governo sta studiando sulle presunte collusioni. L’anno scorso, Atalay aveva osservato, in un congresso del partito, che era profondamente offeso dalla notizia che l’esercito israeliano addestrasse truppe nel nord dell’Iraq.

I commenti da parte di alcuni politici turchi, hanno anche alimentato l’ipotesi di un possibile collegamento israeliano con il PKK. “Non pensiamo che l’incidente [l’attacco d’Iskenderun] sia stato casuale“, ha detto il Vice Presidente del Partito Giustizia e Sviluppo, Hüseyin Çelik, parlando ai giornalisti presso la sede di Ankara del partito.

Come Partito AK, noi condanniamo fermamente gli incidenti. Israele ha raso al suolo Gaza. Non lasciando neanche i materiali da costruzione. Questo sarà un segno nero sulla storia dell’umanità. Un attacco è stato effettuato a una nostra unità militare, a Iskenderun. Noi condanniamo anche questo. Non crediamo sia una coincidenza che questi due attacchi abbiano avuto luogo allo stesso tempo“, ha detto Çelik.

Il neo-presidente del Partito CHP (Partito Repubblicano del Popolo), Kemal Kilichdaroglu, ha anch’egli detto che la similarità tra gli incidenti è significativa. Parlando ad una conferenza stampa, presso la sede del partito, Kilichdaroglu ha ricordato che alcuni ambienti sono preoccupati se l’attacco d’Iskenderun sia collegato ad Israele. “Siamo profondamente dispiaciuto per l’incidente di Iskenderun. Dobbiamo prestare attenzione all’uccisione dei sette soldati. Nel momento in cui l’esercito israeliano continua le operazioni militari, è significativo che un tale incidente abbia avuto luogo in Turchia“, ha detto.

Il leader del Partito della Felicità (SP), Numan Kurtulmus, reagito duramente nel corso di una conferenza stampa tenutasi presso la sede di Istanbul del partito. Pur sottolineando la tempistica di entrambi gli incidenti, Kurtulmus ha detto di sperare gli attacchi non siano collegati tra loro. “I nostri soldati sono stati attaccati in Turchia. Spero che si trattasse di una coincidenza il fatto che Israele abbia iniziato ad attaccare la nave, dopo un brutale attacco alla base navale turca di Iskenderun. Che Dio benedica le anime di coloro che sono morti martiri in questo feroce attacco“, ha detto.

Laçiner si spinge oltre nel dire che gli incidenti terroristici di rilievo del PKK, che hanno avuto luogo nelle grandi città, recano le impronte di Israele. “Questi terroristi sono stati addestrati da ufficiali dei servizi segreti israeliani, sul modo di penetrare nelle più belle città“, ha detto, sottolineando che il governo israeliano è a disagio con il governo del Partito AK, in Turchia. “Vogliono dipingere il governo turco come molto simile all’organizzazione radicale Hamas, agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. Il PKK è un mero esecutore di Israele, e serve a tale scopo“, ha spiegato.

In un articolo apparso sul The New Yorker nel 2006, il giornalista investigativo statunitense Seymour Hersh, ha scritto che Israele e gli Stati Uniti stanno “lavorando insieme per sostenere il gruppo di resistenza curdo noto come Partito per la vita libera in Kurdistan.” Poi, citando un consulente governativo con stretti legami con la leadership civile del Pentagono, Hersh ha sostenuto che questa era “parte di uno sforzo per avere mezzi alternativi con cui fare pressione sull’Iran”.

Hersh, un vincitore del Premio Pulitzer, ha scritto due anni dopo, in un altro articolo, che la CIA e le entità dell’US Special Operations, hanno anche legami di lunga data con due gruppi di dissidenti iraniani: i Mujahideen e-Khalq (MEK) e il Partito per un Vita Libera in Kurdistan (PJAK), un gruppo separatista curdo.

Il partito curdo PJAK, che è stato anche segnalato per essere segretamente sostenuto dagli Stati Uniti, opera contro l’Iran dalle basi nel nord dell’Iraq, da almeno tre anni“, ha scritto. Nell’articolo del 2008, Hersh ha detto che il “PJAK ha anche sottoposto la Turchia, membro della NATO, a ripetuti attacchi terroristici, e le relazioni sul sostegno statunitense al gruppo, sono stati fonte di frizioni tra i due governi“.

Nurullah Aydin, docente alla Gazi University, sostiene che Israele non solo offre corsi di formazione alle truppe dell’amministrazione regionale curda, ma anche aiuti e supporto ai terroristi del Pkk. “La deposizione data dai terroristi catturati e le munizioni sequestrate durante i raid nei campi terroristici, indicano che gli ufficiali dell’esercito israeliano hanno fornito addestramento e armi al PKK“, ha detto, affermando che i governi della Turchia hanno tenuto queste informazioni segrete al pubblico.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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La sfera di coprosperità della grande Asia orientale

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La sfera di coprosperità della grande Asia orientale

Kyoichi Tachikawa [1]

Tra la seconda metà degli anni ’30 e i primi anni ’40, in Giappone, la geopolitica diventa molto popolare tra gli intellettuali : geografi, politici, economisti, giornalisti…vengono pubblicate numerose opere  [2] . Una delle ragioni principali di questa infatuazione per la geopolitica dipende dalla creazione della teoria della “sfera di coprosperità della grande Asia orientale” nell’estate del 1940, teoria resa credibile dalle prime vittorie giapponesi nella guerra del Pacifico nell’inverno del 1942 [3]  .

In questo articolo presenteremo i punti di vista più significativi della “sfera di coprosperità della grande Asia orientale”e ci chiederemo se essa poggia su fondamenti geografici.

LE ORIGINI DI UN PROGETTO POLITICO E L’IDEA DI GEOGRAFICA DI YOSUKE MATSUOKA

La teoria del “sfera di coprosperità della grande Asia orientale” è essenzialmente politica. Essa viene esposta l’1 agosto del 1940 nella “Direzione della politica nazionale fondamentale” dal secondo governo del principe Fumimaro Konoe. Essa costituisce quindi la nuova politica straniera giapponese [4] rimpiazzando quella del “nuovo ordine dell’Asia orientale” stabilita nel 1938. Dopo lo scoppio della guerra del Pacifico nel dicembre del 1941, la creazione della sfera di coprosperità della grande Asia orientale diventa uno degli obiettivi della guerra, ufficialmente denominata dalle autorità giapponesi “guerra della grande Asia orientale”.

Il nuovo orientamento si basa sulla politica economica estera ad opera di Hachiro Arita [5], ministro degli Affari Esteri del governo precedente dell’ammiraglio Mitsumasa Yonai. Ma è Yosuke Matsuoka, ministro degli Affari Esteri del governo di Konoe, che utilizza, per la prima volta, l’espressione “sfera di coprosperità della grande Asia orientale” per definire questo nuovo orientamento. Essa appare in un discorso di Matsuoka pubblicato dal Ministero degli Affari Esteri l’1 agosto del 1940. Secondo Matsuoka, la “sfera di coprosperità della grande Asia orientale” comprende la regione sud (l’Indocina francese, le Indie nederlandesi, ecc.) nonché il Giappone, la Manduria e la Cina [6]. Egli accarezza il progetto di una sfera economica in cui il Giappone avrà il ruolo di leader conformemente alla Kodoshugi (via verso l’imperialismo giapponese) [7].

La “sfera di coprosperità della grande Asia orientale” è in primo luogo un’immagine. È stata concepita da Matsuoka secondo un’idea geografica precisa? O essa, al contrario, non ha alcun rapporto con qualsivoglia dimensione geopolitica?
Matsuoka ha avuto la capacità di ideare dei termini che godranno di grande popolarità. Nel gennaio del 1931, quando era membro della Dieta, durante un’interpellanza, ha dichiarato: “la Manciuria e la Mongolia costituiscono l’ancora di salvezza per il nostro paese”. Considerata una facile formula, diviene molto popolare e viene ripresa in  diverse occasioni. “L’ancora di salvezza” vagheggia anche una dimensione geopolitica. Si può pensare che ci siano delle caratteristiche comuni tra questa concezione e quella  del Lebensraum tedesco.
Più tardi, nella sua opera, Matsuoka dirà “ho utilizzato questa frase scegliendo principalmente il punto di vista della difesa nazionale e dell’economia” e considerando la situazione giapponese dopo l’incidente della Manciuria, “ho inteso la Manciuria e la Mongolia interna come ancora di salvezza in senso spirituale anche” [8] . Peraltro, “ ‘l’ancora di salvezza’ ha anche un senso letterale. Ciò vuol dire che se questa corda viene spezzata, il Giappone morirà” [9] . A giudicare da queste premesse, è difficile dire che Matsuoka è giunto a questa concezione in base a dei principi geopolitici. Matsuoka utilizza questa frase nel 1931, quando la geopolitica comincia ad essere presente in Giappone, è poco probabile che fosse già influenzato da essa.

Matsuoka sosteneva una “quadruplice intesa tra il Giappone, la Germania, l’Italia e l’URSS” che ricorda Der Kontinentalblock di Karl Haushofer. La Triplice Alleanza tra il Giappone, la Germania e l’Italia del settembre del 1940 e il trattato di neutralità tra il Giappone e l’URSS dell’aprile del 1941 danno provvisoriamente forma a quest’idea. Ma lo scoppio della guerra germano-sovietica nel giugno del 1941 la rende utopica. Bisogna allora chiedersi se la geopolitica ha influenzato Matsuoka quando il progetto gli è venuto in mente. Egli pensa di negoziare con le autorità americane per placare la tensione tra il Giappone e gli Stati Uniti nel Pacifico. Secondo lui, questa “quadruplice intesa tra il Giappone, la Germania, l’Italia e l’URSS” era strettamente politica [10]. In altre parole, egli voleva rafforzare il Giappone contro gli Stati Uniti, appoggiandosi sulla Germania, sull’Italia e sull’URSS. Si può dire quindi che il progetto di “quadruplice intesa” di Matsuoka è legato ad una politica di potenza più che ad una concezione geografica.

Nell’estate del 1940, prima della negoziazione per l’alleanza con la Germania e l’Italia, Matsuoka ha già pensato a questa Triplice Alleanza come un mezzo per migliorare le relazioni russo-giapponesi. È nel 1941 che Haushofer sviluppa la teoria del Kontinentalblock [11] Matsuoka anticipa Haushofer, non può essere stato influenzato da lui. È più logico pensare che Matsuoka ha un suo proprio senso politico conforme alle teorie geopolitiche. La politica della “sfera di coprosperità della grande Asia orientale” manca dunque di fondamenti geopolitici.

IL METODO GEOGRAFICO NEI SAGGI DI MASAMICHI ROYAMA

Masamichi Royama, professore di scienze politiche all’Università imperiale di Tokio (oggi università di Tokio), ha l’impressione che la spiegazione di Matsuoka è del tutto astratta e che la base e il contenuto di questa politica sono vaghi. Egli pensa sia necessario “valutare scientificamente e dare un fondamento” a questa politica “e allo stesso tempo fissarne il limite e il contenuto per quanto sia possibile”[12]. Ora, tutto il suo metodo è legato a quello geopolitico. Royama dice allora che “Dal punto di vista della geografia come disciplina, la nozione di regione determinata dalla sfera della coprosperità della grande Asia orientale non è mai stata stabilita. La sfera della coprosperità della grande Asia orientale si riferisce ad una regione storica e politica. Di conseguenza, essa non può che diventare oggetto della geopolitica dal momento che essa si occupa degli elementi soggettivi dei movimenti storici e degli artifici politici”[13].

Alla fine degli anni ’30, Royama sviluppa la sua teoria regionalista detta “teoria dell’associazione in Asia orientale” per fondare la politica del “nuovo ordine in Asia orientale”. In questa occasione, egli utilizza la geopolitica come metodo. Egli conosce per esperienza la sua utilità come scienza politica, il suo significato metodico, le sue caratteristiche e i suoi limiti[14]. È uno degli intellettuali giapponesi contemporanei che meglio comprende la geopolitica[15]. Avendo l’intenzione di proporre delle politiche realizzabili, egli utilizza questa scienza come logica per rafforzare le sue argomentazioni [16].

In una conferenza a novembre del 1940, Royama espone la sua visione geopolitica. Bisogna considerare “la sfera di coprosperità della grande Asia orientale” come un grande spazio in cui Grossraumwirtschaft e costruirla in quanto tale[17]. In un articolo pubblicato nella primavera del 1941, egli sviluppa la sua riflessione geopolitica sulla “sfera di coprosperità della grande Asia orientale”. Ma il suo punto di vista non è mai ottimista a differenza delle teorie esposte più tardi. “La sfera di coprosperità della grande Asia orientale” è formata da tre grandi regioni: (1) il continente eurasiatico, (2) la penisola continentale, (3) le isole del sud-ovest del Pacifico. E, nella misura in cui la loro esistenza è statica, vale a dire, nelle loro relazioni geografiche, naturali, economiche e politiche, nelle relazioni reciproche o coerenti di queste tre grandi regioni restano allo stato primitivo[18]. Così, dopo aver valutato la geografia della natura, della circolazione, dell’economia e della politica, che costituiscono la base statica della geopolitica, devo concludere che la realizzazione della sfera di coprosperità della grande Asia orientale è un artificio politico superficiale che chiede l’impossibile”[19].

Quando passa dagli aspetti statici ai movimenti storici, Royama identifica tre “movimenti storici che decideranno la sorte delle realizzazione della sfera di coprosperità della grande Asia orientale”:
1)     il movimento di formazione delle cellule madri basate sulla forma di vita antica degli Stati-nazioni,
2)     il movimento di formazione delle colonie imperiali costruite dalle potenze occidentali oceaniche o continentali,
3)     il movimento dei popoli per disporre di loro stessi allo scopo di liberarsi dalle colonizzazioni imperiali[20].

Royama afferma che questi tre movimenti storici che si oppongono a vicenda complicano la natura regionale della “sfera di coprosperità della grande Asia orientale”; questo perché essa manca di coerenza. Il movimento di formazione dei popoli per disporre di loro stessi allo scopo di liberarsi dalle colonizzazioni imperiali non è costante, anche se il movimento di formazione delle colonie imperiali costruite dalle potenze occidentali oceaniche o continentali è in evidente regresso. Royama ne deduce che “non si potrà mai vedere realizzata la sfera di coprosperità della grande Asia orientale finchè questi movimenti non si congiungeranno e confluiranno in un potente flusso, vale a dire, in un quarto movimento storico di formazione di una grande associazione regionale”. Ed egli crede che “il compito della geopolitica giapponese attuale deve essere quello di fornire tutti i materiali di costruzione, scientifici o idealistici, di questo movimento”[21].

Di conseguenza, Royama arriva alla seguente conclusione: “Dopo aver considerato i due aspetti della sfera di coprosperità della grande Asia orientale, la sua base statica e i suoi movimenti storici, legati al punto di vista geopolitico, devo dire che la creazione della sfera di coprosperità della grande Asia orientale non è facile. Gli uomini politici e il popolo lo desiderano, ma è un’impresa estremamente difficile. Fino ad oggi le condizioni geopolitiche non hanno permesso la creazione della sfera di coprosperità della grande Asia orientale”. Se la sfera di coprosperità della grande Asia orientale può formare una grande associazione regionale, dopotutto, ciò dipende dai giudizi psicologici di ogni nazione sulla questione di sapere se il Giappone può assicurare la sopravvivenza e il progresso di ogni nazione o no[22].

Royama  ha tentato di teorizzare la politica astratta e vaga della sfera di coprosperità della grande Asia orientale utilizzando la geopolitica. La sua riflessione è giunta alla conclusione che sarà difficile da realizzare. Non si può fare a meno di pensare che egli ha fallito nei suoi tentativi di appoggiarsi alla geopolitica. Royama era un uomo eccezionale che ha espresso un’idea pessimista riguardo la politica della “sfera di coprosperità della grande Asia orientale”. La storia ha dimostrato che le sue conclusioni erano corrette.

DUE SCUOLE GEOPOLITICHE PER UN PROGETTO POLITICO

Oltre a Royama, numerosi intellettuali contemporanei hanno discusso della politica della “sfera di coprosperità della grande Asia orientale” dal punto di vista geopolitico. Esistono due particolari scuole. Una è composta da specialisti che accettano la geopolitica tedesca senza criticarla realmente. Questo gruppo, attivo nella regione metropolitana di Tokio, collabora attivamente alla formazione e alla messa in atto delle politiche nazionali. L’altra è critica nei confronti della geopolitica tedesca come tutte le scuole occidentali e cerca di creare una geopolitica adatta al Giappone. Pertanto, come Royama, le due scuole condividono l’intenzione di dare una base geopolitica alla “sfera di coprosperità della grande Asia orientale”. Ma, diversamente da lui, esse presuppongono l’inevitabilità della sua realizzazione.

Nobuyuki Iimoto, professore di geografia alla Scuola normale femminile di Tokio (oggi Università femminile di Ochanomizu) si trova al centro della prima scuola. È l’erudito che ha tradotto la parola tedesca, Geopolitik, in giapponese: chiseigaku e l’ha introdotta in Giappone. È responsabile dell’Associazione giapponese per la geopolitica creata nel novembre del 1941, della quale fanno parte numerose personalità interessate a questa scienza: i ricercatori, gli uomini politici, i militanti, i giornalisti che conoscono la geopolitica tedesca. Il suo scopo è “di studiare la geopolitica, di ricercare geopoliticamente allo stesso tempo lo spazio giapponese terrestre e marittimo, il Lebensraum, e il contributo giapponese alle politiche nazionali per la costruzione e la difesa dello Stato”. La rivista Chiseigaku informa i suoi membri sulla geografia della regione asiatica e pacifica. Ma “la composizione dei membri era così diversa che l’associazione non ha pubblicato alcuna idea comune sulla definizione di geopolitica”[23].

geografi appartenenti a questa scuola prendono attivamente parte alle discussioni del progetto territoriale promosso dal governo. Sumio Hatano, professore di storia della politica e della diplomazia giapponesi all’Università di Tsukuba, dice che “essi condividono la coscienza di trovare nelle teorie del progetto del territorio il senso della lotta per sormontare il carattere urbano della cultura capitalista moderna”. Ciò li spinge a cercare di far rinascere “la cultura dello spirito agrario” come idea centrale del “progetto territoriale” perché essi comprendono che l’idea dominante dei progetti geopolitici della Germania è fondata sullo “spirito agrario”, che “sono proprio i paesani ad essere gli attori saldi della Germania” e che essi sono mobilitati dalla concezione politica che richiede il loro appoggio ai comuni rurali e dall’ingenuità del concetto di geopolitica giapponese ridotta alla “connessione di legami di sangue con quelli della terra”[24].

Si spera che la geopolitica fornirà una metodologia utile alla formazione del progetto politico, dal momento che questa nozione basata sullo spazio viene importata dalla Germania. Infatti, se questo progetto illustra la geopolitica, è indubbio che il suo impatto sia importante. Ne è prova il fatto che le discussioni su questo progetto si orientano gradualmente verso un’idea politica più conforme ai valori presenti in Giappone.

Tra le teorie di questa scuola, vengono avanzati due argomenti per spiegare una possibile estensione della sfera geopolitica giapponese verso l’Australia. Da una parte, Nobuyuki Iimoto chiama “Mediterraneo australo-asiatico” la zona ovest del Pacifico compresa tra l’Australia e il continente asiatico. Egli pensa che questa regione formerà una comunità unita con il Giappone perché i suoi elementi geografici (il clima, la natura del sole, l’etnia, l’economia, ecc.) sono identiche[25]. D’altra parte, Masaaki Kawanishi, professore di economia all’Università Takushoku sostiene, come Haushofer , “la necessità storica della formazione di un blocco che va da nord a sud” e spiega che il Giappone e l’Australia fanno parte della stessa sfera economica poiché sono situati sulla superficie della terra tra sessanta gradi e centoventiquattro gradi di longitudine[26].

Saneshige Komaki, professore di geografia all’Università imperiale di Kioto (oggi Università di Kyoto), si trova al centro della seconda scuola, chiamata hado no chiseigaku (geopolitica di tipo egemonico). Komaki ha una posizione critica riguardo la geopolitica tedesca, perchè essa “è coerente con l’ingrandimento del Lebensraum tedesco, cioè l’hadoshugi (idea di via egemonica) europeo”[28]. Egli critica la maggior parte dei geopolitici giapponesi che continuano a citare Haushofer e altri politici tedeschi[29]. Secondo lui,che teme che l’influenza tedesca, che comincia a dominare l’Europa, si espanda in Asia[30], urge che la Nippon chiseigaku (geopolitica giapponese) si distingua dal suo modello. Secondo Komaki, si tratta di una “scienza pratica” [31] e la sua idea principale deve essere la kannagara no michi (via shintoista) o la kodo (via verso l’imperialismo giapponese) che sostiene che “tutti i paesi del mondo devono acquisire una posizione conveniente e tutti gli uomini devono vivere nella tranquillità”[32]. È evidente che l’idea di Komaki si ispira a quella di Yosuke Matsuoka, pubblicata proprio dopo la dichiarazione della politica della “sfera di coprosperità della grande Asia orientale”. Komaki chiama lui stesso la Nippon chiseigaku la kodo no chiseigaku (geopolitica di via verso l’imperialismo giapponese)[33].

Allo scopo di fondare la politica della “sfera di coprosperità della grande Asia orientale”, Komaki ricorre a concetti che rimandano a delle nozioni proprie del Giappone come quelle reintrodotte di kokoku (paese imperiale giapponese), fukko-ishin (restaurazione), hakko-ichiu (una casa sotto il paradiso) nonché kodo (via verso l’imperialismo giapponese)[34] , mentre Masamichi Royama impiega delle nozioni geopolitiche comprensibili per gli Occidentali. Progressivamente, l’idea di Komaki si evolve dalla Nippon chiseigaku verso la Toa no chiseigaku (geopolitica dell’Asia orientale) e poi verso la Daitoa no chiseigaku (geopolitica della grande Asia orientale)[35]. Alla fine della guerra del Pacifico, egli sostiene infine l’idea della “costruzione di un nuovo ordine mondiale”[36], come se persistesse in una “geopolitica per l’egemonia mondiale”[37]. Come sottolinea Kimitada Miwa[38], è “un’idea del bene fondata sull’ingrandimento del Giappone a nome di kodo” e un’opinione “giapponese particolare capace di negare il valore della volontà politica degli altri”[39].

Come si è visto, la scuola di Komaki mantiene le distanze con l’autorità politica. Di conseguenza, qualsiasi politica nazionale riflette direttamente le sue opinioni. Ma è certo che essa traduce la più importante corrente di idee di quest’epoca in Giappone.

Dopo essere stata diffusa, la politica della “sfera della coprosperità della grande Asia orientale” diventa oggetto di discussione, in particolare riguardo i suoi fondamenti geopolitici. Le opinioni si orientano verso una forma di determinismo geografico o di idealismo. Masamichi Royama, uno dei pochi critici, ritiene che è difficile realizzarla. Dopotutto, malgrado numerose prove, nessuno è mai riuscito realmente a metterla in pratica. Questa constatazione potrebbe significare che questo progetto politico non si appoggia su alcun fondamento geopolitico.

Note
[1]        L’autore ringrazia Elisabeth de Touchet per averlo aiutato a tradurre questo articolo in francese.

[2]        Nel 1925, Nobuyuki Iimoto, professore di geografia alla Scuola normale femminile di Tokio (oggi Università femminile di Ochano­mizu), ha tradotto la parola tedesca Geopolitik in giapponese chiseigaku e ha introdotto questa scienza nel mondo scientifico giapponese (Nobuyuki Iimo­to, “Jinshutoso no jijitsu to chiseigakuteki kosatsu (1), ”Chirigaku hyoron tomo 1, n. 1). Nel 1934, Ichigoro Abe, Chiseijigaku nyumon (Koko­nshoin), presenta in dettaglio il pensiero tedesco in Giappone. Le opere di Rudolf Kjellen e di Karl Haushofer in seguito sono state tradotte e pubblicate (ad esempio, Kjellen, Staten som lifsformdes, da Sobunkaku nel 1936 ; Hausho­fer, Geopolitik des Pazifischen Ozeans, da Iwanamishoten nel 1942). Nel novem­bre 1941 infine viene creata l’Associazione giapponese per la geopolitica.

[3]        Il Giappone occupa la Malesia inglese, le Indie Nederlandesi, le Filippine, si allea alla Tailandia, e collabora con l’Indocina francese.

[4]        Nella “Direzione della politica nazionale fondamentale”, il governo impiega la frase “l’ordine nuovo nella grande Asia orientale”.

[5]        Arita e Masamichi Royama, professore di scienze politiche all’Università imperiale di Tokyo (oggi Università di Tokyo) sono membri di Showa Kenkyukai (Institut Showa), brain trust del principe Konoe.

[6]        Tokyo Asahi shinbun, 2 agosto 1940 (giornale della sera).

[7]        Kimitada Miwa, Matsuoka Yosuke, Tokyo, Chuokoronsha, 1971, p. 165.

[8]        Yosuke Matsuoka, Koa no taigyo, Tokyo, Daiichikoronsha, 1941, pp. 37-38.

[9]        Proposta di Matsuoka del dicembre 1936 (Denki Kankokai, Matsuoka Yosuke, Tokyo, Kodansha, 1974, p. 341).

[10]       Chihiro Hosoya, “Sangokudomei to Nisso churitsu joyaku,” Nihon Kokusaiseiji Gakkai, dir., Taiheiyosenso eno michi, tomo 5, Tokyo, Asahi shinbunsha, 1963, p. 261.

[11]       In Giappone, Rizaburo Asano, Nichi-Doku-So tairiku burokku ron è stato pubblicato da Tokaido nel maggio 1941.

[12]       Masamichi Royama, Toa to sekai, Tokyo, Kaizosha, 1941, p. 363.

[13]       Idem., p. 370.

[14]       Ibid., pp. 364-369 ; Kimitada Miwa, Nippon : 1945 nen no shiten, Tokyo, Tokyo daigaku shuppankai, 1986, p. 155.

[15]       Sumio Hatano, “Toashinchitsujo” to chiseigaku,” Kimitada Miwa (dir.), Nippon no 1930 nendai, Tokyo, Saikosha, 1980, p. 36.

[16]       Miwa, Nippon : 1945 nen no shiten, p. 155 ; Hisashi TakashiI, “Toakyodotai-ron”, Miwa, dir., Nippon no 1930 nendai, p. 62.

[17]       Masamichi Royama, “Daitoakoikiken-ron,” Taiheiyo kyokai (dir.), Taiheiyo mondai no saikennto, Tokyo, Asahi shinbunsha, 1941, pp. 1-2.

[18]       Royama, Toa to sekai, p. 370.

[19]       Idem., p. 372.

[20]       Ibid., p. 373.

[21]       Ibid., pp. 374-378.

[22]       Ibid., p. 380.

[23]       John O’Loughlin, dir., Chiseigaku jiten, Toyoshorin, Tokyo , 2000, p. 160 ; trad. da : Dictionary of Geopolitics, Westport , Greenwood Press, 1994.

[24]       Hatano, “Toashinchitsujo » to chiseigaku,” p. 26.

[25]       Nobuyuki Iimoto, “Nanyo to chirigaku,” Nobuyuki Iimoto et Hiroshi Sato, dir., Nanyo chiri taikei, tomo 1, Nanyo soron, Tokyo , Daiyamondosha, 1942, pp. 29, 122.

[26]       Masaaki Kawanishi, Toachiseigaku no koso, Tokyo , Jitsugyo no nip­ponsha, 1942, pp. 47, 398.

[27]       Questa è una delle caratteristiche di questa scuola (Hatano, “Toashin­chitsujo to chiseigaku,” p. 21).

[28]       Saneshige Komaki, Nippon chiseigaku oboegaki, Osaka, Akitaya, 1944, p. 51.

[29]       Kimitada Miwa Chihoshugi no kenkyu, Tokyo, Nansosha, 1975, p. 224.

[30]       Hatano, “Toashinchitsujo to chiseigaku,” p. 30.

[31] Saneshige Komaki, Nippon chiseigaku sengen, Tokyo , Hakuyosha, 1942, p. 177.

[32]       Komaki, Nippon chiseigaku oboegaki, p. 52.

[33]       Komaki, Nippon chiseigaku sengen, p. 178.

[34]       Sumio Hatano qualifica Komaki come “fatalismo mitologico” (Hatano, “Toashinchitsujo to chiseigaku”, p. 21).

[35]       Saneshige Komaki, Nippon chiseigaku, Tokyo, Daitoyubenkai kodansha, 1942.

[36]       Saneshige Komaki, Sekaishinchitsujo kensetsu to chiseigaku, Obunsha, Tokyo, 1944.

[37]       Hatano, “Toashinchitsujo to chiseigaku,” p. 30.

[38]       Professore onorario di storia delle relazioni internazionali e di storia giapponese moderna all’Università Sophia, Tokyo.

[39]       Kimitada Miwa, “Toashinchitsujo” sengen to “Daitoakyoeiken” koso no danso,” Kimitada Miwa, dir., Saiko Taiheiyosenso zenya, Tokyo, Soseiki, 1981, p. 219.

Traduzione a cura di Daniela Mannino

Perché la Russia sta sbagliando con Minsk

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Dopo il pesante arretramento strategico e geopolitico verificatosi con il crollo dell’Unione Sovietica alla fine del 1991 la Federazione Russa ha cercato, spesso con risultati non sempre gratificanti, di porsi alla guida di un processo di ricomposizione politico, economico e militare del frammentato ed instabile spazio post sovietico. Ad oggi quel processo, complesso, costoso e problematico, è lungi dall’aver raggiunto un livello soddisfacente per Mosca.

In un certo senso, le relazioni tra Mosca e Minsk offrono, a tutti coloro che sono interessati alle dinamiche politiche post sovietiche, un punto di osservazione privilegiato da cui poter comprendere quali siano le vere sfide che attendono il Cremlino in questo processo di ricomposizione di uno spazio vasto, popoloso, ricco di risorse e molto importante per gli equilibri di potere mondiali.

Come molti ben sapranno, in questo momento le relazioni tra i 2 Paesi non sono, per usare un eufemismo, propriamente idilliache, anzi. Come abbiamo avuto modo di ricordare in un precedente articolo sulla Bielorussia pubblicato sul sito di Eurasia, questa non è certo una novità, infatti, negli ultimi anni, le relazioni tra Russia e Bielorussia hanno mostrato un andamento ondivago caratterizzato da un alternarsi di momenti di grande intesa (si veda, ad esempio, gli accordi militari da cui sono scaturite le esercitazioni congiunte del 2009) con momenti di acute crisi politiche ed economiche (l’ultima, in ordine di tempo, è la guerra del gas dello scorso giugno) accompagnate da accuse reciproche amplificate dai media nazionali.

I motivi alla base di tale alternarsi di fasi di tensione e distensione nelle relazioni bilaterali, situaziona da cui nessuno dei 2 Paesi ottiene alcun reale vantaggio geopolitico in grado di giustificarne anche solo parzialmente la prosecuzione, sono molti e spaziano dalle questioni più puramente economico – commerciali fino ad arrivare a quelle più propriamente politiche passando attraverso le forche caudine dei non sempre eccellenti rapporti interpersonali, in particolare quelli tra il presidente bielorusso Lukašenko ed il primo ministro russo Putin.

La tesi che intendiamo difendere ed argomentare nella nostra analisi è la seguente: fermo restando che, come sopra affermato, entrambi i Paesi sono responsabili della situazione instabile e logorante venutasi a creare, ci sembra di poter affermare con una certa sicurezza che sia la Russia (perchè come dicevamo è Mosca e non Minsk che porta avanti un progetto ambizioso di riaggregazione dello spazio post sovietico) il Paese su cui principalmente ricade l’onere di resettare le relazioni con la Bielorussia instradandole su nuovi binari mostrando così la capacità creativa di immaginare, sviluppare ed implementare un progetto di ampio respiro, condiviso e mutualmente benefico per entrambi, uscendo in modo deciso e definitivo dalla situazione di stallo attuale.

Purtroppo però gli eventi dello scorso giugno, e le dichiarazioni che ne sono seguite, hanno gettato tutta una serie di dubbi sulle capacità del Cremlino di essere all’altezza del compito ambizioso che si è prefissato e, di conseguenza, saper scegliere i mezzi migliori per realizzarlo. Il minimo che si possa dire è che l’ultima crisi nelle relazioni con il piccolo ma importantissimo vicino occidentale è stata gestita in modo alquanto miope.

Non dimentichiamo che il modo con cui Mosca gestisce le relazioni con Minsk ha ripercussioni immediate su tutto lo spazio verso cui la Russia ambisce a giocare un ruolo guida. La politica incoerente messa in campo dal Cremlino nei confronti della Bielorussia (e non solo in occasione dell’ultima crisi ma ormai da una serie di anni) può rivelarsi controproducente per gli obiettivi geopolitici russi e favorire gli altri attori geopolitici che sfidano Mosca sull’enorme scacchiera eurasiatica, Cina in primis.

La Russia deve imparare dagli errori commessi e agire celermente per porre rimedio ad una situazione che potrebbe sfuggire di mano e danneggiare i propri interessi nazionali. Urge, come vedremo, la necessità di ricalibrare alcuni dei mezzi utilizzati ai fini che Mosca intende raggiungere.


Cronaca ragionata degli ultimi avvenimenti

Cominciamo innanzitutto con il presentare brevemente la dinamica dei fatti e la serie di commenti che da ambo le parti hanno accompagnato la vicenda dall’inizio alla conclusione ed oltre.

Tutti i nodi sono venuti al pettine il 21 giugno scorso quando Gazprom, su indicazioni del Presidente Medvedev, ha ridotto le forniture di gas a Minsk del 15%. Tale decisione è stata provocata dal rifiuto da parte della Bielorussia di pagare, come stabilito in un contratto stipulato il 31 dicembre 2006 che stabiliva una graduale transizione ai prezzi europei ed in cui era anche previsto uno sconto del 10% a Minsk, 169$ per 1000 m2 per il primo quadrimestre e 185$ per il secondo pagando invece 150$ fin dall’inizio dell’anno ed accumulando così un debito pari a circa 200 milioni di $.

La Bielorussia ha immediatamente riconosciuto di essere debitrice nei confronti di Gazprom ma ha anche ricordato al partner russo che egli stesso era debitore nei confronti di Beltrangas a cui doveva versare la cifra di 260 milioni di $ per il transito del gas russo verso l’Europa. Gazprom è stata così costretta ad ammettere a sua volta di essere debitrice verso Minsk senza tuttavia specificare l’ammomntare e accusando la Bielorussia di sabottare ogni tentativo di raggiungere un compromesso rifiutando di firmare i documenti necessari.

Con il passare dei giorni la crisi si è approfondita ed ampliata in termini geografici: Gazprom ha tagliato ulteriormente le consegne di gas alla Bielorussia fino ad arrivare ad un calo del 40% e dicendosi pronta a tagliare fino all’85% delle consegne e Minsk ha deciso, come forma di ritorsione, di appropriarsi di parte del gas russo diretto ai Paesi Europei al fine di mantenere attivo il proprio sistema di trasporto. Sebbene l’Unione Europea riceva solo il 6% del gas russo via Bielorussia alcuni Paesi hanno risentito pesantemente di tale decisione, in particolare la Lituania ha dovuto fronteggiare un crollo delle consegne di gas russo pari al 40%. Inevitabili le critiche europee verso tale decisione.

Il 23 giugno Minsk paga il suo debito con Gazprom e passa subito al contrattacco minacciando i colleghi russi di chiudere i rubinetti verso l’Europa se non pagheranno il loro debito. La crisi del gas, durata in tutto 4 giorni, si conclude, seppur con molte polemiche, quando Gazprom salda, secondo il proprio calcolo basato sui contratti firmati, il debito accumulato verso la Bielorussia che invece denuncia manchino ancora all’appello 35 milioni di $.

Fin qui la cronaca, vediamo adesso le dichiarazioni rilasciate durante e dopo la crisi da molti dei protagonisti. Tra le tante abbiamo selezionato quelle che a nostro avviso sono degne di nota per il loro impatto politico.

Come dicevamo, di fronte al tagli delle forniture iniziate il 21 giugno, la dirigenza bielorussa ha riconosciuto senza esitazione di essere debitrice e ha chiesto che le si concedesse un paio di settimane per mettere insieme la somma dovuta. La risposta a questa richiesta, che potremmo definire non così irragionevole, è arrivata dal portavoce di Gazprom Sergei Kupriyanov che seccamente afferma che nessuno avrebbe aspettato 2 settimane.

Il primo ministro Vladimir Putin, durante i pochi giorni della crisi, ha dichiarato che Gazprom era assolutamente giustificata dai contratti a ridurre le consegne fino all’85% ma che ciò non sarebbe avvenuto visto e considerato le relazioni speciali con i consumatori bielorussi. Successivamente ha poi sostenuto che ciò che la Russia pretende è il semplice rispetto dei contratti stipulati e quindi il versamento della somma dovutale. Infine, a circa un mese dalla conclusione dalla crisi, mentre si trovava a Foros, in Ucraina, per una visita ufficiale, Putin ha affermato che quando si tratta di soldi e/o energia ognuno vuole ottenere qualcosa gratuitamente dalla Russia e se ciò non accade punta i piedi… Il premier ha poi sottolineato come con la Bielorussia Mosca abbia adottato un approccio molto flessibile verso l’obiettivo di portare i prezzi a livello di mercato.

Anche lo stesso presidente russo Dimitri Medvedev sembra essersi posto sulla stessa scia del premier Putin usando però, come vedremo, toni molto meno diplomatici. Infatti, all’inizio della crisi Minsk aveva chiesto se fosse possibile saldare il debito pagando con macchinari, equipaggiamenti e beni vari ma il Presidente ha insistito affinchè il pagamento fosse fatto in valuta pregiata e dicendosi non interessato ai pancakes, al formaggio, al burro ed ai macchinari bielorussi!

Uno dei critici russi più importanti alle azioni e alle dichiarazioni russe è stato Gennadij Zjuganov, leader del partito comunista russo, il quale ha denunciato con forza sia la gestione dei rapporti con la Bielorussia in occasione dell’ultima guerra del gas sia le critiche, ai limiti dell’insulto personale, verso il presidente Lukašenko (si veda il documentario intitolato Il padrino trasmesso il 4 luglio dal canale russo NTV), uno dei più fedeli alleati che la Russia abbia. Il leader comunista ha inoltre criticato il prevalere degli interessi economici degli oligarchi sugli obiettivi geopolitici russi.

Infine, giova prendere in considerazione un paio di battute fatte dal Presidente Lukašenko che, contrariamente alla leadership moscovita, ha messo l’accento sulla dimensione politica dell’accaduto rispetto a quella economica. Il presidente bielorusso ha innanzitutto espresso la propria amarezza per il rifiuto di Mosca ad attendere un paio di settimane per dare modo a Minsk di raccogliere la somma e obbligando quest’ultima a chiedere un prestito all’estero per dover saldare un debito verso un Paese che si pensa come un amico ed un alleato. Inoltre, ha ribadito un principio cardine del modo con cui Minsk si relazioni con Mosca, vale a dire l’idea secondo cui se la Russia è veramente interessata ad avere relazioni più strette con la Bielorussia quest’ultima dovrebbe pagare meno per il gas ed il petrolio russo.


Adeguare i mezzi ai fini è la vera sfida per Mosca

Le azioni e le dichiarazioni compiute dalla leadership russa in occasione dell’ennesima crisi nelle relazioni con Minsk devono, a nostro avviso, essere giudicate come sostanzialmente errate e controproducenti. Vediamo di capire perchè.

Sebbene chi scrive sia perfettamente consapevole del fatto che le generalizzazioni debbano sempre essere utilizzate con molta cautela, ci sembra sia possibile affermare che nella sfera politica si valutino le scelte compiute da un attore a seconda del loro grado di congruenza con il perseguimento dell’obiettivo politico che tale attore si è posto.

Nel caso concreto diciamo che se la Russia si fosse posta l’obiettivo di diventare una sorta di ‘grande stazione eurasiatica’ per il rifornimento di gas e di petrolio le azioni intraprese nei confronti della Bielorussia negli ultimi tempi sarebbero più che coerenti al raggiungimento di quel fine. Se così fosse non vi sarebbe nulla da obiettare alle dichiarazioni rilasciate dal presidente e dal premier russo.

Tuttavia non è chiaramente questo l’obiettivo che la Russia si è posta: noi tutti ben sappiamo che essa aspira a realizzare un obiettivo geopolitico ambizioso, chiaramente non limitato alla sola sfera economica e che se realizzato avrebbe delle conseguenze non secondarie sull’intero sistema internazionale. È dunque chiaro a tutti che, se questo è l’obiettivo, allora è necessario che la Russia riveda al più presto i mezzi adottati onde evitare che il suo progetto rimanga un semplice wishful thinking. Questo purtroppo è un pericolo molto più concreto di quanto molti non siano pronti ad ammettere visto e considerato che negli ultimi 20 anni il numero di accordi ed intese siglate tra gli Stati post sovietici e rimasti semplicemente sulla carta è elevato.

Cerchiamo dunque di capire quali sono le correzioni che Mosca dovrebbe apportate alla propria politica estera per superare le incomprensioni con la Bielorussia e procedere più speditamente (e soprattutto più coerentemente) verso la realizzazione del proprio progetto di ricomposizione dello spazio post sovietico.

Le critiche mosse da Zjuganov sono molto interessanti e stimolanti. Infatti, se proviamo per un attimo a capire quale sia stato, dopo che la crisi si è conclusa, il guadagno, politico ed economico, ottenuto da Mosca si rimane un pò interdetti in quanto:

1) a fronte di 200 milioni di $ incassati, Gazprom ne ha dovuti sborsare 225. Qundi, facendo rapidamente i conti, ha perso 25 milioni di $;

2) ha prestato il fianco a tutti coloro che in Occidente accusano la Russia di essere un partner energetico inaffidabile visto e considerato che all’inizio della disputa i vertici di Gazprom avevano garantito che i consumatori europei non sarebbero stati minimamente toccati dal contenzioso;

3) è difficile capire come le relazioni con la Bielorussia (che come giustamente dice Zjuganov è uno degli alleati più fedeli su cui Mosca possa contare) ne abbiano tratto giovamento visto e considerato che la Russia non ha accettato né di attendere 2 settimane per ricevere il denaro né la proposta di un pagamento in beni bielorussi (oltretutto denigrati pubblicamente dal presidente Medvedev, perfettamente consapevole del fatto che le riserve bielorusse di moneta pregiata si sono vistosamente assotigliate negli ultimi anni).

L’unico guadagno, se così lo si può definire, che la Russia abbia ottenuto è quello del doveroso rispetto dei patti commerciali siglati, come il premier Putin aveva chiesto. Tuttavia, ci sembra fuori luogo definire questo un successo utile alla realizzazione del progetto politico di Mosca.

Qualcuno ha avanzato l’idea secondo cui l’azione di Mosca dovrebbe essere letta come una ritorsione verso due azioni compiute da Minsk e non gradite da Mosca. Nello specifico:

1) la decisione di posticipare la ratifica dell’accordo di unione doganale stipulato con la Russia ed il Kazakhstan il 27 novembre 2009;

2) l’aver compiuto alcuni passi di (timida) apertura verso l’Unione Europea (apertura spiegata da molti esperti come una ritorsione bielorussa contro la volontà di Gazprom di aumentarle i prezzi dell’energia). Oggi infatti la Bielorussia, seppur con molte limitazioni, è inserita nella cornice istituzionale della Eastern Partnership.

Fermo restando che si tratta di un’interpretazione che può essere rifiutata e confutata, diciamo che per quanto riguarda il secondo punto è probabile che la Russia, almeno per il momento, non abbia nulla da temere visto e considerato che Lukašenko non accetterà la roadmap europea verso la “democratizzazione” del Paese e da cui dipende la partecipazione piena della Bielorussia ai progetti europei rivolti ai vicini orientali. Più interessante per la nostra analisi è invece il primo punto. La notizia della ratifica dell’accordo è stata diffusa dalle agenzie di stampa il 3 luglio, pochi giorni dopo la conclusione della guerra del gas. Non è facile stabilire se ne sia stata la causa. Tuttavia, anche se lo fosse la Russia non dovrebbe vedere ciò come un innegabile successo, anzi. Una delle affermazioni ripetute più spesso dal Presidente bielorusso riguardano la volontà del suo Paese di conservare la propria sovranità, indipendenza e sicurezza (questo, a ben vedere, è un obiettivo gelosamente perseguito da tutti i Paesi sorti dalle ceneri dello Stato sovietico, Russia in primis) senza mai doversi piegare a nessun attore esterno. Questo dovrebbe far riflettere Mosca poichè significa che tutte le azioni intraprese dal Cremlino e percepite a Minsk, a torto o a ragione, come ‘pressioni indebite’ rischiano di far deteriorare ulteriormente le relazioni tra i due Paesi, affossare i sogni russi e gettare al vento quanto fin qui realizzato dalla cooperazione bilaterale. L’avvenuta ratifica quindi potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro per Mosca se poi la Bielorussia decide di non collaborare sinceramente al progetto.

Quello che serve per uscire da questa sorta di circolo vizioso è, innanzitutto, un grande sforzo da parte russa al fine di conseguire due obiettivi importanti e strettamente correlati:

1) poichè lo spazio post sovietico è ancora in attesa, a 20 anni dal crollo dell’URSS, di una nuova cornice istituzionale forte e legittimata dalla partecipazione di tutti gli attori presenti, Mosca dovrebbe mostrare di possedere la capacità di elaborare un progetto istituzionale di collaborazione a 360° che sia flessibile, inclusivo, rispettoso dell’indipendenza della Bielorussia (e di tutti gli altri si intende) ed aperto alle sue istanze;

2) la Russia deve affinare gli strumenti appartenenti al cosiddetto soft power e la propria capacità di condurre efficaci campagne di public relations al fine di spiegare al popolo bielorusso ed alla sua elite politica l’importanza e l’utilità del progetto istituzionale di cui si fa portatrice sottolineando che non solo non esiste alcun pericolo di perdere sovranità ed indipendenza ma vi è anche la possibilità di ottenere molti vantaggi prendendo attivamente parte al progetto russo di ricomposizione dello spazio post sovietico;

Raggiungendo questi 2 obiettivi la Russia risolverà, in modo ottimale per entrambi, il timore che attanaglia quasi tutti i partner minori di una grande potenza con un grande disegno, vale a dire quello di essere dominati.

È chiaro che la Russia deve, e gli ultimi avvenimenti gettano un’ombra sinistra sul fatto che Mosca voglia e/o possa farlo, essere pienamente consapevole del fatto che al fine di ottenere dividendi politici domani è necessario rinunciare a qualche beneficio economico oggi. Ennesima dimostrazione di come i tempi e le logiche della politica spesso non coincidano con quelli dell’economia, almeno nel breve periodo. Per fare ciò la Russia deve accelerare il processo di modernizzazione (che per il momento, per vari motivi che qui non possiamo trattare in questa sede, stenta a prendere slancio) al fine di essere, economicamente parlando, un passo avanti rispetto agli alleati e avere la possibilità economica (e chiaramente la volontà politica) di fare concessioni economiche nella fase di edificazione delle istituzioni che faranno perno su Mosca e daranno di nuovo coerenza e stabilità allo spazio post sovietico e di fornire successivamente i beni pubblici internazionali (come la sicurezza) che lo Stato guida deve garantire agli alleati che avranno accettato di legare i propri destini a quelli di Mosca.

Se quanto appena affermato è corretto allora non possiamo che constatare che sotto questo profilo la strada che la Russia deve percorrere è ancora lunga. Gli ultimi avvenimenti sembrano mostrare come apparentemente Mosca, per necessità o per convenienza, abbia perseguito più logiche economiche che non politiche. Anche l’accordo di unione doganale, a cui comunque bisogna riconoscere il beneficio del dubbio, sembra rafforzare questo punto di vista. L’accordo è molto più modesto di quanto si possa pensare per tutta una serie di motivi: ci sono circa 400 eccezioni al movimento dei beni; vengono mantenuti i controlli alle frontiere; rimangono in piedi le barriere non tariffarie e i sussidi; la Russia mantiene le tasse sull’esportazione sul petrolio ed i prodotti petrolifici verso la Bielorussia e quest’ultima applica le proprie tasse sull’esportazione del greggio russo che transita sul proprio territorio. Inoltre il nuovo accordo di unione doganale non prevede la creazione di una politica doganale unica. Infine, la Russia si aggiudicherà l’86.5% delle tasse raccolte, il Kazakhstan l’8.5% e la Bielorussia il 5% (i suoi tentativi di ottenere un semplice 0.3% in più sono stati vani…).

Sotto il profilo economico il comportamento di Mosca è più che legittimo, se però sia anche in linea con gli obiettivi politici di lungo periodo è un altro paio di maniche. Siamo del parere che anche in questo caso è la Russia che avrebbe dovuto aver il coraggio di fare qualche rinuncia economica e qualche gesto simbolico in più.

Nei confronti dell’alleato bielorusso mostrare gradualismo verso il passaggio ad un regime di prezzi di mercato per l’energia fornita non ci sembra sufficiente, perché si dimentica il problema fondamentale che da sola la dirigenza bielorussa non può risolvere: le riforme strutturali del sistema economico. Crediamo che il modo per aiutare Minsk non consista nel riabbassare i prezzi dell’energia e contribuire a tenere in piedi un sistema economico che presenta molte crepe bensi nel pianificare ed implementare una sorta di roadmap economica condivisa al fine di aiutare la Bielorussia a rilanciare la propria economia e renderla più competitiva uscendo in modo costruttivo da una congiuntura difficile. Da tale risultato la Russia ne ricaverebbe grandi vantaggi politici in futuro poiché un alleato economicamente solido può contribuire in misura maggiori alle spese di mantenimento del sistema istituzionale incentrato su Mosca ed evitare di pesare troppo sulle casse di quest’ultima.


Riflessioni conclusive

Come abbiamo dimostrato le relazioni tra Russia e Bielorussia stanno attraversando ormai da qualche anno una fase di stallo che rischia di logorare l’alleanza tra i due Paesi. Sebbene Minsk abbia la sua parte di responsabilità è la Russia che ha il dovere di risolvere in modo definitivo e vantaggioso per entrambi una crisi che rischia di mandare all’aria il progetto ambizioso di Mosca di mettersi alla guida di un processo di ricomposizione del fragmentato spazio post sovietico, al fine di tenere sotto controllo gli appetiti di altri soggetti geopolitici che si pongono verso il progetto russo se non in aperto contrasto comunque in competizione.

Calmare i timori che Minsk nutre verso una possibile perdita di indipendenza, aiutarla ad avere un’economia solida in grado di pagare gas e petrolio a prezzi di mercato ed invitarlo a prendere parte attiva ai progetti che Mosca nutre verso tutto lo spazio post sovietico è il più grande favore che la Russia possa fare a se stessa (in quanto avrebbe un effetto trainante sugli altri Paesi post sovietici che nutrono timori ed aspettative simili a quelle bielorusse spronandoli così ad attivarsi per avere voce in capitolo nel progetto moscovita senza più paure), alla stabilità mondiale ed al rafforzamento del sistema multipolare.

Se questo accadrà dipende soprattutto dalla capacità di Mosca di portare avanti con successo la modernizzazione e lo sviluppo economico del Paese. Ciò è sicuramente la conditio sine qua non, ma chiaramente da sola non basta, serve, come già anticipato, la volontà politica e la capacità di saper rinunciare ad un semplice guadagno economico oggi per intascarlo domani caricato degli interessi politici. Per tale motivo crediamo che Mosca debba ricalibrare meglio i propri mezzi per superare lo stallo con la Bielorussia e prendere slancio nello spazio post sovietico. La Russia deve capire questo alla svelta ed agire senza perdere un attimo di tempo: infatti gli attori geopolitici non dormono mai, compresi gli avversari della Russia…


* Alessio Bini, dottore in Relazioni internazionali (Università di Bologna), collabora con “Eurasia”

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Il Baluchistan tra terrorismo, narcotraffico e diplomazia

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Lo scorso 19 luglio, l’Iran chiedeva con fermezza al Pakistan la consegna di alcuni terroristi appartenenti al gruppo sunnita Jundullah, in caso contrario l’esercito della Repubblica Islamica avrebbe attraversato legalmente i confini pakistani.

La minaccia di un raid, segue l’ultimo attacco terroristico avvenuto a Zahedan, capoluogo della provincia sud-orientale iraniana del Sistan-Baluchistan, il 15 luglio, in una delle due moschee shi’ite più importanti della città, e che ha visto  27 morti e centinaia di feriti.

L’attentato, è stato rivendicato proprio da Jundullah, come reazione alla recente esecuzione del leader ‘Abd al-Malik Rigi (l’impiccagione risale al 20 giugno scorso), la cui cattura era avvenuta il 23 febbraio in circostanze e con modalità non ancora chiarite.

Jundullah (L’Esercito di Dio), è un’organizzazione di matrice sunnita che inizia ufficialmente la sua attività sotto questo nome nel 2002. Guidata da ‘Abd al-Malik Rigi, si dichiara movimento armato per la rivendicazione dei diritti della minoranza balucha. La sua principale area di azione, è la sopraccitata provincia iraniana del Sistan-Baluchistan.

Nel corso degli anni, l’Iran ha ciclicamente accusato gli Stati Uniti di sostenere e finanziare Jundullah in un gioco atto a destabilizzare la Repubblica Islamica dall’interno. Nonostante situazioni analoghe si siano già verificate in passato, come nel caso dei finanziamenti ai Taliban, e di quelli dell’amministrazione Bush figlio al PJAK (Partito per la libera esistenza del Kurdistan, gruppo militante kurdo), queste accuse sono sempre state rigettate.

Circa il Sistan-Baluchistan, ci sono alcuni elementi da prendere in considerazione nell’analisi del recente e ciclico acuirsi delle tensioni in quest’area:

a)  La storica regione del Baluchistan si divide tra Iran, Pakistan e Afghanistan. Si tratta, non solo di aree estremamente povere e arretrate, ma, nello specifico caso di Iran e Pakistan, di province tra le più ampie e popolose.

b)  La popolazione della Repubblica Islamica dell’Iran è per il 92% di fede shi’ita. È in questo contesto che si inserisce la questione della popolazione dei baluchi, minoranza sunnita con una propria lingua e strette relazioni con i vicini baluchi del Pakistan.

c)  Secondo i report del UNODC ( United Nation Office on Drugs) l’Afghanistan detiene, già da anni, il primato della produzione mondiale di oppio (si parla di oltre il 90%), e i confini tra Afghanistan, Pakistan e Iran, sono uno dei principali teatri per crimini legati a traffico di droga, armi, riciclaggio di denaro sporco e business legato ai rapimenti. L’Iran in particolare, è un corridoio ideale per il passaggio attraverso la Turchia  e verso i mercati europei.

d)  Infine, l’area del Sistan-Baluchistan, è protagonista di un grande gioco strategico che ruota intorno allo storico progetto del gasdotto IPI (Iran-Pakistan-India), meglio conosciuto con l’evocativo nome di Gasdotto della Pace.

Questo ambizioso progetto vede la luce intorno al 1994, e prende lo pseudonimo di cui sopra in virtù del fatto che  in origine avrebbe previsto la stretta collaborazione di due potenze storicamente in conflitto come Pakistan e India. Tensioni politiche, pressioni esterne e conflitti sui costi complessivi dell’opera, hanno fatto slittare il tutto sino ad oggi.

Il 25 giugno dell’anno corrente, proprio due settimane dopo che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si è trovato a votare favorevolmente per l’imposizione di nuove sanzioni all’Iran, la Repubblica Islamica e il  Pakistan, hanno firmato un accordo per avviare una versione ridotta del gasdotto (1100 km rispetto agli inizialmente previsti 2600). Nel frattempo infatti, l’India si è, almeno per il momento, chiamata fuori dal progetto, lasciando libero il campo, oltre che a un panorama fatto perlopiù di incertezze, a possibili trattative per il subentrare della Cina.

È in questo contesto estremamente instabile e in un’area oggetto degli interessi più disparati, che opera Jundullah. Certo, non solo. È infatti il Pakistan area nota per la presenza di gruppi terroristici, dai Talebani, ai Lashkar-e Tayba, o Esercito del Bene, responsabili degli attentati del 2008 a Mumbay.

Quanto alle azioni dell’Esercito di Dio, alcune tra le più clamorose, hanno avuto luogo proprio nel corso dell’ultimo anno e mezzo. Ricordiamo le esplosioni e i 25 morti nella Moschea di Zahedan del 28 maggio 2009, e le 42 vittime, di cui sei alti ufficiali dei Pasdaran (i Guardiani della Rivoluzione) del 18 ottobre dello stesso anno. In entrambi i casi si trattava di occasioni simboliche (i festeggiamenti per il compleanno di Fatima, la figlia prediletta del Profeta Muhammad, e un’assemblea tra capi tribù shi’iti e sunniti), in cui poter colpire non solo civili comuni, ma anche obbiettivi di più alto livello.

Così come nel più recente caso del 15 luglio, a seguire sono state sollevate accuse dirette a ovest, accuse secondo le quali Stati Uniti e Gran Bretagna sarebbero complici del tentativo di minare una presunta unità tra shi’iti e sunniti.

Come già accennato, L’esecuzione, avvenuta il 20 giugno scorso, del capo di Jundullah, è seguita a un arresto dai contorni poco chiari. Fonti ufficiali riferiscono che la presa in consegna da parte delle autorità di Rigi, sia stata opera di un Iran solista. Affermazione non verificata e rispetto alla quale sembra più credibile l’ipotesi di un’azione coordinata tra servizi segreti iraniani e pakistani, (forse anche statunitensi e inglesi). L’agenzia Fars riferisce infatti che Rigi, intercettato su un volo Pakistan-Dubai, e fatto atterrare a Bandar Abbas, sarebbe stato precedentemente ospite di una non meglio specificata base militare statunitense.

Tornando agli ultimi fatti, se è vero che il 19 luglio le agenzie stampa di tutto il mondo diffondevano la notizia delle richieste e minacce di sconfino dell’Iran al Pakistan, è anche vero che un’ansa dell’agenzia ufficiale IRNA, appena due giorni dopo, parlava di una telefonata del Primo Ministro pakistano Sayyed Yusuf Raza Gilani al vice segretario del Primo Ministro iraniano. Argomento della comunicazione, il rinnovato impegno per una collaborazione nello sviluppo dei sistemi di sfruttamento di gas e petrolio, impegno per la presa in consegna dell’Iran del progetto per la costruzione del settore Noshki-Dalbandin di una via di collegamento tra i confini dei due paesi, impegno per gettare le basi di una maggiore collaborazione tra le regioni del Sistan-Baluchistan iraniano con il Baluchistan pakistano.

Le minacce del 19 luglio rimbalzate da un’agenzia stampa all’altra non sono da sottovalutarsi, ma non è da escludersi  l’ottica di un gioco diplomatico finalizzato ad ottenere non tanto la consegna di alcuni membri del Jundullah, quanto l’ulteriore assicurazione di una stretta collaborazione per la costruzione del gasdotto, il cui progetto resta comunque fortemente incerto per molteplici questioni.

* Ginevra Lamberti è laureanda in Lingue e Culture dell’Eurasia e del Mediterraneo (Università Ca’ Foscari di Venezia)

La Germania: un nuovo binario per la modernizzazione della Russia.

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L’estate 2010 sarà ricordata per un rafforzamento dei rapporti tra la Germania e la Russia. Nel giro di un mese, il presidente russo Dmitri Medvedev e la cancelliera tedesca Angela Merkel si sono incontrati per ben due volte.

Il primo incontro è avvenuto il 5 giugno nel castello di Meseberg, quaranta km a Nord di Berlino: momento proficuo per lavorare intorno ad una nuova proposta russo-tedesca di sicurezza europea.

Il secondo, invece, si è tenuto il 15 luglio ad Ekaterinburg, in occasione del decimo forum per il dialogo tra i due Paesi.

La Russia e la Germania da nemici storici sono divenuti grandi alleati, determinando che le due visite aprono nuove prospettive su scenari diversi: dagli equilibri internazionali con la rinascita dell’asse Mosca – Berlino ed il progetto di una Mitteleuropa, fino alla politica interna, cioè nel cuore del sistema russo.

La Germania oggi è un treno su doppio binario, capace, da un lato, di condurre la Russia e l’Unione Europea verso una gestione comune del problema della sicurezza, e dall’altro, di spingere verso una modernizzazione della Federazione Russa.

Scegliamo di porre la nostra attenzione sul secondo aspetto, perché crediamo che la Russia uscirà da una posizione periferica nel discorso della sicurezza in Europa, solo quando sarà dotata di una solida base economica e democratica, pronta a reggere grandi obiettivi.

Il dialogo di Pietroburgo

Le relazioni tra la Russia e la Germania in generale hanno iniziato ad avere un impianto stabile, a partire dal 2001, anno di fondazione del cosiddetto “Dialogo di Pietroburgo”. Il forum è nato su iniziativa dell’allora presidente russo Vladimir Putin e del precedente cancelliere tedesco Gerhard Fritz Kurt Schröder.

Gli scopi principali di questa piattaforma sono la promozione di un dialogo costruttivo tra i rappresentanti di tutte le sfere della vita pubblica, al fine di avviare una serie di progetti comuni in vari settori: dall’economia alla cultura e la salute.

Ogni anno, si svolge una conferenza generale, a turno in Russia ed in Germania, per discutere intorno ad un tema comune da diversi punti di vista. I rappresentanti del forum, infatti, in base alle proprie competenze sono suddivisi in gruppi di lavoro tematici: Politica, Economia, Educazione e Scienza, Media, Società civile, Chiese di Europa, Laboratorio del Futuro e Cultura.

L’ultima conferenza di luglio ha riguardato “la società russa e tedesca nei prossimi dieci anni”.

Il dialogo di Pietroburgo, come è possibile rilevare dai gruppi di lavoro e dalle tematiche, non è una forma istituzionale che interviene nel campo della sicurezza, ma in quello della cultura. Non ha apportato, infatti, alcun progresso nella definizione delle aree di controllo o di interesse sullo scacchiere internazionale, ma è riuscita nel tempo a divenire la sede di trattative economiche interessanti.

Nuovi investimenti tedeschi a sostegno del piano “Go, Russia!”

Nel contesto del dialogo di Pietroburgo è stato firmato l’ultimo accordo di Ekaterinburg che porterà in Russia un investimento da parte della compagnia Siemens, pari a 2,2 miliardi di euro. La Germania rifornirà la Russia di oltre 200 treni regionali, creerà una joint-venture per la costruzione di turbine eoliche, contribuirà alla logistica dei prossimi giochi invernali a Sochi e parteciperà al nuovo progetto di una Silincon Valley a Skolkovo, vicino Mosca. Mentre gli investimenti russi saranno alquanto minimi e meno importanti: l’Aeroflot acquisterà una serie di aerei dall’Airbus e Gazprom entrerà nel campo dell’energia rinnovabile e del mondo automobilistico tedesco.

Il fatto che gli investimenti tedeschi in Russia raggiungono circa 20 miliardi di dollari ogni anno, non deve apparire una semplice voce tra le tante, che contribuiscono al profitto economico del paese. Basti pensare ai proventi che ottiene la Russia esportando il 33% del gas in Germania.

Quest’ultimo accordo risulta interessante per il settore a cui sono destinati i nuovi investimenti tedeschi. La compagnia Siemens, infatti, parteciperà nell’implementazione del progetto russo a favore della nascita di un centro di innovazione tecnologica. Scegliere di sostenere questo obiettivo piuttosto che un altro, significa appoggiare il nuovo piano di Medvedev dal titolo Russija, Vperёd! (Avanti, Russia!).

Medvedev si propone cinque priorità per avviare un processo di modernizzazione nel Paese. Vuole puntare sull’efficienza nella produzione, nel trasporto e nell’energia. Crede, in special modo che sia arrivato il momento di sostenere una crescita tecnologica di qualità collegata ad una serie di infrastrutture terrestri e spaziali destinate al trasferimento di tutti i livelli di informazione. A questi obiettivi si aggiunge la volontà di assumere un ruolo leader nella produzione di alcuni tipi di attrezzature mediche.

Angela Merkel diventa, così, un forte alleato del nuovo progetto di uscita dalla crisi economica di Medvedev e del raggiungimento di nuove strade di sviluppo economico, che vadano oltre l’esportazione di energia in Europa.

La Germania è cosciente, infatti, che sia preferibile stringere un’alleanza strategica con un forte e sicuro partner economico, piuttosto che uno debole. La crescita economica è consigliata come l’unica strada per assicurare la stabilità interna ed evitare il sorgere di caos sociali. Obiettivo che nella stessa esperienza tedesca ha permesso di superare i ritardi tra le diverse zone geografiche del Paese e diventare una grande potenza, pronta ad assumere il ruolo di guida dell’intera Unione Europea.

Il presidente russo così, è richiamato ad introdurre una serie di meccanismi di rinnovamento nel proprio sistema interno per assicurarsi una partnership economica nel tempo. Il primo obbligo è impegnarsi per un pieno rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani, mentre il secondo è garantire un aumento della mobilità degli operatori in economici dall’Europa alla Russia e viceversa.

Un’economia forte senza democrazia ed apertura delle frontiere non è possibile.

La notizia di un’uccisione di un giornalista o attivista per i diritti umani in Russia rappresenta, ogni volta, motivo di sospetto verso le istituzioni statali.

I ritardi nella tutela dei diritti umani e delle libertà personali se non risolti in tempo breve, potrebbero incidere contro produttivamente sul progresso economico generale e sulla gestione delle relazioni diplomatiche.

Il presidente Dmitri Medvedev è cosciente del fatto che un semplice pregiudizio possa infangare tutti i suoi sforzi per assicurare un ruolo di potenza alla Russia, giacché potrebbe chiudergli la strada all’appoggio internazionale.

Le ultime dichiarazioni di Medvedev alla stampa rispetto all’uccisione dell’attivista Natalia Esterimova, in occasione dell’anniversario della sua uccisione, rappresentano un impegno di trasparenza in materia di giustizia ed un reale richiamo alla magistratura affinché svolga pienamente il suo dovere senza alcuna intromissione o deviazione dall’alto.

Ad un’ampia mobilità presente nel territorio dell’Unione Europea, inoltre, si contrappone una chiusura delle vie di accesso in Russia soggetta a saldi vincoli burocratici discordanti con la velocità richiesta dagli scambi economici.

Per aprirsi ad una partnership europea, la Federazione Russa dovrebbe mettere in discussione, perciò, il proprio sistema di visti che limitano fortemente i contatti nel mondo degli affari.

Una maggiore flessibilità nella concessione dei visti è attesa dalla Germania, ma non è richiesta da tutti i paesi dell’Unione Europea.

I Paesi baltici, in particolare, dopo essere riusciti a svincolarsi dalla precedente storia sovietica, hanno paura di una nuova intromissione della Russia nei propri affari interni, giacchè sono i primi nell’UE a confinare con la Federazione Russa.

Conclusioni

La difesa dei diritti umani ed il problema dei visti costituiscono delle questioni importanti per la cancelliera Angela Merkel, tanto da far dipendere da queste molte delle scelte future rispetto alla conduzione delle relazioni con la Russia.

Nello stesso tempo, una gestione positiva delle relazioni internazionali per Medvedev è essenziale, giacchè da esse deriva la forza del Paese e della sua stessa posizione.

La Russia è cosciente che lo sviluppo è direttamente collegato alla presenza sui mercati esteri ed è pronta a fare dei sacrifici per conservare il proprio progetto di partnership con la Germania, ma senza rinuciare alla propria natura di democrazia sovrana

I passi lenti di Medvedev in materia di visti, prima di tutto, sono direttamente collegati alla volontà di non inimicarsi i paesi baltici. La Russia e la Germania sono, infatti, partner del progetto “Nord Stream” che prevede la fornitura diretta di gas al territorio tedesco ed al resto dell’Unione Europea, passando sotto il Mar Baltico e non attraverso l’Ucraina.

Il riconoscimento internazionale di Medvedev come leader, indipendentemente dall’esistenza del tandem governativo con Putin, è importante ma per essere accolto completamente, serve una piena conoscenza dello schema di “democrazia sovrana” esistente in Russia.

Lo sviluppo della Russia come potenza mondiale ed il risollevamento dopo l’era di Eltisin è direttamente collegato ad una centralizzazione del potere. Il sostegno estero è importante, ma il polmone vitale russo è nella legittimazione popolare di Edinaja Rossija ad ogni tornata elettoriale.

Le modalità per spingere avanti il Paese, fino a che sarà applicata l’idea progettuale di Surkov, sono affidate al partito, e Vladimir Putin come segretario di esso svolge un ruolo di programmazione e non di offuscamento dell’operato di Medvedev.

Qualsiasi aggiustamento o nuova scelta economica proveniente, ma non dettato dall’esterno, capace di apportare benefici aventi natura positiva per lo sviluppo democratico ed economico del Paese sono ben visti. Una cosa certa è che fino ad ora, l’unione del concetto di autocrazia a quello di democrazia sta garantendo almeno l’equilibrio interno e la capacità di resistere su uno scenario globale.

* Luciana Marielle Ranieri è dottoressa in Scienze Politiche (Università l’Orientale di Napoli)

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Il Giappone fra normalizzazione e richiesta di sovranità

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La scorsa settimana dopo aver appreso la notizia del ritorno in auge dell’ideologia dell’ombrello nucleare ho visto me stesso seduto nel mio studio in piena notte…Un vecchio immobile sotto il peso di un immenso sdegno” Kenzaburo Oe – scrittore Premio nobel nel 1994 – il 7 agosto 2010

L’occasione del 65° anniversario delle stragi di Hiroshima e Nagasaki ci offrono l’opportunità di concentrare l’attenzione sulle ultime configurazioni della politica giapponese. Alla presenza dell’ambasciatore Usa alle commemorazioni – la prima volta nella storia per un rappresentante statunitense – si sono accompagnate numerose polemiche, per esempio ad opera del presidente dell’associazione dei sopravvissuti Kazushi Kaneko, in quale ha accusato l’ambasciatore John Ross di non aver accennato a scuse per quel “gigantesco errore umanitario” e di non aver “nemmeno deposto un omaggio floreale”.

Evidentemente tali dichiarazioni si pongono sulla scia degli sviluppi recenti del dibattito sui rapporti Usa-Giappone. Come si può ricordare l’elezione del premier Yukio Hatoyama fu accompagnata dalla volontà dell’esecutivo di ripensare la decennale sudditanza militare e politica nei confronti di Washington; dalla commissione d’inchiesta sui trattati segreti, alle polemiche sul peso economico per i giapponesi delle istallazioni militari Usa, fino alle proteste – appoggiate da gran parte delle istituzioni – per il riposizionamento della base di Okinawa fu un crescendo di rivendicazioni di sovranità.

Tutto questo portò però alle dimissioni dello stesso Hatoyama (impossibilitato a raggiungere i propri obiettivi) ed alla “normalizzazione” del governo con la nomina a premier di Naoto Kan. Quest’ultimo, ai primi di agosto, ha avuto modo di richiamare l’importanza per il Giappone di continuare a posizionarsi sotto l’ombrello (nucleare) Usa in modo da intergare le “forze di autodifesa” in una sorta di nato estesa fino al Pacifico(1); ciò comporterebbe fra l’altro l’autorizzazione formale nei confronti degli Stati Uniti a immagazzinare le atomiche in Giappone: in realtà è una certezza che dal 1945 gli Usa controllino atomiche presenti nell’arcipelago nipponico, ma illegalmente, o meglio, secondo il dettato dei trattati segreti dovuti firmare da Tokio dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale.

Quindi la parabola della ricerca di sovranità sembra in fase discendente, gli Stati Uniti infatti non possono permettersi di perdere (o di veder messo in discussione)  l’utilizzo del Giappone e in particolare dell’isola di Okinawa  fondamentali per il controllo del Pacifico. (2)

Però se i ripensamenti del rapporto privilegiato con Washington sono stati possibili a causa di un crescente multipolarismo che porta i “Paesi emergenti” a cercare maggiore libertà di manovra, ciò significa che non sarà facile per il governo Usa troncarli, anche perché mentre il governo giapponese per ora sembra essere stato “normalizzato”, varie istituzioni locali e l’opinione pubblica continuano a chiedere la fine di un rapporto evidentemente sbilanciato in favore degli Stati Uniti. Lo confermano le numerose presenze – anche da parte dei vari partiti – alle manifestazioni di Okinawa (3) e per esempio le parole dello stesso sindaco di Hiroshima Tadatoshi Akiba che invita l’esecutivo ad “abbandonare l’ombrello atomico Usa e guidare il movimento internazionale per il disarmo”. In realtà la seconda parte di questa dichiarazione ha più un sapore populista e paga dazio ai decenni di programmi culturali decisi oltre-oceano essendo proprio l’amministrazione Usa a propagandare il disarmo atomico ( lo stesso ambasciatore Ross ha auspicato “un mondo senza armi nucleari”), ma allo stesso tempo aumentando il bilancio militare per acquisire un vantaggio ancora maggiore sulle armi convenzionali, le uniche oggi utilizzabili nei vari scenari di guerra creati proprio dagli Usa. In realtà le armi atomiche a parte il loro funesto utilizzo da parte degli Stati Uniti, hanno avuto una funzione di deterrenza ed equilibrio, ma nel caso giapponese – essendo tali armi controllate da Washington – sanciscono la sovranità limitata e la dipendenza di Tokyo.

In definitiva continua in tutta evidenza lo sforzo nord-americano al mantenimento del Giappone in un ruolo subordinato evidenziato dal cambio di premier e rinforzato dallo spauracchio rappresentato da Cina e Corea del Nord; l’obiettivo – legittimare e legalizzare ed assicurare una situazione di dipendenza di fatto esistente da 65 anni – continuerà però ad incontrare sulla propria strada gli ostacoli rappresentati dagli sconvolgimenti geopolitica in atto, attraverso la definizione di nuovi equilibri tendenti ad un multipolarismo, che porteranno naturalmente i dirigenti scrupolosi e l’opinione pubblica giapponesi a ripensare le situazioni ormai non convenienti e anti-storiche.

Note:

1) Kan vuole riarmare il Giappone a fianco degli Stati Uniti http://www.eurasia-rivista.org/5401/kan-vuole-riarmare-il-giappone-a-fianco-degli-stati-uniti

2) Okinawa: la “chiave di volta” del Pacifico http://www.eurasia-rivista.org/4756/okinawa-la-chiave-di-volta-del-pacifico (da qui è possibile ricostruire seguendo i links la situazione da settembre 2009 ad oggi)

3) Okinawa in piazza contro la base USA http://www.eurasia-rivista.org/3960/okinawa-in-piazza-contro-la-base-usa

Sudamerica: il problema dell’acqua dolce

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Nel sistema mondiale possiamo distinguere almeno sei regioni che acquistano una grande importanza geopolitica per la presenza di alcune risorse strategiche tra le più ambite dalle potenze. Queste sono: l’Artico, l’Antartide, il Sudamerica, l’Europa con il Mare del Nord, l’Asia Centrale con il Golfo Persico e il Mar Caspio, e il Mare della Cina Meridionale.

Attualmente, il Mare del Nord non è uno scenario conflittuale, anche se potrà diventarlo in futuro, così come l’Artico. In quest’ultimo, sebbene si creda, a ragione, che nei suoi fondali marini si trovino grandi riserve di petrolio e gas naturali, gli studi sono ancora all’inizio e le profondità troppo grandi per sfruttare in vaste quantità le risorse lì presenti.

Ad ogni modo, non si può negare che al momento questa regione stia acquisendo un’importanza sempre maggiore per le potenze, dovuta al disgelo e alla possibilità, con questo fenomeno causato dal surriscaldamento globale, non solo di sfruttare le risorse dei fondali su vasta scala nel futuro, ma anche di aprire nuove rotte commerciali marittime. Le potenze del Nord, come il Canada, gli Stati Uniti, la Norvegia, la Russia, etc., stanno già facendo dei progetti su quest’area geostrategica. Tale è l’atto simbolico della Russia di piantare la sua bandiera nel letto marino dell’Artico, dimostrando così i suoi interessi con un vero atto di sovranità che provocò non poca agitazione nei circoli nordamericani. 1

Per quanto riguarda l’Antartide, in questa regione si trovano grandi risorse fossili, ma il Trattato Antartico ne proibisce lo sfruttamento e dichiara il continente bianco patrimonio dell’umanità. Questo territorio fu, e continua ad essere, oggetto di dispute e di reclami di sovranità, mettendo in risalto i contrasti tra Argentina, Cile e Regno Unito. Al riguardo, bisogna considerare che è una delle principali ragioni per la quale le isole Malvinas ricoprano una tale importanza geostrategica, non solo per la presenza di (rilevanti) quantità di combustibile, ma anche per l’utilizzo delle stesse come proiezione verso l’Antartide e il controllo dell’Atlantico del Sud (che relazione ci sarà stata con la decisione presa nel 1982 di recuperare le isole Malvinas?).

Nel Mare del Nord, benchè sia una regione ricca di risorse energetiche, non si riscontra una sovranità già stabilita, per la quale non ci sono dispute nè rischi di conflitti improvvisi, come invece accadono in altre zone, quali il Medio Oriente o l’ Asia Sud Orientale.

Sudamerica

Attualmente la nostra regione rappresenta senza dubbio un importante scenario geostrategico e continuerà ad acquisire maggior rilevanza in futuro, principalmente nel corso di questo secolo, grazie alla qualità delle risorse e al decollo del Brasile come potenza regionale (e mondiale verso la metà di XXI secolo) essendo uno dei componenti del BRIC (Brasile, India, Russia e Cina).

L’ America del Sud ha una popolazione pari a più di 360 milioni di persone, un PIL di 970.000 milioni di dollari, una delle principali riserve d’acqua dolce e biodiversità del pianeta, e una produzione di alimenti ed energia veramente considerevole, il chè non solo ci farebbe diventare un gran mercato ma anche la quinta potenza mondiale, sempre che le politiche applicate non producano ciò che gli economiste chiamano il “male olandese” o la “maledizione delle risorse”. 2

Per quanto riguarda le sue caratteristiche geografiche, conosciamo l’importanza che hanno molte delle risorse presenti nella regione, come il petrolio, il gas e l’acqua dolce. Per quest’ultima è necessario sottolineare che è, tanto quanto le prime due, non rinnovabile e in via di esaurimento a livello mondiale. D’altra parte molti Paesi non si sono resi conto di questo problema, nonostante sia probabile, per non dire certo, che il possesso dell’ “oro azzurro” sarà causa di molti conflitti.

Il Sudamerica dispone nel suo territorio della terza falda acquifera più grande del mondo, quella di Guaranì, divisa tra Brasile, Argentina e Uruguay. Molti scienziati non sono sicuri della sua vera dimensione, però ci sono delle ipotesi che fanno pensare che finisca addirittura in Patagonia.

Non sono da meno le nuove dottrine militari adottate dai Paesi del cono del Sud , basate sulla difesa delle risorse contro uno Stato invasore avente maggiori capacità.

Mentre l’85% dell’ acqua dolce è consumata dall’ 11% della popolazione, l’America del Sud, con il 6% della popolazione possiede approssimativamente il 26% del totale delle risorse idriche mondiali.

Il rapporto tra gli altri continenti è il seguente:

  1. America del Nord e Centrale: 8% della popolazione, ha il 15% dell’acqua;
  2. Asia: 6% della popolazione, ha il 36% dell’acqua;
  3. Europa: 13% della popolazione, ha l’8% dell’acqua;
  4. Africa: 13% della popolazione, ha l’ 11% dell’acqua.

Secondo queste stime, il continente asiatico è quello che ha una minore proporzione tra densità demografica e risorse di acqua disponibili. Nondimeno, la situazione dei Paesi sviluppati non è migliore, perchè solo 5 dei 55 fiumi europei non sono contaminati.

Da parte loro, gli Stati Uniti “sopportano la virtuale disperazione di vedere che le loro risorse finiscono, e vedono davanti a loro un orizzonte sterile e secco”. Secondo la ricercatrice argentina Elsa Bruzzone , “il 40% dei fiumi e dei laghi degli Stati Uniti sono contaminati, portata paragonabile all’acquifero di Ogallala, che si estende lungo 8 Stati, dal Dakota del Sud fino al Texas e che in alcune zone ha visto diminuire la sua capacità fino a 30 metri”(citato da EISSA, 2005).

Già nel 1996, la Strategia di Sicurezza degli Stati Uniti riconobbe, tra i rischi non militari, l’esistenza di un emergente problema di risorse naturali e affari ambientali transnazionali, e dichiarò la necessità di dedicarsi ai problemi ambientali interni e internazionali. Per questo, l’allora Presidente, Bill Clinton, creò degli uffici il cui obiettivo era l’analisi della problematica ecologica e della protezione dell’ambiente nel Dipartimento di Stato e nel Consiglio di Sicurezza Nazionale .

In questo sfondo, nell’aprile del 1998, il Generale nordamericano Patrick Hughes, il capo dell’organo centrale delle informazioni delle Forze Armate, avrebbe dichiarato, durante una conferenza tenutasi nell’Istituto Tecnologico del Massachussets (ITM) riguardo le possibili minacce per gli Stati Uniti fino al 2018, che le Forze Armate di questo Paese intervengano in Brasile nel caso questo faccia un uso improprio dell’acqua dell’Amazzonia mettendo in pericolo l’ambiente (EISSA, 2005).

Nel 2000, nel Documento Santa Fe IV del Partito Repubblicano si stabiliva che uno dei princìpi geostrategici era garantire che i Paesi dell’emisfero non fossero ostili alle preoccupazioni di sicurezza nazionale degli USA. Inoltre, in un altro punto, (dichiarava) che gli Stati Uniti avrebbero dovuto assicurarsi che le risorse mondiali fossero disponibili per rispondere alle sue priorità nazionali.

L’America del Sud raffrontata agli altri continenti, sembra essere la regione con la maggior quantità d’acqua nel mondo e con la minore popolazione; da ciò si può dedurre che l’America Latina potrebbe essere un terriorio a rischio di conflitti mondiali.

Il subcontinente è la prima riserva bioetica terrestre del pianeta e la seconda marina, che immagazina fino al 26% dell’acqua potabile del mondo e conserva nel sottosuolo grandi quantità di petrolio e gas.

La falda acquifera Guaranì, considerata il terzo serbatoio più importante del mondo, ha una superficie di circa 1.194.000 km cubici che si estendono lungo i territori di Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. Nel nostro Paese comprende le provincie di Misiones, Formosa, Chaco, Santa Fe, Corrientes e Entre Rìos. Stimando che contenga 55.000 km cubici di acqua potabile, essendo la sua portata tra i 160 e i 250 km cubici, vi sono ricercatori che ritengono persino che arriverà fino alla Patagonia. Al nord si collega con l’ Amazzonia e le paludi; a ovest con la Conca del Bermejo e, ancora oltre, con la laguna del Mar Chiquita, nella provincia di Cordoba; mentre, procedendo verso sud, si suppone che si unisca ai laghi della Cordigliera.

Oltre al sistema acquifero Guaranì, abbiamo un’altra fra le maggiori riserve di acqua potabile: i Campi di ghiaccio della Patagonia meridionale, (volgarmente conosciuti come ghiacciai continentali). Questi sono una riserva naturale di acqua dolce: ogni 100 metri di spessore ci sono 97.000 milioni di metri cubici di acqua, che riuscirebbero a:

a)sostentare la popolazione argentina per 15 anni;

b)approvvigionare l’area metropolitana di Buenos Aires per 71 anni;

c)irrigare 8 milioni di ettari per un anno (superficie equivalente alla provincia di Entre Rìos);

d)supportare le coltivazioni di erba medica per alimentare 32 milioni di bovini o 160 milioni di ovini, per un anno.

Questa situazione, acquisisce maggior rilevanza se la si considera come un’area geostrategica in relazione all’Amazzonia. Vale a dire che il disavanzo mondiale di acqua potabile e le grandi riserve idriche che possiede non solo l’Argentina ma anche il MERCOSUR (se consideriamo la conca amazzonica), nell’ambito di una nuova concezione della sicurezza, il nostro Paese in particolare e tutta la regione in generale, potrebbero trovarsi nella condizione di affrontare una situazione di conflitto nella quale dovranno difendere i loro diritti su queste risorse naturali contro un attore straniero.

L’origine di questa minaccia potrebbe provenire non solo da Paesi che soffrono di scarsità idrica, ma anche da un terzo attore extra- regionale che intervenga direttamente o indirettamente per sfruttare queste ricchezze naturali.

Nel novembre del 2004 durante il Seminario “La riserva acquifera Guaranì”, organizzato dal Consiglio Argentino per le Relazioni Internazionali (CARI), lo specialista in scienze ambientali Eduardo Pigretti, affermò: “Ciò che mi preoccupa è che l’acqua del Sistema Acquifero Guaranì possa essere commerciata. E non è chiaro sotto quali regole giuridiche, politiche e sociali. In quest’inizio di secolo tutti i beni, tutte le risorse naturali stanno perdendo la loro condizione superiore di non essere considerati normali merci. Gli organismi internazionali, come la Banca Mondiale, cercano di creare nella regione del Guaranì una nuova area industriale e competitiva a livello mondiale,senza prestare il minimo riguardo per la conservazione della falda acquifera nè per i reali interessi degli abitanti della regione. Il suo unico obiettivo è lo sviluppo industriale, proprio ciò che aumenta i rischi di qualunque processo di privatizzazione”.

Bisogna ricordare che la zona più importante per il carico e lo scarico del Sistema Acquifero Guaranì è la Tripla Frontera, dove confluiscono la maggior parte dei fiumi più abbondanti della Conca del Plata.

Molti sono gli autori, come ad esempio Andrès Repetto, con la sua opera “L’ultima crociata”, che affermano che le guerre del XXI secolo saranno combattute per “l’oro azzurro”. Per questo motivo, non possiamo dimenticare che il Sudamerica dispone di circa il 20% dell’ acqua dolce del pianeta ( senza considerare l’ Antartide ovviamente) e questo ci trasformerà in un territorio che sarà oggetto di disputa per le grandi potenze. In questo modo, non possiamo negare l’importanza dell’unione e dell’armonizzazione delle politiche, siano esse di difesa, economiche, sociali, etc., dei Pesi di questa regione, e di raggiungere un’intesa comune sui problemi che affliggono la nostra regione. L’ascesa del Brasile è cruciale per l’integrazione latinoamericana. In questa nuova situazione internazionale, è logico considerare il gigante latinoamericano come un attore regionale chiave e, potenzialemente, un attore globale prominente, se non lo è già. L’ economia brasiliana (il cui potenziale industriale e tecnologico spicca nella metallurgia, nella biotecnologia e nell’industria aeronautica, nei quali ha raggiunto i più alti standard internazionali di qualità) può costituire la base dell’integrazione regionale.

Prima di arrivare a questo, è necessario che il MERCOSUR migliori la sua attuale situazione politica e continui nel suo rafforzamento, rendendo possibile ai Paesi membri di poter pensare a questi temi in termini regionali e stringere alleanze strategiche.

(Traduzione di Sabrina Cuccureddu)

* Matias Magnasco è docente del Master in Relazioni internazionali dell’Università Internazionale Tres Fronteras, direttore dell’Osservatorio Guyana e Suriname del Centro Argentino di Studi Internazionali, membro del Centro Aeronautico di Studi Strategici della Forza Aerea argentina.

1. Consideriamo la rinascita della Russia nello scenario internazionale e la nuova dottrina della sua armata, basata sulla contesa di tutti i mari del mondo con Stati Uniti e Gran Bretagna, comprendendo l’Artico e l’Antartico. Da questo possiamo capire l’importanza del decollo russo nell’arena internazionale.

2. Ossia: il possesso di abbondanti materie prime produce l’arrivo di cospicui investimenti e monete; il chè causa un apprezzamento della moneta nazionale e quindi, una caduta della competitività dell’industria nazionale tanto nel mercato interno quanto in quello nazionale.


Seyyed Nasrallah: Israele dietro l’assassinio di Hariri

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Traduzione a cura dell’Associazione Islamica Imam Mahdi (www.islamshia.org)

Il Segretario Generale di Hezbollah, Seyyed Hassan Nasrallah, ha accusato il nemico israeliano di essere implicato nell’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri, presentando prove ed evidenze tangibili di un potenziale ruolo israeliano in questo crimine ed in altri che colpirono il Libano negli anni passati.

Seyyed Nasrallah ha svelato alcune immagini intercettate di apparecchi di spionaggio israeliani del luogo dove avvenne l’assassinio del primo ministro libanese, Rafiq Hariri, poco prima dell’omicidio. Diversi video, ognuno dei quali della durata di vari minuti, hanno mostrato immagini aeree della costa occidentale di Beirut vari giorni prima dell’assassinio di Hariri.

Il Segretario Generale di Hezbollah ha parlato nel corso di una conferenza stampa eccezionale tenuta nel “Complesso dei Martiri” del quartiere sud di Beirut lunedi 9 agosto. La conferenza, alla quale hanno partecipato giornalisti e direttori dei principali media, aveva come obiettivo quello di segnare un punto di cambiamento nel caso dell’assassinio di Hariri e aprire nuove prospettive che il Tribunale puo’ raccogliere e sviluppare “se vuole essere imparziale“.

AGENTE ISRAELIANO CERCO’ DI INGANNARE HARIRI

Seyyed Nasrallah ha iniziato il suo discorso ricordando che il nemico israeliano aveva cospirato per uccidere l’ex primo ministro Rafiq Hariri dal 1993 e per far credere che fosse Hezbollah a volerlo assassinare. “Nel 1993 Hezbollah stava organizzando una protesta nel sobborgo meridionale di Beirut contro la firma dell’Accordo di Oslo, nella quale ebbero luogo dei disordini. A quel tempo le tensioni tra Rafiq Hariri e Hezbollah aumentarono. Un agente israeliano disse all’epoca a Hariri che Hezbollah voleva assassinarlo e menziono’ il nome di Imad Mugniyeh.

Seyyed Nasrallah si riferiva alla spia israeliana Ahmad Nasrallah, che fu arrestata e interrogata dalla Resistenza nel 1996. “Dopo aver interrogato Ahmad Nasrallah e aver confessato di aver fotografato le case dei dirigenti di Hezbollah, egli ammise anche di aver ingannato Hariri. Egli disse che aveva tentato di determinare il percorso del convoglio del primo ministro facendogli credere che Hezbollah volesse assassinarlo“, ha detto Sua Eccellenza.

Il Segretario Generale di Hezbollah ha continuato rivelando che la spia Ahmad Nasrallah aveva ingannato il primo facendogli credere che Hezbollah aveva un piano per assassinare sua sorella, la deputata Bahia Hariri, con fine di obbligarlo a partecipare al suo funerale a Sidone e ucciderlo li’.

Noi consegnammo un membro di Hezbollah, Abu Hassan Salameh, ai siriani a causa di una falsa dichiarazione di Ahmad Nasrallah secondo la quale Salameh aveva complottato per uccidere Hariri, ma piu’ tardi verificammo che Salameh era innocente“, ha detto Seyyed Nasrallah.

Per documentare le parole di Seyyed Nasrallah e’ stato trasmesso un primo video che mostrava la stessa spia israeliana Ahmad Nasrallah fare queste rivelazioni. Nel video la spia confessava che quanto aveva detto ad Hariri, ovvero che Hezbollah volesse ucciderlo, era una menzogna. Egli ammetteva inoltre di lavorare per Israele e diceva che i suoi contatti israeliani gli avevano chiesto di avvertire gli uomini di Hariri di un “complotto per il suo assassinio.”


ISRAELE AVEVA LA CAPACITA’ DI REALIZZARE L’ASSASSINIO DI HARIRI

Il Segretario Generale di Hezbollah ha poi dato vita alla seconda parte della conferenza stampa, la parte nella quale ha accusato il nemico israeliano di essere dietro l’assassinio di Hariri.

Dopo aver mostrato un altro video di accuse israeliane contro Hezbollah di essere implicato nell’assassinio di Hariri, Seyyed Nasrallah ha affermato che Israele possiede la capacita’ di portare a termine un’operazione come quella diretta contro l’ex primo ministro il 14 Febbraio del 2005.

Israele possiede la capacita’ di realizzare questo tipo di operazioni, incluso l’assassinio di Hariri e di altri che hanno colpito il Libano negli anni passati“, ha dichiarato Seyyed Nasrallah, ricordando che la storia di Israele e’ piena di operazioni di assassinio contro leader e figure di alto rango.

Dopo aver ricordato come sia risaputo che Israele possieda molte spie in Libano, Seyyed Nasrallah ha detto che Israele aveva anche la motivazione, in quanto la Resistenza Islamica e’ il maggior nemico di Israele. “Israele ha animosita’ contro la Siria, cosi’ non poteva perdere un’opportunita’ di creare conflitti e utilizzare la morte di Hariri per cacciare la Siria dal Libano e isolare la Resistenza.”

In questo contesto, Seyyed Nasrallah ha citato il presidente siriano Bashar al-Assad, che gli disse personalmente che un capo arabo lo informo’ nel 2004, prima dell’approvazione della Risoluzione 1559, che gli Stati Uniti non avevano problemi che la Siria mantenesse forze in Libano, ma a condizione che disarmasse Hezbollah e le fazioni palestinesi in Libano. Assad rispose che Hezbollah costituiva parte della sicurezza nazionale del Libano e quindi rifiuto’ di accettare la richiesta statunitense. Si pose allora in marcia il progetto per estromettere la Siria dal Libano ed isolare Hezbollah.

Riferendosi ai metodi operativi di Israele, il Segretario Generale di Hezbollah ha dichiarato che il nemico sionista ha collocato strumenti di ascolto nelle reti telefoniche e mantiene apparati di spionaggio nelle zone aeree e sul terreno, oltre a contare sull’appoggio logistico per realizzare operazioni di assassinio all’interno del Libano.



ISRAELE INTERESSATO A REALIZZARE OPERAZIONI VICINO LA COSTA

Nella terza parte, il Segretario Generale di Hezbollah, Seyyed Nasrallah, ha parlato delle rivelazioni fatte dalle spie israeliane arrestate tra il 2009 e il 2010, in risposta ad una domanda sulle operazioni di intelligence israeliane condotte in Libano dopo il 2004.

Philippos Hanna Sadir e’ stata la prima spia ad essere menzionata durante la conferenza stampa. Egli ha iniziato a spiare per il nemico israeliano nel 2006 e fu arrestato nel 2010 dalle autorita’ libanesi. La sua missione era quella di raccogliere informazioni sull’abitazione del presidente Michel Suleiman e sulla sua distanza dalla costa, e sullo yacht del capo dell’Esercito Jean Qahwaji. “Israele e’ interessato a condurre le proprie operazioni vicino la costa“, ha detto Seyyed Nasrallah commentando i dati. “Una spia ispeziona un luogo solo per raccogliere informazioni o anche per programmare una certa operazione?”, si e’ chiesto Seyyed Nasrallah.

La seconda spia alla quale si e’ fatto riferimento nella conferenza stampa e’ Said Tanios Alam. Arrestato nel 2009, ha confessato di aver raccolto informazioni sul capo delle Forze Libanesi, Samir Geagea, e sul primo ministro, Saad Hariri. Egli inizio’ a spiare per il nemico israeliano nel 1990. Gli venne chiesto di controllare Geagea e quando Hariri lo andava a visitare, secondo le investigazioni condotte dalle autorita’ libanesi e non da Hezbollah. “Perche’ Israele vuole controllare Saad Hariri e Samir Geagea, che sono le guide della coalizione del 14 Marzo?”.

Questa e’ la risposta a coloro che chiedono perche’ furono i membri della coalizione del 14 Marzo ad essere assassinati. La risposta e’ semplice: Israele voleva far ricadere la colpa sulla Siria e Hezbollah“, ha detto il Segretario Generale di Hezbollah.

Altre spie menzionate durante la conferenza stampa sono state Nassir Nadir, Faisal Maqlad, Adib Alam e sua moglie Hayat. Nadir, che fu arrestato nel 2009, ha confessato la propria implicazione nell’omicidio di un responsabile di Hezbollah, Galib Awali, nel 2004. Maqlad confesso’ di aver ospitato militari israeliani in Libano e di aver trasportato armi. Ha confessato anche di aver spiato alcune regioni libanesi. Alam ha riconosciuto la propria implicazione, insieme a sua moglie, nella morte dei membri del Jihad Islamico Mahmud e Nidal al-Majzub nel 2006 a Saida.

Seyyed Nasrallah ha sottolineato come le confessioni realizzate dalle spie, sebbene costituiscano una dimostrazione, confermano che le operazioni dei servizi segreti israeliani in Libano non si fermarono agli anni passati. In questo senso egli ha chiesto che le confessioni delle spie siano raccolte e analizzate con il fine di tracciare un diagramma delle loro operazioni.

Quando Israele uccise Hariri ma non riusci’ a scatenare un conflitto civile, il nemico cerco’ di pianificare allora la morte del presidente sciita del Parlamento Nabih Berri per spingere il Libano verso uno scontro interno“, ha rivelato Seyyed Nasrallah.

DIMOSTRAZIONE DELLE PROVE: LE IMMAGINI INTERCETTATE AD UN VELIVOLO SPIA ISRAELIANO

Il segreto che voglio rivelare questa notte e’ che prima del 1997 Hezbollah fu capace di catturare un velivolo spia israeliano senza pilota che fotograva il sud del Libano e inviava le immagini ad un centro di operazioni israeliano“, ha continuato Seyyed Nasrallah.

La Resistenza riuscir’ a intercettare la trasmissione del velivolo e riuscimmo ad avere accesso alla stessa, riuscendo cosi’ a ricevere le immagini inviate dal velivolo nello stesso tempo del centro di operazioni del nemico“, ha spiegato il Segretario Generale di Hezbollah.

La ricezione delle immagini del velivolo israeliano senza pilota da parte del centro di operazioni della Resistenza permise a questa di respingere l’assalto anfibio nemico a Ansariyeh il 5 settembre del 1997“, ha rivelato il Segretario Generale prima di mostrare i dettagli dell’operazione di Ansariyeh e spiegare come questa tattica aiuto’ i combattenti della Resistenza a sventare il tentativo nemico.

IMMAGINI MOSTRANO CHE ISRAELE CONTROLLO’ ATTENTAMENTE I MOVIMENTI DI HARIRI

Il Segretario Generale di Hezbollah ha poi toccato la parte piu’ sensibile della conferenza stampa: le prove concrete che mostrano che il nemico israeliano controllo’ accuratamente i movimenti dell’ex primo ministro Rafiq Hariri e la loro collocazione.

A questo riguardo Seyyed Nasrallah ha mostrato le immagini intercettate di aerei spia israeliani nel luogo dell’assassinio del 2005 dell’ex primo ministro libanese poco prima che avesse luogo.

Gli aerei israeliani controllarono accuratamente i movimenti del convoglio di Hariri a Beirut e lungo la strada Farayya-Faqra“, ha affermato Seyyed Nasrallah. “Si tratto’ di una coincidenza?“, si e’ chiesto il responsabile di Hezbollah. “Questa copertura viene realizzata di regola generale come primo passo per l’esecuzione di una operazione.”

Altre immagini, ognuna delle quali della durata di vari minuti e che furono riprese vari giorni prima dell’assassinio, mostrano vedute aeree della costa occidentale di Beirut dove questo avvenne. “Esistono uffici di Hezbollah in queste aree che possono essere controllati da Israele? Perche’ Israele controllava queste zone?” si e’ chiesto nuovamente Seyyed Nasrallah.

HEZBOLLAH POSSIEDE INFORMAZIONI DEFINITIVE SUI MOVIMENTI AEREI ISRAELIANI IL 14 FEBBRAIO

Questo non e’ tutto: un’altra rivelazione e’ stata fatta da Seyyed Nasrallah: “Abbiamo informazioni definitive sui movimenti aerei del nemico israeliano il giorno in cui Hariri fu assassinato. Ore prima delle sua morte, un velivolo israeliano senza pilota sorvolava la costa Sidone-Beirut- Jounieh mentre aerei da guerra sorvolavano Beirut“.

Una registrazione video mostra a questo riguardo che gli aerei di riconoscimento israeliani sorvolarono Sidone il 13 Febbraio del 2005 mentre altri lo facevano su Beirut ore prima che Hariri venisse assassinato. Il 14 Febbraio del 2005 un aereo spia israeliano AWACS volo’ du Beirut insieme ad un altro velivolo spia.

Questo video puo’ essere acquisito da qualsiasi commissione di investigazione per accertarne l’autenticita’ . Siamo sicuri di questra prova, altrimenti non rischieremo nel mostrarla“, ha detto Seyyed Nasrallah che ha anche affermato che Hezbollah aspettera’ il momento appropriato per rivelare altre prove e segreti.


LA SPIA ISRAELIANA GHASSAN JEDD SI TROVAVA SULLA SCENA DEL CRIMINE

Abbiamo prove che Ghassan al-Jedd, una spia al servizio di Israele che ospito’ varie squadre operative israeliane, era presente sulla scena del crimine“, ha rivelato Seyyed Nasrallah. “Presentammo queste prove alle autorita’ libanesi, ma Jedd scappo’ dal Libano prima di essere catturato“.

Jedd nacque nel 1940 e divento’ una spia israeliana agli inizi degli anni novanta, prima di scappare dal Libano nel 2009. Egli ospito’ vari ufficiali israeliani in Libano. Nel marzo del 2004 ufficiali israeliani entrarono in Libano via mare e furono protetti da Jedd per 50 ore in una localita’ del Monte Libano.

IGNORARE LE PROVE DIMOSTREREBBE CHE IL TRIBUNALE E’ POLITICIZZATO

Alla domanda di quale sara’ la reazione di Hezbollah nel caso in cui il Tribunale Speciale per il Libano ignorasse le prove presentate, Seyyed Nasrallah che questo dimostrebbere la credenza del movimento di Resistenza che il Tribuale sia politicizzato.

Seyyed Nasrallah ha ripetuto che Hezbollah non confida nel tribunale internazionale. “Tuttavoa, se il governo libanese e’ disposto a formare una commissione libanese per investigare sul caso, coopereremo“, ha detto il Segretario Generale del movimento di Resistenza Islamica libanese. “Alcuni hanno speso 500 milioni di dollari in Libano per distorcere l’immagine di Hezbollah. E’ per questo che stiamo conducendo una battaglia per l’opinione pubblica, specialmente quando alcuni lavorano giorno e notte per difendere l’innocenza di Israele.”



Da Santos a Uribe, cosa (non) cambia in Colombia

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La Colombia ha scelto la continuità. L’ultima tornata elettorale, le presidenziali 2010 svoltesi fra maggio e giugno per via del doppio turno, ha sancito la vittoria del candidato uribista del Partido Social de Unidad Nacional o Partido de «la U» (d’ora in poi indicato con l’acronimo PSUN), Juan Manuel Santos. Lo scorso sabato 7 agosto è stato il giorno dell’investitura ufficiale del nuovo presidente colombiano e del passaggio di consegne con Alvaro Uribe, suo mentore politico.

Santos sarà chiamato a governare uno stato che si dibatte nei problemi di sempre: criminalità e violenza in primis; senza dimenticare la corruzione e le diseguaglianze socio-economiche. Nonostante durante i due mandati presidenziali di Uribe (2002/2006 e 2006/2010), la Colombia abbia conosciuto un periodo di crescita economica e di relativo miglioramento delle condizioni inerenti la sicurezza, la situazione sul fronte del rispetto dei basilari diritti umani rimane critica. L’uso della violenza e dell’omicidio a scopi politici rimane una pratica frequente insieme all’alto numero di rapimenti e uccisioni di giornalisti, sindacalisti e membri di organizzazione che si battono per il rispetto della legalità e dei diritti civili o politici.

La questione di fondo che sottosta a tutti gli elementi di debolezza della realtà colombiana è comunque sempre rappresentata dalla produzione e commercio delle sostanze stupefacenti. La pervasiva presenza della criminalità organizzata (i cosiddetti carteles de la droga) ha rappresentato e continua indubbiamente a manifestarsi come un fattore di destabilizzazione altissimo, che per caratteristiche e dimensioni del fenomeno incide fortemente sulla vita politica ed economica del paese. Inoltre, la questione del narcotraffico si innesta ed alimenta a sua volta altri gravi problemi in cui si dibatte da decenni la Colombia: la corruzione dei politici e della classe dirigente in generale ma anche e soprattutto l’annoso confronto armato fra lo Stato e movimenti guerriglieri di sinistra (FARC, ELN, EPL); senza dimenticare la questione legata alle unità paramilitari di estrema destra (AUC). I vari aspetti sono così intrinsecamente interconnessi che si è arrivati a parlare di narcopolitica e narcoguerriglia.

I temi della sicurezza, della lotta alla criminalità organizzata e soprattutto alla guerriglia hanno rappresentato il nucleo centrale del programma elettorale di Santos, che da ministro della difesa si era contraddistinto per la sua risolutezza nella lotta contro le FARC. Adesso che è assurto alla guida del paese, il nuovo presidente ha richiamato più volte la necessità di creare un clima politico di unità nazionale per ridurre la violenza e gettare le basi per la costruzione di un paese migliore.

Indubbiamente i numeri con cui è stato eletto e i nuovi assetti partitici formatisi in seno alla Camera e al Senato dopo le elezioni legislative del marzo 2010, gli affidano un ampio appoggio politico oltre che un buon sostegno popolare. Ora bisognerà vedere se oltre ad una numericamente solida maggioranza di governo, esiste anche una reale volontà politica di procedere a quella trasformazione della società sbandierata in campagna elettorale.

I NUMERI DELLA VITTORIA

Secondo i dati ufficiali resi noti dalla Registraduria Nacional del Estado Civil de la Republica de Colombia(1) riguardanti il secondo turno delle elezioni presidenziali 2010 svoltesi in Colombia il 20 giugno scorso, Juan Manuel Santos Calderon, candidato del PSUN e vincitore delle elezioni, ha ricevuto 9.028.943 voti pari al 69,13% del totale dei voti validi. Considerando che gli elettori aventi diritto erano 29.997.574, significa che circa un colombiano su tre ha scelto di votare per Santos. Il suo sfidante al ballottaggio, Antanas Mockus del Partido Verde ha ottenuto 3.587.975 pari al 27,47%.

Questi dati testimoniano della grandezza del risultato ottenuto dal candidato uribista ma se guardiamo ad altre cifre il quadro appare meno roseo. Più di un colombiano su due non si è recato alle urne; disaffezione disillusione o paura hanno giocato un ruolo importante nel ridurre il numero degli elettori.

I risultati della partecipazione popolare alle elezioni presidenziali 2010 non sono esaltanti anche se leggermente in controtendenza rispetto ai dati relativi ai precedenti appuntamenti elettorali: durante il primo turno i votanti sono stati 14.781.020, pari al 49,27% del totale degli aventi diritto; la percentuale è scesa ancora al secondo turno attestandosi al 44,33% pari a 13.296.924 di voti. L’astensionismo caratterizzò in maniera maggiore le due precedenti tornate elettorali presidenziali del 2002 (votanti 11.249.734 pari al 46,47% del totale) e del 2006 (12.058.788 pari al 45,11%) che videro la vittoria di Alvaro Uribe; ma bisogna sottolineare che in quelle due occasioni Uribe fu eletto presidente della repubblica al primo turno.

Il NUOVO PARLAMENTO

Indubbiamente l’alto numero di voti ottenuti da Santos, mai nessun candidato presidenziale prima di lui ne aveva ricevuti tanti, rappresentano un ottimo biglietto da visita per un politico che oltre ad essere stato eletto presidente della repubblica di Colombia è chiamato anche a formare e guidare la compagine governativa; dato che secondo quanto detta la costituzione il capo di stato veste anche il duplice ruolo di capo del governo.

Gli assetti partitici frutto delle elezioni legislative svoltesi lo scorso marzo consentono al nuovo governo colombiano di godere di un’ampia maggioranza parlamentare. Gli esiti di quella tornata elettorale hanno sancito un avanzamento dei conservatori, che avevano già appoggiato Uribe precedentemente e che nel corso delle ultime settimane hanno apertamente dichiarato di voler sostenere il nuovo presidente e il suo governo; rispondendo positivamente alla chiamata di Santos all’unità nazionale.

L’alleanza parlamentare che appoggia il governo e la presidenza Santos è formata da: il Partido de la U dalle cui fila proviene lo stesso presidente della repubblica, che è risultato essere il primo partito sia alla camera sia al senato; il Partido Conservador, seconda forza politica del paese; e il Partido Cambio Radical. I rappresentanti parlamentari di questa forza tripartita garantiscono a Santos e il suo governo la maggioranza assoluta: alla camera 100 su 165 congressisti; al senato 58 su 100.

Completano il quadro relativo alla maggioranza alcune forze minori ma in ascesa, come per esempio il controverso Partido de Integración Nacional (PIN).

La compagine governativa presentata da Santos ha un profilo tecnocratico; un governo tecnico in cui spicca la folta presenza di uomini e donne provenienti dal mondo degli affari e da quello accademico e con alle spalle quindi un curriculum che non li vede vincolati ad alcun partito politico. Solo due ministri, quello degli interni e quello della difesa, possono vantare una militanza di lungo corso all’interno di formazioni politiche.

Questo aspetto ha probabilmente influenzato la decisione del Partido Liberal, altra grande storica forza politica colombiana di ispirazione socialdemocratica e quindi ideologicamente distante dalle posizioni del presidente neoeletto, di dichiarare la propria disponibilità a dialogare ed eventualmente appoggiare il nuovo governo in carica.

Gli unici due partiti che possono considerarsi all’opposizione e che però hanno riscosso consensi inferiori all’8% durante le legislative di marzo, sono il Polo Democrático Alternativo, di matrice socialista ma in cui si alberga anche una componente comunista, e il Partido Verde, un partito ambientalista di centro e dalle cui fila proveniva lo sfidante di Santos al ballottaggio, Antanas Mockus.

Mockus e il suo partito hanno rappresentato la vera novità nello scenario politico colombiano del 2010. Espressione di una nuova forza politica che ha visto i natali solo nell’ottobre del 2009, l’ ex sindaco di Bogotà si è comunque fin da subito scrollato di dosso l’etichetta di outsider e ha raccolto al ballottaggio quasi 3,6 milioni di preferenze.

Da sottolineare che durante la campagna elettorale e fino a pochi giorni prima delle elezioni molte società colombiane specializzate in inchieste e analisi elettorali prevedevano un empate tecnico fra Santos e Mockus; attestati entrambi intorno al 35% delle preferenze secondo la maggior parte dei sondaggi.

Le previsioni ottimistiche per il candidato verde sono state poi totalmente smentite già dal risultato del primo turno che seppur non ha conferito la vittoria a Santos nell’immediato, gli ha comunque concesso una dote di voti tale da poter affrontare tranquillamente la seconda tornata e ha lasciato chiaro che la corsa alla presidenza non era mai stata in discussione, a dispetto dei sondaggi.

CONCLUSIONI. CAMBIO DELLA GUARDIA AL PALACIO DE NARIÑO?

Sabato 7 agosto, Bogotà ha ospitato la cerimonia ufficiale di investitura del nuovo presidente della repubblica Juan Manuel Santos. La giornata del neoeletto capo di stato colombiano era cominciata molto presto e si era aperta con una liturgia indigenista. Infatti durante le prime ore della mattinata Santos aveva presenziato ad una cerimonia indigena con i leader spirituali dei quattro gruppi etnici che vivono nella Sierra Nevada de Santa Marta nel nord del paese. L’incontro ha rappresentato un’investitura simbolica, durante la quale gli è stato consegnato un baston de mando.

Questo atto ufficioso ha preceduto di poche ore il vero passaggio di consegne fra il nuovo presidente eletto della Colombia e quello uscente, Uribe. In realtà, di effettivo cambiamento non si potrebbe parlare, considerando che l’elezione di Santos non lascia presagire alcun cambio di rotta rispetto al passato uribista. Anzi vista la vicinanza ideologica fra i due leader e il ruolo preminente che l’ex presidente gioca nello scacchiere istituzionale colombiano, molti sono portati a considerare la presidenza Santos come una naturale prosecuzione del mandato presidenziale di Uribe.

Però le prime parole pronunciate da Santos come nuovo presidente il 7 agosto, soprattutto in merito alle questioni di politiche estera, hanno in parte smentito questi timori.

Ad assistere alla cerimonia di investitura a Bogotà c’erano numerosi capi di stato sudamericani, fra le cui fila spiccavano le assenze dei rappresentanti della cosiddetta ala izquierdista latinoamericana: Ortega, Morales e soprattutto Chavez. Proprio ai rapporti con gli altri paesi del continente e soprattutto con il Venezuela, Santos ha riservato un passaggio molto importante del suo discorso di investitura. In merito alla recente crisi e ai venti di guerra che hanno agitato il confine fra Colombia e Venezuela, il neopresidente colombiano ha pronunciato parole di distensione e ha manifestato la volontà politica di voler procedere alla instaurazione di un dialogo col proprio vicino occidentale su nuove basi.

Le parole di Santos sono state accolte con favore da Chavez che ha manifestato la stessa volontà di ricorrere alla diplomazia più che all’uso della forza nei rapporti bilaterali. Il tentativo di disgelo e riavvicinamento fra i due stati latinoamericani rappresenta un punto di discontinuità rispetto alla rotta che aveva impresso al paese Uribe.

Bisognerà comunque aspettare e verificare sul campo quanto effettivamente alle semplici dichiarazioni seguiranno i fatti. Considerando che durante l’ultima fase della seconda presidenza Uribe (2006-2010) Santos in qualità di ministro della difesa ha rappresentato l’ala oltranzista del governo nella lotta alla guerriglia e come tale ha contribuito non poco a far salire la tensione al confine col Venezuela, e che inoltre la Colombia negli ultimi tempi ha rinsaldato i propri vincoli politico-diplomatici con Washington attraverso la concessione di nuove basi militari all’esercito statunitense (attualmente sono sette le basi USA in territorio colombiano: Tres Esquinas, Larandia, Aplay, Arauca, Tolemaida, Palanquero, Malambo); si può facilmente immaginare che il tentativo di pacificazione col Venezuela appare più arduo di quanto si creda.

* Vincenzo Quagliariello è dottore in Scienze internazionali e diplomatiche (Università L’Orientale di Napoli)

1 http://www.registraduria.gov.co/index.htm#

2 http://www.cne.gov.co/



La cooperazione internazionale e la sicurezza energetica

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La stabilità delle relazioni e della cooperazione globale con i paesi esterni all’Unione europea è una delle priorità strategiche della politica estera russa. Tradizionalmente, la Russia si sviluppa e rafforza i legami economici, scientifici e culturali con i paesi del Sud Europa. Oggi è necessario cercare soluzioni comuni volte a superare la crisi finanziaria globale che minaccia il benessere di tutti i popoli del continente europeo. 
Secondo il FMI, nel 1980 il debito complessivo del Gruppo dei Sette era del 40% del loro PIL totale. In vent’anni, il debito è salito al 65% del PIL. Dal 2008, quando ha cominciato a mostrare segni di una crisi sistemica del sistema finanziario globale, il processo di aumento del debito pubblico è aumentato in modo significativo. Gli esperti stimano che quest’anno il debito raggiungerà il 100%, ed entro il 2014 raggiungerà il 110%. 
È chiaro il motivo principale: il segmento virtuale, speculativo del sistema finanziario globale ha raggiunto un livello  tale che è diventato possibile, in termini di valori immaginari, determinare la ridistribuzione di tutti i tipi di risorse mondiali. In questo caso l’economia nazionale è intrappolata in una pericolosa servitù per debiti, e su alcuni paesi dell’Europa meridionale incombe il grave pericolo del fallimento. 
Il metodo per uscire dalla crisi consiste nel limitare le possibilità di sostituzione dell’economia reale e le sue risorse finanziarie, fornire tutti i generi di sostituti, ricerca di possibilità di utilizzo razionale e vantaggioso di risorse naturali insostituibili, partecipazione a progetti internazionali che sono il miglior modo per impegnare il potenziale intellettuale, tecnologico e industriale della comunità internazionale. Tale approccio, che è la base per la creazione di relazioni economiche eque, auspica la nascita di un vero multipolarismo geopolitico. 
Il luogo e il ruolo della Russia nell’economia globale e la sua influenza sui processi politici del mondo sono in gran parte determinati dalla sua energia e materie prime. 
La Russia cerca di creare un sistema internazionale stabile di Paesi consumatori, di Paesi produttori e di Paesi in cui vige il transito delle risorse energetiche, il che esclude la possibilità di conflitti per le fonti ed il trasporto delle risorse energetiche e il superamento della “povertà energetica”. 
Lo sviluppo di partenariati tra tutti i soggetti interessati è l’unico modo possibile per rafforzare la sicurezza globale dell’energia nel contesto di una crescente interdipendenza tra Paesi produttori, Paesi che forniscono energia di transito e Paesi consumatori. 
Nel corso di questa interazione a lungo termine ci sono non solo problemi economici che devono essere risolti. C’è il bisogno di lavorare nel campo della tutela ambientale, ad alta tecnologia, per sviluppare la cooperazione nel settore coinvolgendo l’opinione pubblica mondiale con informazioni obiettive sui problemi della sicurezza energetica. 
Oggi i bisogni energetici di base per l’economia globale sono petrolio e gas naturale. L’economia mondiale assiste a una separazione netta tra popolazione e indicatori energetici-economici, da un lato, ed i livelli di sicurezza delle risorse, dall’altro. Dal momento che gli Stati Uniti consumano circa un quarto delle risorse energetiche del mondo, con solo il 3-4% di riserve provate di petrolio e gas naturale e l’Europa occidentale detiene il 20% del consumo mondiale di energia ed ha solo il 4-7% di riserve di petrolio e gas. Tra gli Stati altamente industrializzati il Giappone è praticamente senza risorse energetiche indigene. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (AIE), il fabbisogno d’energia nel mondo entro il 2030 crescerà del 50-60%. Secondo l’AIE, nel 2020, gas e petrolio costituiranno i combustibili più importanti per i Paesi industrializzati. 
Nonostante gli sforzi per sviluppare e applicare tecnologie di risparmio energetico e nell’utilizzo di fonti alternative di energia, i combustibili idrocarburi nel prossimo futuro costituiranno ancora la base del bilancio energetico. La concorrenza per l’accesso alle riserve di energia primaria ed il loro controllo aumenterà ulteriormente. Non ridurranno il loro fabbisogno energetico gli Stati Uniti e i Paesi europei ed è in costante aumento il consumo di energia dei Paesi in pieno sviluppo dinamico economico come Cina e India. Crisi politiche e conflitti armati in varie parti del globo sono spesso le manifestazioni visibili della lotta palese e occulta per il controllo delle fonti di materie prime. 
La Russia si esprime sempre per una soluzione pacifica e per il dialogo energetico aperto e onesto con i suoi partner e, soprattutto, con i Paesi europei. 
La Russia ha riserve significative di risorse naturali, comprese quelle energetiche. Un Paese con meno del 3% della popolazione mondiale, detiene circa il 13% delle riserve accertate di petrolio del mondo, il 34% delle riserve di gas naturale, circa il 20% delle riserve accertate di carbone e il 32% delle riserve di carbone marrone e il 14% delle riserve di uranio. 
Con la sua politica energetica costante e stabile la Russia confuta i miti della “espansione energetica” e del “ricatto energetico”. Ma, naturalmente, il Paese ha una propria idea di sicurezza energetica, la propria strategia energetica. 
Una delle priorità principali della Russia è stata di garantire il fabbisogno energetico della crescente domanda interna, che nel suo complesso nel 2030 si prevede avrà un aumento superiore di 1,6 volte. L’esportazione di energia deve diventare più razionale. Entro il 2020 si prevede di stabilizzare le vendite al livello di 1000 milioni di tonnellate di carburante. Pur continuando a diversificare la composizione merceologica delle esportazioni e la direzione del suo approvvigionamento, la Russia cercherà di essere in grado di commercializzare prodotti a più alto valore aggiunto, nonché di promuovere le proprie tecnologie nel settore dell’energia, del risparmio energetico, il trasporto di energia e il trattamento degli idrocarburi. 
Il principio fondamentale della strategia energetica è stabile e prevedibile. I nostri partner tradizionali devono essere sicuri che tutti i contratti sottoscritti sono chiari e sono garantiti  nell’esecuzione. 
Con il suo vasto territorio che occupa una posizione strategica in Eurasia, la Russia è consapevole della propria responsabilità per lo sviluppo e la produzione affidabile di energia e di infrastrutture di trasporto tra i consumatori e i produttori di energia. Un’altra priorità è la stabilità e prevedibilità nel mercato energetico globale. 
Per rispettare incondizionatamente i suoi obblighi internazionali, la Russia ha bisogno di risolvere coerentemente i problemi di efficienza energetica in tutti i settori dell’economia russa. Oggettivamente è complicato per il problema delle condizioni climatiche estreme. Sono indispensabili l’alta tecnologia e l’esperienza dei Paesi più sviluppati. Gli esperti stimano che l’applicazione combinata di energia organizzativa e tecnologica e misure di risparmio potrebbe ridurre il consumo energetico di 420 milioni di tonnellate di combustibile all’anno. 

Al summit tra Russia e Unione europea sono stati definiti i principi di applicazione pratica di una partnership strategica nel settore energetico. La cooperazione si sta sviluppando in quattro aree fondamentali: il commercio di energia, gli investimenti, le infrastrutture energetiche e di sicurezza energetica. 
Le esportazioni di energia dalla Russia verso l’Europa aumenteranno. Nel mercato del petrolio europeo agli inizi del secolo ventunesimo, la quota della Russia si è attestata intorno al 18-20%, mentre la quota di gas russo è del 35-40%. È in atto una tendenza, da parte del gas, ad assumere una posizione dominante nel bilancio energetico. Negli ultimi 30 anni, la quota del gas naturale nel consumo complessivo di energia dell’UE è cresciuta di circa 2 volte. 
Gli esperti ritengono che entro il 2020 l’UE dovrà importare l’80% del totale degli impieghi di gas naturale. Ciò è dovuto principalmente al depauperamento delle riserve di gas nel Mare del Nord. Le previsioni degli esperti dell’Unione europea e degli Stati Uniti stimano l’inevitabile aumento del consumo di gas russo, perché la Russia possiede un terzo di tutte le riserve mondiali. 
Attualmente, il problema degli approvvigionamenti di gas dell’Unione europea sembra essere piuttosto complicato. Circa l’80% del gas russo passa attraverso l’Ucraina, che ha più volte creato complessità e situazioni di conflitto. 
Di conseguenza, al fine di ridurre i rischi e gli obblighi di partner stranieri, il governo russo e Gazprom hanno deciso di trovare un’alternativa al trasporto del gas in Europa. 
I progetti del South Stream e del Nord Stream – non sono solo un mezzo per raggiungere la sicurezza energetica, ma anche un vero e proprio strumento per l’integrazione economica eurasiatica. La diversificazione delle vie di trasporto, l’inclusione degli Stati europei contribuiranno a superare la crisi dell’economia, avranno un impatto positivo sul processo di integrazione europea, e quindi  rafforzeranno lo sviluppo economico regionale. 
Forse a qualcuno questo non piace. Infatti vengono diffuse informazioni distorte sulla presunta dipendenza dall’energia russa pericolosa per gli europei. Intanto, oggi non c’è alternativa economicamente fattibile per la cooperazione russo-europea nel settore dell’energia. 
Così, l’Italia ha confermato la sua partecipazione al progetto “South Stream”. Secondo i leader italiani, “South Stream” rispetto al progetto Nabucco ha vantaggi evidenti. 
L’Italia sostiene il progetto di gasdotto “South Stream” e si oppone al progetto Nabucco, ha detto il ministro degli Affari Esteri italiano Franco Frattini nella sua intervista al quotidiano torinese La Stampa nel mese di agosto 2009. Egli ha sottolineato che nella sua decisione il paese e’ governato dai propri interessi, così come quelli di altri paesi europei. 
”Siamo contro Nabucco. Partecipiamo al gasdotto “South Stream”, che verrà dalla Turchia in Italia attraverso la Grecia, perché ha il gas, o lo avrà nel vicino futuro. Nabucco invece per poter funzionare dovrebbe avere il gaz azerbajgiano, che non ha ancora, oppure il gas iraniano, che ora è un problema”, ha sottolineato il capo del Ministero degli Affari Esteri. 
Inoltre, Frattini ha negato le accuse di crescente dipendenza dal gas russo. Questa linea è stata confermata dal Ministro dello sviluppo economico d’Italia, Claudio Scajola, interrogato a proposito della proposta di ridurre la fornitura di gas russo e di aumentare le importazioni da Algeria e Libia. 
”La dipendenza energetica d’Italia nei confronti della Russia è molto più piccola rispetto alla dipendenza di altri Paesi. Noi dipendiamo al 30% dalla Russia e il resto lo otteniamo da Libia, Algeria e dal Golfo. Siamo tra i Paesi europei, quello con le importazioni più diversificate, molto più di Germania e Polonia”, ha detto il ministro. 
Tuttavia, nonostante tali dichiarazioni ottimistiche, la situazione attorno al “South Stream” al momento non è univoca. Il buon andamento del progetto richiederà un grande sforzo da parte di tutti coloro che sono interessati alla sua attuazione. Ovviamente, la partecipazione al progetto permetterà all’Italia e ad altri Paesi europei non solo di accedere alle fonti energetiche, ma si prevedono più commesse per gli imprenditori italiani, l’espansione della cooperazione reciprocamente vantaggiosa con la Russia, non solo  nell’energia, ma anche nelle industrie collegate.

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Venti di guerra tra Israele e Libano

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Dopo quattro anni dalla guerra del 2006, torna alta la tensione tra Israele ed il movimento sciita di resistenza Hezbollah. Secondo quanto riportato dai media nelle ultime settimane, il Partito di Dio sarebbe pronto ad affrontare Israele e si starebbe preparando per combattere nei villaggi del Libano meridionale, al confine con Israele, da sempre roccaforte della milizia Hezbollah.


Secondo l’intelligence israeliana, in particolare il servizio di controspionaggio delle Forze di difesa israeliane (IDF), vi sarebbe un incremento dell’attività militare di Hezbollah nel villaggio di al-Khiam: le aree circostanti le scuole e gli ospedali verrebbero utilizzate dalle unità del Partito di Dio per nascondere le armi contrabbandate attraverso il confine siriano.

I contrasti sono aumentati anche tra le forze di pace delle Nazioni Unite e i sostenitori di Hezbollah. Agli inizi di luglio, infatti, si sono verificati diversi scontri tra le truppe della Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite (UNIFIL) e la popolazione locale nel sud del Libano, roccaforte di Hezbollah, al confine con Israele. Il contingente dell’ONU, preposto alla sicurezza della zona cuscinetto al confine tra Israele e Libano, da diversi mesi sta monitorando con maggiore intensità il traffico di armi verso il confine con Israele, ma è stato attaccato dagli abitanti dei villaggi sciiti, simpatizzanti di Hezbollah.

Il 3 agosto, invece, violenti scontri si sono verificati tra l’esercito israeliano e quello libanese nella zona al confine tra i due paesi: gli israeliani erano intenti a sradicare alcuni alberi oltre il loro reticolato, ma a sud della Linea Blu, il confine provvisorio tra i due paesi, il cui tracciato viene però contestato dal Libano. La Linea Blu segna la linea del ritiro israeliano dal sud del Libano nel dopo 22 anni di occupazione e, siccome è tracciata sul terreno solo in parte, non sempre è visibile per chi si trova dall’una o dall’altra parte del confine provvisorio. Un evento, questo, che rischia di degenerare, in quanto Hezbollah ha dichiarato, per voce del suo leader Hasan Nasrallah, che, in caso di nuova aggressione israeliana all’esercito libanese, agirà a fianco delle forze libanesi. La situazione si è risolta con l’intervento dell’esercito libanese, ma rimane preoccupante il futuro della sicurezza del paese.

Uno sguardo al passato

Da molti anni il Libano è tormentato da guerre e conflitti che avvengono dentro e fuori dai suoi confini, e i rapporti con il vicino Stato di Israele non sono mai stati facili. Risale al 1982 l’inizio dell’occupazione israeliana del Paese dei Cedri, che durò 22 anni.

Il 6 giugno di quell’anno venne avviata l’Operazione Pace in Galilea, guidata dal generale Ariel Sharon, con lo scopo di cancellare le basi della resistenza palestinese in Libano. Qui, infatti, i miliziani palestinesi si erano riorganizzati dopo l’espulsione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) dai vertici del governo giordano, ed avevano stabilito il loro quartier generale nella zona meridionale del paese. L’operazione israeliana prevedeva la creazione di una fascia di sicurezza, che si estendeva per 40 km, per difendere il nord dello Stato di Israele da eventuali attacchi.

Ma a fine giugno 1982 l’esercito israeliano attaccò diverse fazioni libanesi, tra cui la milizia sciita di Amal, le truppe del governo libanese e vari partiti di sinistra presenti nel paese. Alla fine dello stesso anno, da un’ala dissidente di Amal nacque Hezbollah (termine che in arabo significa Partito di Dio), una milizia appoggiata e finanziata dall’Iran e dalla Siria. Scopo del movimento era resistere all’invasione e ricacciare indietro le truppe di Israele.

Il gruppo si ispira ideologicamente ai precetti della rivoluzione islamica in Iran e agli insegnamenti dell’ayatollah Khomeini; mira a difendere gli interessi degli sciiti, e a sostenere un governo islamico fondamentalista, in chiave anti-occidentale e anti-israeliana. Nel corso degli anni, ha guadagnato consenso tra gli abitanti dei villaggi del Libano meridionale, costruendo ospedali, scuole ed offrendo altri servizi di prima necessità, in un contesto di incapacità del governo centrale libanese di organizzarsi in maniera efficiente. In pratica Hezbollah costituisce uno stato nello stato: partecipazioni finanziarie, imprese, alberghi, ristoranti, contributi mensili alle famiglie. Possiede un vero e proprio sistema di leggi ed un esercito professionale addestrato alla guerriglia, la cosiddetta Resistenza islamica.

Nel 1985 Israele si ritirò dal Libano, rimanendo soltanto in una “fascia di sicurezza” che liberò nel 2000. Tuttavia, non sono mai cessate ostilità tra Hezbollah e l’esercito israeliano, che spesso compiva azioni di rappresaglia in territorio libanese.

La crisi esplose nuovamente l’11 luglio 2006, quando un commando Hezbollah attaccò e distrusse un’unità militare israeliana in Israele, provocando una dura reazione. Gli scontri durarono circa un mese e cessarono dopo il voto della Risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che fu approvata sia dal governo libanese sia da quello israeliano. La Risoluzione chiedeva il disarmo di Hezbollah ed il ritiro delle truppe israeliane dal Libano, con il dispiegamento di soldati libanesi e di una forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite (UNIFIL) nel sud del Libano.

La situazione attuale

Diversi fattori hanno contribuito a scatenare i contrasti delle scorse settimane. Innanzitutto, Hezbollah possiede ora una maggiore quantità di armamenti dall’ultima guerra tra Israele e Libano del 2006, nonostante le disposizioni contrarie della già citata Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che aveva posto fine al conflitto. La tensione tra Israele ed Hezbollah è cresciuta sensibilmente negli ultimi mesi, in seguito alle accuse al Partito di Dio di aver ricevuto missili balistici Scud dalla Siria e dall’Iran. Secondo il servizio di informazioni israeliano, Hezbollah possiede attualmente un arsenale costituito da 100 missili Scud ed M-600 e 40 mila razzi a corto e medio raggio, armi nascoste nei villaggi e nelle case a sud del fiume Litani, dove si trovano 20 mila militanti sciiti, 8 mila dei quali sono stati addestrati nei campi iraniani. Inoltre, nella zona cuscinetto controllata dall’UNIFIL i miliziani di Hezbollah custodiscono anche una fitta rete di comunicazione e centri di comando.

Attualmente, però, il principale timore israeliano riguarda il programma nucleare iraniano. Israele ha cercato più volte di impedire alla Repubblica islamica di procurarsi gli armamenti nucleari, ma Hezbollah rappresenta per l’Iran un importante deterrente contro l’azione israeliana. Un eventuale attacco all’Iran provocherebbe indubbiamente una reazione di Hezbollah ed una conseguente guerra contro Israele.

Un’altra questione che complica ulteriormente i rapporti tra il governo israeliano e il movimento di resistenza sciita riguarda la recente dichiarazione del leader di Hezbollah, Hasan Nasrallah, che dietro l’omicidio dell’ex premier libanese Rafik Hariri, ci siano gli israeliani. Hariri fu ucciso in un attentato a Beirut il 14 febbraio 2005 e, fin dall’inizio, la responsabilità dell’accaduto è stata attribuita alla Siria. Durante il suo mandato, infatti, l’ex primo ministro tentò di indebolire l’egemonia siriana in Libano che per diversi anni aveva condizionato la politica del governo libanese. La sua morte scatenò una serie di manifestazioni di protesta della popolazione contro la presenza militare della Siria (la cosiddetta “Rivoluzione dei cedri”) e, di fronte alle pressione degli Stati Uniti, le truppe siriane si ritirarono dal territorio nazionale. Quello stesso anno, inoltre, fu istituito un tribunale internazionale con il compito di trovare e processare i mandanti dell’assassinio (secondo voci autorevoli, il tribunale internazionale a settembre emetterà una sentenza che incolperebbe alcuni membri di Hezbollah). Ciò indebolì il ruolo politico del Partito di Dio e degli sciiti e mandò al governo una coalizione presieduta da Fuad Siniora, indipendentista, democratico e filo-occidentale. Ma nelle ultime elezioni del 2009, Hezbollah ha ottenuto 14 seggi in Parlamento e, ad oggi, tiene sotto controllo il governo sia attraverso la presenza di alcuni suoi membri nell’esecutivo, ma soprattutto tramite la deterrenza del proprio esercito.

Una guerra per il controllo delle risorse

Al centro della storia di Israele e dei suoi conflitti con i vicini paesi arabi si trova la questione della gestione delle risorse idriche (si pensi al caso della Siria con le Alture del Golan), che è stata ed è tuttora una delle cause scatenanti delle controversie regionali. Tuttavia, esiste un altro elemento che rischia di innalzare le eventualità di uno scontro, cioè il gas naturale. Si tratta di una risorsa naturale di cui sono ricchi molti paesi mediorientali, come l’Egitto, il Qatar e l’Iran, ma non Israele e il Libano, che costituiscono due eccezioni nello scenario mediorientale, ricco di idrocarburi.

Gli attriti di queste ultime settimane deriverebbero dall’annuncio fatto da Israele che al largo di Haifa, a circa 90 Km dalla costa, vi sarebbero enormi riserve di gas naturale. Si tratterebbe dei giacimenti di Tamar e Dalit, contenenti circa 170 miliardi di metri cubi di gas, la cui produzione dovrebbe cominciare nel 2012. A ciò si aggiunge un terzo giacimento, ancora in via di esplorazione, il Leviathan (quasi il doppio del Tamar), che potrebbe portare le riserve nazionali a circa 450 miliardi di metri cubi. Sarebbe una vera e propria miniera per lo Stato di Israele, per il quale la dipendenza energetica è da sempre uno dei punti deboli. Infatti, il paese, a causa di una sempre maggiore richiesta interna, deve importare gas naturale e carbone, principalmente dall’Egitto, quindi lo sfruttamento dei giacimenti di gas sarebbe la soluzione ai problemi di sicurezza energetica. Inoltre, Israele potrebbe diventare esportatore di gas naturale verso l’Asia e l’Europa, anziché importatore, con rendite fino a 20 miliardi di dollari.

Da qui il disaccordo con il Libano, che ha rivendicato la sovranità su una parte dei giacimenti, i quali sconfinerebbero all’interno delle acque territoriali libanesi. In particolare, Hezbollah ha accusato Israele di sottrarre al Libano le proprie risorse naturali. A sua volta, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, ha accusato Hezbollah di approfittare della scoperta di questi giacimenti per rivendicare diritti inesistenti su tali aree.

Un’altra zona calda al centro della questione tra Israele e Libano è la regione di Shebaa, un’area ricca di fattorie situata tra il confine libanese e le alture del Golan, parte dei territori occupati da Israele. Secondo i governi libanese e siriano, le fattorie di Sheabaa rientrano nel confine libanese, mentre per Israele si troverebbero al massimo entro i confini siriani (opinione che però non pregiudica il perdurare dell’occupazione sionista, ma anzi mira a giustificarla).

In conclusione, un conflitto tra Israele ed Hezbollah sarebbe grave sia perchè provocherebbe enormi perdite fra la popolazione civile, sia per le implicazioni a livello regionale ed internazionale, poiché lascerebbe irrisolte le questioni di fondo della pace e della sicurezza nella regione mediorientale.


* Silvia Bianchi è dottoressa in Editoria e giornalismo (LUMSA di Roma)

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La Rinascita del PKK fra legittimazione e violenza

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La Turchia sta avocando a sé e conquistando il ruolo di potenza regionale, punto di contatto fra oriente e occidente. A tal fine la sua politica estera si sta, nuovamente, spostando ad est verso i vicini paesi mediorientali, pur mantenedo aperta la porta ad occidente, verso gli USA e l’UE. La questione ancora aperta relativa ai curdi e alla lotta trentennale con il gruppo terrorista del partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) pesano, però, sulla crescita geopolitica della Turchia, tanto che gli interessi economici statunitensi ed europei nell’area, da una parte, e la volontà di Ankara di avvicinarsi all’UE, dall’altra, fanno sì che ci siano forti pressioni esterne per la stabilizzazione dell’area. Tale obiettivo non può che passare, però,  attraverso la soluzione della questione curda.

D’altra parte, la capacità  di Ankara di trovare una soluzione efficace in merito, é fortemente condizionata dall’inscindibilità di una questione curda  da una questione PKK. La ricerca di nuovi tentativi di una possibile soluzione si configura, così, come l’avvio di una nuova fase di scontri con il gruppo terrorista, uno scontro che si combatte parallelamente su due fronti, quello della politica interna e quello delle relazioni esterne.

Politica interna: legittimazione politica e ritorno alla violenza

Sul fronte interno i rapporti tra Ankara e il PKK si configurano come  contrapposizione tra la ricerca da parte di quest’ultimo di una legittimazione politica e la chiusura del governo al dialogo con esso o con soggetti ad esso legati.

Un anno fa,  il governo di Recepp Tayyp Erdogan lanciava quella che è stata battezzata come “apertura democratica” o “iniziativa curda”, ovvero l’avvio di un percorso finalizzato alla definizione di una strategia globale per la soluzione del problema curdo.

Come alcuni osservatori hanno messo in evidenza l’apertura del governo è arrivata, non casualmente, in seguito all’annuncio della stesura da parte di Ocalan, leader in arresto del PKK, di una roadmap contenente le condizioni per deposizione delle armi nella trentennale insurrezione etnica-curda nel sud est turco. “La questione [curda] sarà risolta ad Ankara, non a Imrali” ha affermato il ministro degli affari esteri Ahmet Davutoglu facendo riferimento al luogo in cui è detenuto Ocalan. Il governo, rilanciando una propria iniziativa ha dunque voluto evitare di trovarsi nella situazione di dover prendere in considerazione delle raccomandazioni provenienti dal leader del PKK, riaffermando così di non voler accettare Ocalan come negoziatore, e rappresentante del popolo curdo, e di non considerare il PKK come controparte per ricercare una soluzione concordata alla questione curda.

La roadmap, la cui comunicazione era prevista per la metà di agosto dello scorso anno, è stata sequestrata dalla Procura e non ancora resa pubblica. Nonostante ciò, anticipi e indiscrezioni ne hanno reso noto, per grandi linee, il contenuto. Le condizioni delineate da Ocalan sostanzialmente mirano alla reinstaurazione di un assetto costituzionale simile a quello della carta del 1921, nella quale si riconosceva alle province un’ampia autonomia locale, in particolare in materia di educazione, salute, economia, agricoltura, sviluppo e questioni sociali. La legittimità del modello cosidetto della “autonomia democratica” sarebbe inoltre, ad opinione della leadership del PKK e del presidente del Partito per la pace e democrazia (BDP) Bayik, assicurata dalla Carta sull’autonomia dei governi locali, firmata dalla Turchia con l’Unione Europea nel 1988, e da certe condizioni poste dalla legge del 1991.

La roadmap, delineata da Ocalan, ha reso piuttosto scomodo, agli occhi del Partito della giustizia e sviluppo (AKP), al governo, il ruolo del Partito pro-PKK della società democratica sociale (DTP), che ha fatto sua la posizione di Ocalan e ha presentato il proprio documento nell’ambito dell’iniziativa curda, basandolo su un’ottica molto vicina a quella della roadmap.

Il DTP era il principale partito di rappresentanza curda avendo conquistato, nelle politiche del 2007, un sostanzioso numero di seggi. Nelle elezioni amministrative dell’aprile 2009 il DTP ha riscosso un nuovo importante successo, a discapito delle aspettative dell’AKP. Due settimane dopo, il 14 aprile, il PKK ha proclamato un cessate il fuoco, ritenedo che il successo elettorale potesse essere un segnale che i tempi erano maturi per la definizione di una soluzione democratica al conflitto. Il giorno dopo la polizia turca ha avviato una operazione di arresti ai danni dei membri della confederazione democratica curda (KCK) , arrestando molti deputati e sindaci del DTP. L’operazione, portata avanti fino a settembre scorso, si è conclusa con l’arresto di circa 1500 fra intellettuali, giuristi, politici e operatori sociali curdi. L’attacco al DTP si è completato nel dicembre 2009, con la sentenza della corte costituzionale che ne ha sancito lo scioglimento e l’espulsione dalla vita politica per cinque anni di numerosi suoi membri fra cui del presidente Türk, uno dei politici curdi più moderati e rispettati (Osservatorio Balcani-Caucaso, 30 aprile 2009).

É difficile non leggere questi eventi come il tentativo del governo turco, e in particolare dell’AKP di tagliare fuori l’ala politica dell’attivismo curdo. Se è vero che la motivazione ufficiale è quella di non scendere a contrattazioni con il gruppo terrorista criminale, è altresì vero che l’assenza di un interlocutore, con il quale trattare la pace, ha significato e significa la morte dell’iniziativa avviata dal governo per risolvere la questione curda e, conseguentemente, il ritorno alla violenza. Le frange armate del PKK, hanno trovato, infatti, legittimazione per compiere nuovi attacchi terroristici. Il 21 giugno scorso il PKK ha, inoltre, revocato il cessate il fuoco, unilateralmente proclamato nell’aprile 2009. Da quel giorno si contano più di 50 vittime di attacchi terroristi e scontri con l’esercito.

A peggiorare ancora  la situazione di caos è l’ostracismo dei partiti nazionalisti di opposizione, verso l’avvio del dialogo nell’ambito dell’iniziativa curda. Il partito del movimento nazionalista (MHP) ed il partito del popolo republicano (CHP), hanno dimostrato infatti forte ostilità verso l’iniziativa di governo. I rispettivi presidenti di partito, Devlet Bahceli e Deniz Baykal, hanno a più riprese affermato il loro rifiuto di dialogare con il PKK e con i movimenti ad esso legati, accusando Erdogan di voler mettere sullo stesso piano terroristi e martiri (Eurasia Daily Monitor, 21 agosto 2009; Middle East Report, 4 agosto 2010). Rifiutando di prendere parte alla ricerca di una soluzione pacifica alla questione dei curdi, i partiti di opposizione sono fortemente sospettati di avere interessi nel mantenere alte le tensioni e ad aizzare la violenza, come recenti fatti di cronaca hanno messo in evidenza – il JITEM, un comparto di intelligence interno alla gendarmeria e legato al MHP, è sospettato di aver preso parte a un attentato terroristico avvenuto nelle scorse settimane nel distretto di Dortyol, simulandolo come atto del PKK (Today’s zaman, 2 agosto 2010).

Relazioni esterne e controllo regionale

Guardando alle relazioni esterne, i rapporti fra Ankara e il PKK possono essere analizzati come il tentativo di entrambi di mantenere, o conquistare, il controllo della regione dell’Anatolia orientale. L’intento di Ankara è di isolare il PKK tagliando i suoi principali contatti internazionali.

È noto che il PKK ha potuto condurre la sua lotta grazie a un forte sostegno esterno. In particolare, fra gli altri, dai vicini Iraq e Siria ha ricevuto soldi, armi, addestramento, protezione e supporto politico e morale (vedi: Lybov Mincheva e Ted Robert Gurr, 28 marzo 2008). La Siria ha ospitato fino alla fine degli anni ’90 campi di addestramento del PKK nella Valle della Bekaa dei territori occupati del Libano; per tutti gli anni ’80 e ’90 Iran e Iraq hanno offerto ospitalità a basi ed a guerriglieri PKK, in cambio di informazioni di intelligence circa le istallazioni militari USA in Turchia. Inoltre il PKK ha tratto forza dai legami con le minoranze curde presenti in questi Stati,  con le quali condivide l’obiettivo della creazione di un Kurdistan indipendente, come previsto nel trattato di Sévres del 1920. Particolarmente importanti sono i legami con il Governo Regionale Curdo (KRG) del nord Iraq, che offre basi e protezione ai guerriglieri del PKK, ed è, soprattutto oggi, il principale alleato del PKK nella regione.

Il forte radicamento sul territorio e i legami con gli Stati nell’area hanno permesso al PKK non solo di avere forti basi per organizzare le sue attività, ma anche di cimentarsi in proficue attività economiche legate a traffici di armi e droga. Soprattutto per quanto riguarda queste ultime, l’area in questione non è solo un crocevia di traffici, ma anche un importante punto di produzione, soprattutto di oppiacei. Secondo quanto riferiscono recenti ricerche, il PKK gestisce circa il 60-70% dei traffici di droga in europa, il che gli permette di ricavare, è stato stimato, circa 40 milioni di dollari l’anno (Lybov Mincheva e Ted Robert Gurr, 28 marzo 2008). L’attacco USA in Iraq nel 2003, ha permesso al PKK di avvantagiarsi della situazione di caos politico, creando ulteriori importanti opportunità economiche e politiche legate al terrorismo transfrontaliero e ai traffici illeciti.

Dall’altra parte, a partire dai primi anni 2000 e con maggiore forza negli ultimi anni, la volontà di Ankara di affermarsi come potenza regionale ha fatto sì che essa intavolasse più strette relazioni con i suoi vicini mediorentali e stringesse accordi in chiave anti terroristica, privando sostanzialmente il PKK di importanti risorse logistiche ed economiche.

Nel corso degli ultimi dieci anni la Turchia ha siglato con la Siria nel 2000, con l’Iran nel 2004 e con l’Iraq nel 2007 dei memorandum d’intesa affinchè si sancisse il riconoscimento del PKK come gruppo terrorista e si adottassero misure per combatterlo. Nel memorandum siglato con l’Iraq sono inoltre incluse delle clausole che autorizzano incursioni militari turche nel nord del paese, effettuate nel 2008 e ripresi nei mesi scorsi.

Parallelamente Ankara sta lavorando per un ravvicinamento politico ed economico in particolare con Siria ed Iraq. Con tale obiettivo, a pochi mesi dal lancio dell’iniziativa curda, il 13 ottobre del 2009 è stato inaugurato il primo Consiglio di cooperazione strategica fra la Turchia, la Siria e l’Iraq (Eurasia Daily Monitor, 16 ottobre 2009). Il Consiglio si è svolto all’insegna dello slogan “destino, storia e futuro comune”. Durante gli incontri che hanno coinvolto diversi ministeri, come quello degli esteri, dell’energia, dell’agricoltura, dei trasporti, sono stati siglati più di 50 accordi, in ambito economico politico e commerciale. Fra  questi sono stati firmati anche accordi volti a rafforzare la lotta al terrorismo ed in particolare al PKK. Nell’occasione Erdogan ha inoltre annunciato un cambio di strategia nei confronti del Governo Regionale Curdo, decidendo di aprire un consolato a Arbil la capitale del Kurdistan iracheno, mirando a scoraggiare il governo curdo a dare sostegno politico e  logistico al PKK.

A sciolgliere i rapporti con i suoi vicini, sono state sostanzalmente  ragioni economiche, legate alla trasformazione della regione in uno strategico corridio energetico e ai forti interessi economici e politici degli Stati Uniti. Ne è un esempio la costruzione del gasdotto Nabucco che dovrebbe trasportare gas dalla regione caucasica in Europa tramite l’Iraq e la Turchia.

In ragione dell’evoluzione di tali relazioni, il PKK, ha subito l’arresto di centinaia di guerriglieri in Siria (Zaman, 16 luglio 2010) e la ripresa dei bombardamenti e dei rastrellamenti turco-iraniani delle proprie basi in Nord Iraq. Ha visto venir meno, dunque, il supporto esterno precedentemente assicurato.

La battaglia di rinascita del PKK

La lettura congiunta degli eventi sul piano delle relazioni esterne e della politica interna, permette di delineare un’analisi della strategia di lotta del PKK. La volontà di quest’ultimo di ricercare una legittimazione politica può essere letta, infatti, come consapevolezza circa il ruolo di corto respiro politico e strategico dell’uso dell’azione terroristica e criminale, soprattutto in relazione al cambiamento delle congiunture internazionali, ed in particolare dell’evolversi delle alleanze nella regione mediorientale ed al rafforzamento della lotta al terrorismo.

Tale processo è iniziato già da un decennio: quando Ocalan è stato arrestato, nel 1999, il PKK si è impegnato in quella che alcuni osservatori hanno definito “lotta per la rinascita”, ovvero il tentativo di costituirsi come pseudo partito politico, portando avanti le proprie istanze attraverso l’azione del movimento legale curdo (Lybov Mincheva e Ted Robert Gurr, 28 marzo 2008). Tale “lotta” significa, dunque, ottenere che i partiti pro-curdi trovino uno spazio consolidato di legittimazione. L’attivismo politico legale è sempre stato una componente importante dell’azione del movimento curdo. Nel corso degli anni ’90 sono nati una serie di partiti politici, relegati però al margine del gioco democratico proprio in ragione dei loro troppo espliciti legami con il PKK. In considerazione di ciò la stessa leadership del gruppo terrorista tenta di prendere, almeno ufficilmente, le distanze dalle rappresetanze legali del movimento curdo. In tal senso può spiegarsi perchè Ocalan ha raccomandato al partito nato dalle ceneri del DTP, il partito per la pace e democrazia (BDP), di non associarsi con il PKK e di non presentarsi come il suo portavoce, bensì di lottare sull’arena politica.

In termini di strategia, creare questo spazio di legittimità, permette al PKK di ritrovare un terreno di consensi sul quale portare avanti le istanze del movimento curdo. Non è casuale il fatto che la principale battaglia si stia al momento svolgendo nei termini di tutela delle minoranze e autonomia delle amministrazioni locali, tema che porta Ankara a confrontarsi – o scontrarsi- con l’UE circa gli obblighi imposti dal processo di integrazione.

Proprio in considerazione di tali interessi, sarebbe ingenuo pensare di poter effettivamente scollare il PKK dalla rappresentanza legale e politica curda. Una tale visione sottovaluta, inoltre, il grado di radicamento del PKK nella società civile. Tanto più che buona parte del bacino elettorale sul quale i partiti pro-curdi si sostengono sono persone che voterebbero, potendo, il PKK.  A sostegno di questa tesi è significativo notare che, nonostante le raccomandazioni di Ocalan e le dichiarazioni di intenti, il BDP abbia subito fatto propria la lotta per l’ “autonomia democratica” e che non abbia dato sin ora, significativi segnali di distacco dal PKK.

D’altra parte un atteggiamento troppo duro nei confronti dell’ala legale del movimento curdo, pur volta a colpire la sua ala armata, potrebbe rivelarsi un gioco troppo costoso. Infatti, gli atti di repressione e di chiusura del governo nei confronti del movimento curdo vengono utilizzati dal PKK, e dai suoi comparti più estremi, come pretesti per continare le azioni di guerriglia, come dimostra l’escalation di violenza degli ultimi mesi. Significative in tal senso sono le dichiarazioni rilasciate dal comandante in carica del PKK, nonchè presidente del KCK, Murat Karaylan il quale, in una intervista rilasciata al giornale Mylliet ha affermato che il KCK, pur avendo deciso di seguire la roadmap di Ocalan, ha allo stesso tempo deciso di prepararsi a continuare la resistenza armata contro lo Stato turco.

Potrebbe, dunque, essere miope da parte del Governo non riconoscere la sostanziale differenza che separa i politici dai guerriglieri, ovvero sottovalutare e lasciare cadere la volontà dell’attivismo politico curdo che mira al perseguimento dei fini politici attraverso mezzi non violenti. Si precluderebbe così la possibilità, difficile, ma possibile, di trovare un interlocutore con forti credenzialità per avviare a soluzione la “questione curda” e fare assurgere la Turchia a vera potenza regionale.

* Sara Bagnato è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Perugia)

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Ahmadinejad e la politica demografica: più nascite grazie agli aiuti statali

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L’Irannon è un paese per vecchi” o non deve diventarlo nel prossimo futuro. Sembra essere questa la massima di fondo che ha ispirato il discorso del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad in occasione di una cerimonia d’inaugurazione di un piano per l’assistenza all’infanzia, organizzato il 27 luglio a Teheran. Dopo le critiche rivolte alla campagna per il controllo delle nascite, in atto in Iran da circa un ventennio, il leader iraniano ha annunciato la sua personale proposta al riguardo: incrementare il numero della popolazione. Come? Attraverso degli incentivi governativi destinati ai nuclei familiari in procinto di mettere al mondo dei figli o con un ridotto numero di figli a carico, ma propensi ad allargare la famiglia.

Nello specifico, il governo fornirà aiuti finanziari in termini di “compenso” a tutti coloro che metteranno al mondo dei figli durante l’anno in corso (cominciato secondo il calendario iraniano il 21 marzo). Ad ogni famiglia saranno versati 950 dollari in un conto governativo. A questo “sussidio” si aggiungeranno 95 dollari addebitati annualmente sempre dallo stato, fino a quando il bambino non avrà raggiunto i 18 anni di età. Una volta compiuti i 20 anni, il denaro potrà essere impiegato per finanziare gli studi o per sposarsi e mettere su famiglia, oppure per qualsiasi bisogno legato alla salute o per comprare una casa. Una certezza economica capace di coprire delle spese (ad esempio, quelle legate alla formazione scolastica e universitaria per i propri figli), che le famiglie iraniane allo stato attuale non sarebbero in grado di fronteggiare, a causa della crisi economica abbattutasi, seppur con riflessi minori, anche sulla Repubblica Islamica nell’ultimo anno.

La proposta avanzata dal Presidente, almeno nel suo impianto teorico non sembra fare una piega, giacché si rivolge in sostanza agli strati più poveri della società, gli stessi che lo hanno sostenuto alle elezioni del 2005 e del 2009. In poche parole, anche le famiglie meno abbienti, grazie agli aiuti di stato, potranno garantire un futuro alla propria prole. Ma la politica demografica propugnata dal presidente Ahmadinejad non si ferma qui. Fornire aiuti economici alle giovani coppie vuol dire, prima di tutto, incentivare le donne a mettere al mondo più figli senza incorrere nel rischio di possibili aborti dovuti a gravidanze indesiderate. Al di là di tutele e garanzie a vantaggio della salute pubblica, dietro la proposta si cela il progetto di dare avvio ad un processo di incremento demografico che, secondo le aspirazioni del suo stesso fautore, dovrebbe raggiungere punte elevate nei prossimi anni. Dai 75 milioni di abitanti attuali, l’Iran dovrebbe accogliere entro i suoi confini quasi il doppio della popolazione odierna: 150 milioni, secondo stime approssimative. Un vantaggio, oppure no?

È ormai noto che l’Iran sia un Paese dalla doppia anima: da un lato, la modernità che timidamente ricerca i suoi spazi vitali, popolata dai volti di 36 milioni di giovani – la cosiddetta “terza generazione” alla quale appartiene circa la metà della popolazione –dall’altro, la tradizione e le difficoltà legate ad un’economia instabile perché dipendente dalle risorse naturali di cui il sottosuolo dispone. Un deficit colmato in gran parte dalle relazioni commerciali con partner stranieri: Asia, Medio Oriente ed Europa che fungono da principali acquirenti di materie prime come gas e petrolio. Nulla toglie al fatto che, a dispetto di quanto si potrebbe pensare, l’Iran è un Paese non solo moderno (per alcuni aspetti) ma anche ricco (per altri). La sua modernità viene difatti soppesata sulla base di una serie di fattori. Uno dei principali indicatori “di sviluppo culturale e passi da gigante nel processo di civilizzazione” è senza dubbio il livello di istruzione raggiunto dalla popolazione, e l’Iran in questa direzione registra un’elevatissima percentuale, pari all’88%, il più alto tra i Paesi musulmani.

Il secondo fattore di modernità è la folta presenza di giovani e giovanissimi con un’elevata formazione scolastica e universitaria. Sono in prevalenza laureati o dottori con master e specializzazioni post laurea. Titoli acquisiti in patria oppure all’estero, presso le università americane o inglesi. E circa il 60% dei laureati sono donne. Ingegneri, informatici, avvocati che vanno ad ingrossare le fila della nuova borghesia iraniana. Una forza – lavoro, la loro, fatta non solo di braccia e mani, ma soprattutto di idee e progetti da applicare ai vari settori della vita pubblica, preziosi per imprimere un impulso ad un’economia nazionale spesso lenta e soffocata, anche per i continui e ripetuti limiti imposti dai pacchetti di sanzioni varati dalla comunità internazionale.

Il terzo fattore è rappresentato dallo stato dell’economia nazionale che influisce, non senza conseguenze, sulla fisionomia del tessuto sociale iraniano. A tal proposito, proprio il 2009 è stato per l’Iran un “annus horribilis”, a causa del crescente livello di disoccupazione che nel trimestre dicembre – marzo ha sfiorato picchi elevati. Secondo i dati forniti dal Centro di Statistica Iraniano, il tasso di disoccupazione ha raggiunto l’11,3% registrando così uno scarto pari all’1,8% rispetto all’anno precedente. Il 2009 ha registrato un calo del prezzo del petrolio e la conseguente diminuzione della produzione di “oro nero” (in seguito ai tagli imposti dall’OPEC). Ciò ha influito profondamente sulla crescita reale del PIL e ha limitato l’azione del governo pronto a varare una politica fiscale di espansione, a sostegno dei consumi privati e a vantaggio di una crescita nella sfera degli investimenti. A questo si è aggiunto il crescente livello di disoccupazione, il più alto registrato negli ultimi cinque anni (2005-2010).

Nonostante le forti limitazioni imposte all’economia nazionale e provenienti tanto dall’interno quanto dall’esterno (import ed export), l’Iran ha dimostrato per molti versi di essere un Paese dinamico, determinato a mantenere inalterata la sua posizione privilegiata di “produttore di oro nero”. Infatti, circa il 10% delle riserve mondiali di petrolio sono prodotte dal sottosuolo iraniano. I guadagni legati alla produzione del petrolio forniscono ancora l’80% dei guadagni connessi all’esportazione e il 40/70% delle entrate governative. Nell’anno relativo al 2008-2009, l’Iran ha registrato entrate pari a 98 miliardi di dollari USA. Inoltre, il governo iraniano sta compiendo enormi sforzi nel tentare di dare impulso ad una diversificazione economica, puntando su settori per i quali si prevedono buone possibilità di espansione: l’industria petrolchimica e l’industria dell’acciaio.

Tra alti e bassi in campo economico, il governo iraniano, come si è detto, ha comunque deciso di inaugurare una politica demografica, volta in sostanza a promuovere un aumento della popolazione futura quindi un incremento delle nascite. Anche in questo caso, si possono prevedere effetti a breve e lunga durata, traducibili da un lato in un aumento della spesa pubblica e, dall’altro, ad un futuro ricambio generazionale. L’Iran è un Paese giovane. Più della metà della popolazione attuale ha meno di 30 anni. Plasmare una “quarta generazione” composta da giovani di età compresa tra i 20 e i 30 con un elevato livello di istruzione e professionalità, significa imprimere un impulso maggiore all’economia nazionale, attraverso un accrescimento del livello di competitività che si può tradurre, in molti casi, nello sviluppo di nuovi settori come ad esempio il settore informatico o quello tecnologico.

È pur vero che la principale fonte di sostentamento per l’economia iraniana è costituita dalla produzione di petrolio, ma occorre menzionare come in Iran stia fiorendo un vero e proprio mercato delle tecnologie d’informazione. Tradotto sul piano pratico, ciò corrisponde ad un forte impulso nello sviluppo di infrastrutture e servizi on-line: e- commerce, e-government, e-sanità, e-banche, e-formazione. A ciò si deve aggiungere la preponderante diffusione di Internet e la crescita di industrie deputate alla realizzazione di strumenti tecnologici. Si è calcolato che circa 550 aziende iraniane hanno contribuito negli ultimi tre anni a fortificare un mercato in espansione, ossia quello logistico e tecnico, che ha registrato una crescita annuale del 40%.  Ma forse non basta.

La proposta di Ahmadinejad deve pur tenere conto del Paese reale e del suo stato di salute. Se da un lato, la crescita demografica può essere sinonimo di rinnovamento generazionale e spinta economica dovuta all’aumento della competitività, dall’altro non può tralasciare il fattore negativo, ovvero l’aumento della spesa pubblica e la conseguente crescita esponenziale del livello di disoccupazione, al di sopra della soglia del 7% fissato dal patto di sviluppo economico. Certo, la manovra presidenziale potrà attingere al reddito derivante dal petrolio – per poter sovvenzionare i vari programmi interni – ma anche questo potrebbe non essere sufficiente. Un aumento della popolazione comporta necessariamente una crescita dei bisogni collettivi e individuali e dunque un flusso continuo di denaro per alimentare le spese ed evitare un forte disavanzo (e dunque il deficit spending).

* Pamela Schirru è laureanda in Filosofia Politica (Università di Cagliari)

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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La sorprendente politica del nuovo presidente colombiano: falco o colomba?

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Il 7 agosto scorso si è tenuta la cerimonia di insediamento del nuovo presidente della Colombia, Juan Manuel Santos. Il giuramento del nuovo Capo di Stato è stato preceduto da giorni di forte tensione tra la Colombia e il Venezuela, sfociati nello spiegamento di forze militari al confine tra i due Paesi e nella rottura dei rapporti diplomatici.

Il 22 luglio l’ambasciatore colombiano presso l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) aveva accusato il Paese vicino di supportare i narcoterroristi delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia), ospitando almeno 1500 membri dell’organizzazione in 87 basi dislocate sul territorio venezuelano, al confine con la Colombia. L’ambasciatore ha mostrato foto e video aerei con identificazione di coordinate, che inchioderebbero Caracas alle sue responsabilità, tra cui un’immagine di uno dei leader delle FARC disteso a prendere il sole su una spiaggia venezuelana con tanto di birra Polar (il marchio più famoso del Venezuela) in mano.

Poteva essere l’ennesima riproposizione di un copione già visto nei travagliati rapporti tra i due Paesi sudamericani: la Colombia accusa il Venezuela di ospitare narcoterroristi, Caracas risponde accusando Bogotà di essere “serva degli Stati Uniti”, si rompono le relazioni diplomatiche ed entrambi i Paesi spediscono un paio di divisioni alla frontiera a guardarsi in cagnesco.

In pratica è successo anche questa volta, ma un elemento di novità ha risolto rapidamente e efficacemente la crisi, con incoraggianti segnali che fanno sperare in una definitiva stabilizzazione nelle relazioni diplomatiche tra i due Stati.

Nel suo discorso inaugurale, infatti, il neo-presidente Santos ha pronunciato parole di apertura nei confronti del Venezuela, e ha dichiarato che “la parola guerra non è inclusa nel mio vocabolario”. Alla cerimonia è stato invitato anche Chavez, che tuttavia non ha partecipato, venendo rappresentato dal suo ministro degli Esteri, Nicolas Maduro.

Pochi giorni dopo l’insediamento, il nuovo presidente colombiano e il leader venezuelano si sono incontrati a Santa Marta, in Colombia, promettendo pace duratura, scambiandosi attestati di stima e lasciando completamente spiazzati analisti e diplomatici di tutto il mondo, che fino alla settimana prima temevano lo scoppio di ostilità tra i due Paesi. Cosa è accaduto? Cosa ha trasformato il “duro” ex ministro della Difesa del governo Uribe, che non aveva avuto remore nell’ordinare l’attacco contro le basi delle FARC in territorio equadoregno, in un araldo della pace? E come è stato possibile un così rapido mutamento del caudillo venezuelano, che fino a poche ore prima aveva pronosticato guerra e devastazioni per l’odiato vicino filoamericano, e che ora tiene una conferenza stampa congiunta con il suo presidente?

Un nuovo inizio con Caracas

Quando lo scorso 20 giugno Juan Manuel Santos vinse le elezioni presidenziali tutti gli osservatori e gli esperti della politica colombiana annunciarono che la linea dura contro le FARC e contro i Paesi vicini accusati di sostenere i narcoterroristi, portata avanti negli otto anni del governo di Alvaro Uribe, sarebbe diventata una linea durissima, viste le credenziali del neo-eletto presidente.

Santos, ministro della Difesa dal 2006 al 2010, considerato un “falco” dell’amministrazione Uribe, aveva portato avanti una lotta senza esclusione di colpi contro le organizzazioni terroriste e i narcotrafficanti colombiani (molto spesso due facce della stessa medaglia, cosa che ha fatto nascere il termine “narcoterroristi”). L’azione del governo si era concentrata in particolare contro le FARC, che all’inizio del primo mandato di Uribe, nel 2002, contavano oltre 20.000 effettivi e controllavano gran parte del territorio nazionale. Durante il suo mandato ministeriale Santos autorizzò numerose operazioni militari che decimarono la leadership del gruppo, come ad esempio la famosa “Operazione Fenix”, nella quale fu ucciso il numero due delle FARC Raul Reyes con un’incursione aerea sul territorio dell’Ecuador, provocando una crisi diplomatica ancora in corso tra Bogotà e Quito, e l’”Operazione Scacco”, che portò alla liberazione dell’ex candidata alla presidenza Ingrid Betancourt. A questi successi militari tuttavia si devono sommare anche scandali di abusi di potere da parte di membri delle Forze Armate Colombiane spesso coperti dal governo, e i numerosi casi dei “Falsi Positivi”, veri e propri omicidi di innocenti cittadini colombiani, per la maggior parte poveri contadini, che venivano presentati come guerriglieri caduti in combattimento.

La gestione della Difesa da parte di Santos non verrà ricordata per un esemplare rispetto della trasparenza o del diritto internazionale, ma è innegabile un consistente progresso nella lotta contro la guerriglia: oggi le FARC possono contare su meno di 8.000 uomini, il controllo del territorio è tornato solidamente nelle mani del governo e le azioni della guerriglia sono state arginate nelle sole aree di frontiera, nelle quali possono ancora operare, secondo Bogotà, soltanto grazie al supporto e alla copertura dei Paesi vicini, primo tra tutti il Venezuela. Per queste ragioni le aspettative del mondo nei confronti del nuovo presidente erano “fuoco e fiamme”, soprattutto nei confronti di Caracas. E invece il nuovo Primo Cittadino colombiano ha sorpreso tutti, mostrando un’inaspettata apertura, sia verso Chavez, ma anche, cosa ancor più sorprendente, nei confronti delle stesse FARC.

Durante il suo discorso di inaugurazione, Santos ha dichiarato che avrebbe portato avanti un dialogo “diretto e franco” con il Venezuela, senza mediazioni di altri Stati. Poteva essere la solita frase di rito, pronunciata da un presidente che vuole fare bella figura il suo primo giorno di lavoro, e invece come poche volte nello scenario politico internazionale, alle parole sono seguiti molto velocemente i fatti. A capo della diplomazia di Bogotà, infatti, è stata nominata l’ex ambasciatrice a Caracas, Maria Angela Holguin, che più volte si era scontrata con il presidente Uribe per la durezza della sua politica nei confronti del Paese vicino. Inoltre, il giorno dopo la cerimonia di insediamento, i ministri degli Esteri di Colombia e Venezuela hanno annunciato l’incontro tra i due Capi di Stato per il giorno seguente. Una rapidità che deve aver sorpreso Chavez, il quale ha interrotto il suo programma domenicale “Alo Presidente” per trasmettere in diretta la conferenza stampa dei due cancellieri, e ha dichiarato che quella notte sarebbe “andato a dormire felice”.

Ancora più sorprendenti sono state le parole pronunciate dal caudillo venezuelano pochi istanti dopo. Chavez ha attaccato duramente le FARC, bollando come “senza futuro” il proseguimento della lotta armata e affermando che l’organizzazione è un “problema anche per il Venezuela”. “Non ho approvato, né approvo, né approverò la presenza di forze guerrigliere. Questo territorio è sovrano”, ha sanzionato il leader bolivariano. Una lectio magistralis di Realpolitik sudamericana. Sin dai tempi della sua ascesa al potere, infatti, Chavez aveva sempre espresso solidarietà alle FARC, proclamando “rispetto per il loro progetto politico”, imputando a Bogotà le responsabilità del conflitto colombiano e auspicando che la rivoluzione conquistasse il potere anche nel Paese vicino. Inoltre il 23 luglio, il giorno dopo il “J’accuse” colombiano, l’ambasciatore venezuelano presso l’OSA aveva spudoratamente ammesso la presenza di membri delle FARC sul suo territorio.

Evidentemente le FARC sono diventate un ospite troppo ingombrante per il Venezuela, e Chavez non ha avuto remore a sacrificarle sull’altare dei rinnovati rapporti con la Colombia. Un cambiamento di rotta notevole, motivato non soltanto da ragioni di buon vicinato diplomatico. Dall’inizio della crisi tra i due Paesi, infatti, il valore degli scambi commerciali è crollato da 6,5 miliardi a 2,6 miliardi di dollari, con una previsione per la fine del 2010 di soltanto 1 miliardo di dollari. Con un’economia in negativo (il Venezuela sarà l’unico Paese sudamericano con un PIL negativo nel 2010), Caracas non è in grado di sopportare a lungo una guerra commerciale di questa portata. La prova della spegiudicatezza politica di Chavez sta nel fatto che il leader bolivariano non ha neanche lontanamente menzionato le ragioni che hanno portato alla crisi: l’autorizzazione all’utilizzo di basi militari colombiane alle forze armate statunitensi. Concessione negoziata peraltro durante il periodo in cui Santos era ministro della Difesa.

L’elezione del “duro” Santos ha portato quindi ad una inaspettata quanto rapida riconciliazione tra Colombia e Venezuela. L’incontro di Santa Marta, avvenuto all’interno del Mausoleo dedicato a Simon Bolivar, non poteva essere una location migliore per questa occasione storica, durante la quale Chavez e Santos, in una conferenza stampa congiunta sotto la statua del Libertador, hanno dichiarato di voler “girare pagina” e “dimenticare il passato”.

Carota e Bastone con le FARC

Il discorso inaugurale di Santos non ha risparmiato sorprese anche sul fronte della lotta al narcoterrorismo. “Ai gruppi armati illegali che invocano ragioni poltiche e oggi parlano ancora una volta di dialogo dico che il mio governo sarà aperto a qualsiasi discorso che cerchi di estirpare la violenza” ha dichiarato il neo-presidente colombiano, inviando un messaggio di apertura al dialogo alle FARC, a condizione che vengano liberati tutti gli ostaggi, deposte le armi e troncati i legami con il narcotraffico.

La risposta delle FARC non si è fatta attendere: l’11 agosto un’autobomba è esplosa al centro di Bogotà, di fronte alla sede dell’emittente “Radio Caracol” e dell’agenzia di stampa spagnola “Efe”, provocando il ferimento di 18 persone e danneggiando decine di edifici. Un attentato del genere potrebbe apparire come la dimostrazione che la guerriglia gode di pieno vigore e non ha la minima intenzione di sotterrare l’ascia di guerra, ma analizzando alcuni episodi che hanno caratterizzato le ultime settimane si delina una situazione molto diversa.

Una settimana prima della cerimonia di insediamento di Santos le FARC hanno divulgato un video in cui il loro leader maximo, Alfonso Cano, propone al nuovo presidente il ripristino del dialogo per una fine negoziale del conflitto armato che insanguina il Paese da decenni. Messaggi del genere erano già stati inviati al presidente Uribe, che li aveva sempre sdegnosamente rispediti al mittente. L’ex presidente era stato eletto nel 2002 anche grazie al fallimento dei negoziati con la guerriglia portati avanti più volte dai governi colombiani, come durante la presidenza Pastrana (1998-2002) e quella di Belisario Betancourt (1982-1986).

La richiesta di dialogo da parte delle FARC va letta alla luce dei risultati ottenuti nei due mandati della presidenza Uribe, caratterizzati da una dura e sanguinosa lotta alla guerriglia, ed è quindi da interpretarsi come il sintomo della debolezza dell’organizzazione. In quanto ex ministro della Difesa, Santos è perfettamente consapevole di questa situazione, e la proposta di dialogo fatta durante il suo discorso inaugurale con le tre specifiche richieste mette in chiaro che una trattativa è possibile, ma alle condizioni di Bogotà e non delle FARC. Il governo colombiano si trova ora in una posizione di forza negoziale e Santos non vuole farsi scappare la possibilità di chiudere una partita durata troppo tempo e costata troppe risorse e vite umane.

Inoltre, secondo diversi analisti, le FARC non sono più il gruppo unito e compatto che aveva messo la Colombia a ferro e fuoco per decenni. L’organizzazione ha perso il suo “slancio rivoluzionario”, si è legata a doppio filo al narcotraffico per ottenere finanziamenti ed armi e ha perso l’appoggio della popolazione a causa dei sequestri e delle mine terrestri posizionate sulle strade. I sondaggi sono impietosi: oggi il 90% dei colombiani sono contrari alle FARC, e sono stanchi di anni ininterrotti di violenze e morte. Il 69% dei voti con cui è stato eletto il presidente Santos, e il 75% dei consensi con cui Uribe esce di scena, sono la prova che il popolo colombiano appoggia saldamente la politica del governo e si aspetta che il nuovo Capo di Stato continui su questa strada. Infine è assai dubbio anche il reale controllo di Cano sull’intera struttura delle FARC: molte unità della guerriglia sarebbero diventate veri e propri gruppi autonomi, non rispondendo più agli ordini della leadership e dedicandosi ad attività illecite per meri fini economici.

L’autobomba esplosa nella capitale colombiana è da interpretare, quindi, come il tentativo del narcoterrorismo di dimostrare che non ha perso le sue capacità operative, cercando di rendere meno svantaggiosa la propria posizione in un’eventuale trattativa. Santos ha dimostrato di comprendere questo momento, e le sue dichiarazioni immediatamente successive all’attentato mostrano il sangue freddo del nuovo presidente. “Il governo, quando riterrà che le circostanze saranno favorevoli – e ora non lo sono – aprirà le porte al dialogo”. Traducendo: non ci facciamo intimorire, se volete trattare deponete le armi. Una politica del bastone e della carota a cui Santos non è nuovo: una delle strategie più efficaci per battere i narcoterroristi è stata quella di accompagnare alla dura repressione militare dei benefici monetari per chi avesse abbandonato le armi. Grazie a questo sistema le organizzazioni armate hanno subito un’inarrestabile emorragia di personale, vedendo drasticamente ridotta la loro forza militare.

Durante la campagna elettorale Santos ha promesso la creazione di posti di lavoro, il miglioramento delle condizioni di vita dei colombiani, e una solida crescita economica. Anche se la precedente amministrazione lascia in eredità una situazione economica positiva, con un PIL in crescita di oltre il 4% nel 2010 e miliardi di dollari di investimenti stranieri che si stanno riversando in Colombia, soprattutto dagli Stati Uniti, il nuovo presidente sa che la strada della crescita economica passa inevitabilmente attraverso la definitiva stabilizazzione politica, che la fine del conflitto colombiano porterebbe un indubbio beneficio economico al Paese, e che mai come ora vi è la concreta possibilità di porre fine a questo sanguinoso periodo.

Conclusioni

L’elezione di Santos alla presidenza della Colombia è stata interpretata come l’ascesa di un “falco” che avrebbe infiammato la politica sudamericana, in particolare nelle relazioni con Venezuela ed Ecuador. Il neo-presidente invece ha riallacciato i rapporti con Caracas, incontrandosi con Chavez, e ha notevolmente migliorato le relazioni con Quito, invitando alla cerimonia di insediamento il presidente ecuadoregno, Rafael Correa, e consegnando alle forze di sicurezza del Paese vicino i computer sequestrati alle FARC durante l’Operazione Fenix.

Gli analisti si aspettavano che il nuovo Capo di Stato avrebbe cercato di debellare definitivamente la guerriglia attraverso la forza militare, portando la lotta al narcoterrorismo ad un livello di violenza ancora più elevato di quello già visto in questi anni. Santos ha invece pronunciato parole di ferma apertura nel suo primo discorso alla Nazione, ventilando la possiblità di dialogo con i gruppi armati, ma alle condizioni imposte dal governo.

Gli esperti della politica colombiana vedevano nell’ex ministo della Difesa il delfino di Uribe, che avrebbe portato avanti in maniera rigorosa la politica della precedente amministrazione, e la presenza dell’ex presidente alla cerimonia di insediamento (una vera e propria rottura del protocollo voluta dallo stesso Santos) era il simbolo di questa continuità. E invece il nuovo presidente ha stupito tutti prendendo lentamente le distanze da alcune scelte fatte dal suo predecessore, soprattutto negli ultimi giorni della sua presidenza, e nominando suoi collaboratori alcune delle personalità che avevano mostrato disaccordo con le politiche di Uribe, dimostrando in questo modo originalità politica ed autonomia decisionale.

Tuttavia ancora molti elementi della politica colombiana devono essere ancora chiariti da Santos, in primis il rapporto con gli Stati Uniti, con i quali la Colombia gode di una special relationship a livello sudamericano. Da Washington bisognerà attendere il segnale verde prima di intavolare qualsiasi trattavia con narcos, guerriglieri e terroristi, anche in virtù degli accordi in materia militare, commerciale e giudiziaria firmati tra i due Paesi, come ad esempio quello sull’estradizione di trafficanti dalla Colombia agli USA.

La nuova presidenza colombiana potrebbe essere una sorpresa per tutti. Se questa linea politica dovesse essere mantenuta potrebbe portare ad una distensione del clima politico nel Cono Sud, dando nuovo impulso alla collaborazione tra Paesi latinoamericani e favorendo lo sviluppo economico e politico di tutta la regione. A prescindere da come verrà vinta, con le armi o con il dialogo, la guerra contro il narcoterrorismo è a un passo dalla fine, ed è un risultato storico che potrebbe essere raggiunto da questa amministrazione. In attesa di vedere se effettivamente sarà così, non si può che fare il tifo per questo nuovo orientamento positivo della politica colombiana e sudamericana.

* Carlo Cauti è laureando in Relazioni Internazionali (Università di Roma LUISS G. Carli)

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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Il disgelo sino-giapponese

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Nel suo “The Geographical Pivot of History” del 1904, Sir Halford Mackinder teorizzò la presenza sul globo terrestre della pivot area, riferendosi in particolare al blocco eurasiatico, e spiegando che chi avesse conquistato quella fetta di dominio globale sarebbe riuscito a esercitare il potere sul resto del mondo. Nel suo saggio conferì una certa importanza anche alla Cina, nell’affermare che attraverso la costruzione di una politica di potenza tale Stato avrebbe potuto fungere da contrappeso allo strapotere euroasiatico. A più di un secolo di distanza, l’analisi di uno dei padri della geopolitica prende sempre più forma: la Cina, in queste ultime settimane, ha raggiunto il secondo posto nella classifica mondiale dei paesi più ricchi, dimostrando di essere una grande potenza non solo in campo finanziario ed economico, ma anche diplomatico e politico. A discapito di chi vorrebbe sfatare questo mito, considerando l’ingente numero di abitanti cinesi e le reali condizioni del paese, è necessario prestare attenzione allo scacchiere geopolitico asiatico, per notare quali siano i mutamenti nelle sfere di influenza. Il grande sconfitto è il Giappone, che slitta al terzo posto tra le economie mondiali e risente del pressing esercitato da parte degli Stati Uniti d’America, i quali continuano a voler usufruire dell’alleanza con il paese del Sol Levante come trampolino di lancio sull’intera regione. Il governo di Hatoyama si è dimesso il 2 giugno anche per via della questione della base militare statunitense stanziata ad Okinawa, divenuta ormai impopolare, mentre poco dopo l’attuale premier Naoto Kan, durante il vertice del G8 in Canada, avrebbe affermato di fronte ai grandi della terra di voler al prossimo tavolo delle trattative anche la Cina. Nonostante quest’ultima informazione non sia stata confermata da voci ufficiali, la tendenza ad un avvicinamento tra Cina e Giappone sempre più consolidato nel tempo lascia presagire la nascita di nuove alleanze e un’inversione di tendenza dei flussi finanziari e commerciali mondiali.


La Guerra Fredda tra Cina e Giappone

I rapporti politico-diplomatici sino-giapponesi sono stati fortemente segnati da episodi che, storicamente, hanno incrinato il già precario balance of power regionale. Gli scambi bilaterali tra i due paesi hanno tuttavia condotto a risultati positivi in vari settori, in particolare nello sviluppo e nella cooperazione. Giappone e Cina sono entrambi importanti interlocutori commerciali della controparte, e quest’ultima è ormai il secondo maggiore mercato per il Giappone. Il deterioramento delle relazioni bilaterali tra Tokyo e Pechino, avvenuto durante la Guerra Fredda e protrattosi negli anni successivi, non è dipeso solo da questioni storiche e dalla querelle su alcuni episodi che hanno coinvolto entrambi gli Stati, ma si è palesato con riguardo ad alcune istanze che potrebbero ben costituire un casus belli. Una di esse riguarda lo status dell’isola di Taiwan: la Cina non è contraria alla concessione di visti e ai flussi migratori con il Giappone, ma si oppone fortemente affinché non ci siano scambi ufficiali, e chiede a Tokyo di non includere Taiwan nel piano di sicurezza comune al quale lavora con gli Stati Uniti. L’arcipelago delle isole Diaoyu, situato nel Mar cinese orientale e appartenente fin dall’antichità alla Cina, che ne controlla anche le acque circostanti, rappresenta un’ulteriore questione spinosa. Tutto ciò ben si collega con la crescente preoccupazione cinese riguardante la forza militare giapponese.


Il Giappone oggi

Durante la Guerra Fredda, il Giappone si è reso promulgatore di una visione d’insieme che ha aiutato il paese ad uscire fuori da una crisi a tratti ingovernabile, dopo la sconfitta della seconda guerra mondiale che fu solo apparentemente militare. Ha inoltre cercato di entrare nell’orbita occidentale, conquistando un primato dal punto di vista monetario. Tuttavia, nonostante il rilancio effettivo del paese, ad oggi Tokyo non possiede una filosofia in grado di imprimere un nuovo indirizzo ed una nuova visione politica, culturale e sociale utile a risollevare le sorti di un paese impegnato a superare il difficile impasse della crisi finanziaria. L’attuale classe dirigente giapponese si trova a fronteggiare dinamiche che sembrano aver impresso al paese una pericolosa inversione di tendenza: l’invecchiamento della popolazione, l’impatto della globalizzazione e il tentativo di confrontarsi con una politica estera più stabile e sicura, hanno creato un vuoto di potere nient’affatto irrisorio, nonché una forte perdita di consenso da parte della popolazione. La crisi d’identità interna allo Stato di certo non giova alla sua competitività con il resto del mondo industrializzato, e anzi rallenta la soluzione ai problemi. Sebbene le capacità militari giapponesi siano considerevoli, anche più di quanto l’Occidente riesca a stimare, il suo bilancio per la difesa ha subito forti tagli negli ultimi anni.

L’economia giapponese è in controtendenza: nonostante abbia ricevuto un rallentamento, dopo un periodo in cui non sembrava vacillare, lo yen tende a rafforzarsi. La moneta giapponese è considerata internazionalmente una valuta rifugio in un contesto di incertezza che ancora aleggia sulla ripresa globale. Il quotidiano Nikkei ha riferito che la Dieta giapponese richiederà il prossimo 7 settembre al governo di attuare una politica monetaria espansiva, attraverso un intervento pubblico sui cambi che Tokyo non applica dal 2004, il quale dovrebbe essere utile anche per evitare una ricaduta nella recessione.


L’orizzonte asiatico all’ombra cinese

La struttura economica dei paesi dell’Asia dell’est dovrebbe puntare all’integrazione e al rafforzamento dei rapporti tra i singoli Stati. Nel tempo si sono susseguite diverse iniziative finanziarie: ad esempio, l’accordo commerciale tra la Cina e i paesi dell’ASEAN, firmato all’inizio del 2010, il quale, tuttavia, non potrà determinare da solo il prossimo corso economico regionale.

La crisi economica iniziata nel 2008 ha aiutato l’Asia ad imporsi nell’economia globale. I paesi asiatici emergenti (Cina, India, Indonesia, Malesia, Tailandia, Vietnam, Filippine) sono in testa alla ripresa dalla depressione, che ha impresso nel PIL un calo fortissimo.

La crisi attuale ha dimostrato quanto sia stratificato il contesto asiatico, ma anche il fatto che il mondo non può più dipendere dai consumatori americani che acquistano i prodotti asiatici. La sfida più grande per l’Asia è espandere la domanda all’interno della regione così da aiutare le fluttuazioni dell’economia globale. L’integrazione economica gioca un ruolo primario in questo caso: la Cina, dal canto suo, si sta imponendo sempre di più nell’orizzonte economico regionale, proponendosi come nuovo snodo nevralgico, stringendo accordi economici, ma soprattutto attraverso la diaspora della sua popolazione presente massicciamente in Africa, America Latina ed Europa.

A seguito di questi cambiamenti, il Giappone non può trascurare ulteriormente il suo ruolo di grande potenza regionale. La spesa militare cinese raddoppia annualmente, e la modernizzazione del suo arsenale è decisamente orientata all’estensione del proprio potere e della propria influenza. Il Giappone guarda alla crescita di tale forza con attenzione e con ansia per il controllo sul Mare cinese orientale, continuando a tessere relazioni diplomatiche con la Cina, e dando una risposta chiara agli Stati Uniti, dai quali continua ad allontanarsi dopo la questione di Okinawa. D’altro canto, rimane trincerato dietro la forza della sua moneta, e non può permettersi di cedere ulteriormente il passo alla valanga cinese.

L’economia globale potrebbe tornare a manifestare una tendenza positiva grazie agli accordi stipulati tra i tre grandi della finanza mondiale, ma per fare ciò il Giappone dovrebbe applicare una strategia economica maggiormente liberista. La Cina, dal canto suo, potrebbe giocare un ruolo determinante attraverso la liberalizzazione degli investimenti e dei prodotti di cui è previsto l’aumento della domanda da parte delle classi medie. Pechino, tuttavia, non agisce sul sistema dei cambi, e c’è chi ha ancora delle remore sulla sua forza e sulla sua stabilità economica per via del numero di abitanti e per l’economia sommersa.

L’equilibrio di potenza, non solo globale ma anche regionale, sta dunque cambiando radicalmente, e il Giappone ha un ruolo strategico determinante su entrambi i livelli. Pechino e Tokyo debbono far svanire la tensione nel Mar cinese orientale, senza dimenticare lo sguardo attento degli Stati Uniti.


* Alessia Chiriatti è dottoressa in Sistemi di comunicazione delle relazioni internazionali (Università per stranieri di Perugia)


Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice, e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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Dall’unipolarità alla multipolarità

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La geopolitica (scienza maledetta sin dalla II Guerra Mondiale), rinasce a partire dagli anni settanta, quando la politica internazionale si trasforma dal modello che si fondava nello scontro ideologico (capitalismo versus comunismo), poiché in quegli anni gli USA stabiliscono buoni rapporti con la Cina comunista di Mao, a quello in cui si dà inizio a una nuova fase nella geopolitica moderna. Ma fondamentalmente è a partire dallo schieramento capeggiato dagli USA contro l’ex URSS che la geopolitica si dispiega con tutta la sua potenzialità, trasformando gli Stati Uniti nella prima repubblica imperiale moderna e anche nell’iperpotenza militare che impone la globalizzazione per raggiungere il controllo planetario; per questa ragione uno dei suoi più dotati geopolitici, Henry Kissinger, affermò che “in realtà, la globalizzazione è un altro nome con il quale si esercita il ruolo dominante degli Stati Uniti”.

Quest’idea di controllo planetario, come più volte ribadito, si affida sull’appoggio mitico del destino manifesto dai dirigenti americani e dalle grandi corporazioni che integrano il modello, e che cerca di piegare la resistenza sollevata da regioni e stati nazionali per imporre un controllo all’espansione del modello economico capitalista neoliberale. Il modello che si è voluto fornire è un sistema di espansione economico vulnerabile che deve essere protetto militarmente nelle sue infrastrutture. Questo modello ha fornito un sistema militarmente unipolare (gli USA come grande potenza), e culturalmente ed economicamente multipolare (USA, UE, Giappone) che è riuscito a dividere in due correnti l’America latina, soprattutto a seguito dell’attuazione della globalizzazione asimmetrica. Anche se fondamentalmente trova sempre maggiore resistenza nel cuore del continente asiatico e, nonostante l’immenso sforzo messo in pratica dall’iperpotenza per imporsi totalmente, dopo una decade questo modello non ha avuto successo e ciò sta creandogli nuove sfide e condizioni che mettono in crisi quella politica dal destino manifesto.

Dopo il sistema bipolare (dal 1945 al 1991), è iniziata una nuova era geopolitica, quella del “momento unipolare”, nella quale gli Stati Uniti rappresentavano “l’iperpotenza” (“hyperpuissance”, secondo la definizione del ministro francese Hubert Védrine).

Ad ogni modo, il nuovo sistema unipolare avrebbe avuto una vita breve e si è esaurito agli inizi del secolo XXI, quando la Russia ricompare come sfidante strategica nelle faccende globali e, allo stesso tempo, Cina e India, i due giganti asiatici, si affacciano come potenze economiche e strategiche. A livello globale, dobbiamo anche prendere in considerazione il peso crescente rappresentato da alcune nazioni dell’America latina, come il Brasile, l’Argentina e il Venezuela. Gli importanti rapporti che intrattengono questi paesi con la Cina, la Russia e l’Iran, sembrano acquisire valore strategico e prefigurano un nuovo sistema multipolare, i cui principali pilastri si possono considerare costituiti da Eurasia e dall’America latina sudamericana.

Ma stiamo vivendo anche un nuovo momento in cui la supremazia imposta dal cosiddetto mondo occidentale sin dalla rivoluzione industriale, cessa di rappresentare l’asse portante dello sviluppo e della cultura del mondo moderno per ridefinirsi in nuovi equilibri con paesi e culture molto diversi da quelli dominati negli ultimi duecento anni (e che concerne anche la nostra storia, soprattutto adesso che stiamo festeggiando il Bicentenario).

Il grande cambiamento s’imposta in rapporto alla partecipazione e allo sviluppo dell’Asia, in particolar modo di Cina, India e Russia, i quali rispettivamente sono passati ad avere un PIL pro capite da 419 a 6800 dollari, 16 volte in più, da 643 a 3500 dollari, 5 volte in più, in Russia si è arrivati a 13173 e in Brasile si è passati da 3744 a 9080, quasi tre volte in più. Il potere economico tendenzialmente va accompagnato verso la regionalizzazione, il che rende più dinamici e danno maggiore potere agli emergenti che capeggiano questi processi. Gli scambi interregionali si accelerano e si attivano in Asia Orientale, passando negli ultimi anni da un 40% a un 60%, lo stesso sta accadendo con l’aumento delle possibilità di sviluppo nella regione sudamericana, di là dalle asimmetrie esistenti, come nel caso del Mercosur.

Autorevoli analisti economici prevedono che, nonostante la crisi mondiale e se questa non produce maggiori danni di quelli che ha prodotto fino a ora, nella cosiddetta triade (USA, UE, Giappone), la partecipazione nel prodotto lordo mondiale da parte delle regioni emergenti sarà nel periodo 2020-2025 di circa il 60%, spettandogli all’Asia il 45% di questo incremento.

Questo aumento della potenzialità economica e dello sviluppo sarà accompagnato da una maggiore autonomia politica.

Per questa ragione, il secolo XXI si caratterizzerà come un secolo decentralizzato e con molte zone di potere decisionale.

Questa realtà la nascosero molti studiosi di rapporti esteri, perché “occidentali”. E ancora adesso continuano a confondere i nostri popoli con informazione falsa, mediante i mezzi di comunicazione che sono proprietà di quel sistema di alleanze. L’iperpotenza americana deve negoziare con attori che prima non prendeva in considerazione o al massimo li considerava marginalmente. E questo non è poco.

Ricordiamo che questa dinamica del nuovo ordine in gestazione la stiamo sostenendo sin dall’anno 2001, e quelli che hanno partecipato nelle nostre conferenze, riunioni e seminari possono confermare ciò.

Con una globalizzazione severamente aggravata dall’unilateralismo degli Stati Uniti, nel 2001 sostenevamo una divisione del mondo schematicamente diviso in 4 livelli:

  1. Livello superiore. Supremazia assoluta (o quasi) degli USA.
  2. Livello a elevata autodeterminazione, dove si trovano solo l’Unione Europea e il Giappone.
  3. Livello di resistenza. Lì stanno la Cina, l’India e la Russia, le quali posseggono la capacità di limitare l’interferenza della globalizzazione nel loro territorio. Vale a dire, hanno autodeterminazione interna, ma molto limitata autodeterminazione esterna.
  4. Livello di dipendenza. Tutti gli altri paesi.

Dopo il 1991 non c’è stato nessun altro tipo di negoziati tra le “potenze vittoriose”, come accadde alla fine della II Guerra Mondiale. Neanche ci fu “accordo di pace”, i nuovi rapporti politici ed economici sanciti tra le grandi potenze – e tra queste e il resto del mondo- da allora si stanno definendo in forma lenta, conflittuale, basati nel “caso per caso”. Gli Stati Uniti continuarono ad applicare le tesi Nicolas Spykman, per controllare ciò che lui definì il Rimland – principale oggetto della strategia per il governo mondiale -, il quale è pensato per il controllo dell’Europa occidentale, Medio Oriente, la Penisola arabica, Iran, Turchia, India e Pakistan, il Sudest asiatico, parte della Cina, Corea, Giappone e la parte costiera della Russia orientale. E, all’interno di questo quadro di controllo geopolitico “ha luogo” l’11 settembre (attentato alle torri gemelle), per mezzo del quale gli USA portano avanti la denominata “guerra infinita” contro i paesi che unilateralmente dichiara “Stati canaglia” con il suo famoso “asse del male” e con questa giustificazione mette in moto la parte finale del processo di dominio planetario che i suoi ideologi ed esecutori militari avevano pianificato sin dalla caduta dell’URSS (si vedano i documenti americani di Santa Fe per capire meglio questo modello).

Quello che in realtà si volle imporre fu una versione aggiornata del vecchio modello globalizzatore della rivoluzione industriale della fine del secolo XIX, nel quale il mondo si divise in centri dominanti (paesi sviluppati) e periferici (colonie dipendenti).

Ma il progetto non poté rendersi del tutto operativo nella sua totalità e la grande notizia è che l’attuale mutazione sta mettendo fine a una struttura storica di quasi duecento anni di dominazione da parte dell’occidente e con essa non è in crisi il modello capitalista, bensì tutto il sistema munito di strutture e di organizzazioni che si sono imposte dopo il trionfo degli USA nella II Guerra Mondiale (ONU, FMI, BM, OSA nel nostro caso specificamente latinoamericano, ecc.)

Attualmente, il sistema mondo 2010 si sta ridefinendo nella seguente maniera:

  1. Livello superiore. Supremazia non più assoluta degli USA.
  2. Livello a elevata autodeterminazione, dove si collocano l’Unione Europea, il Giappone, la Cina e la Russia.
  3. Livello di resistenza. In esso si collocano l’India, il Sudafrica e il Brasile (che cerca di irrobustire tutto un suo sistema regionale del quale l’Argentina rappresenta il nucleo forte dell’integrazione con strutture come: Gruppo di Rio, Mercosur, UNASUR, Consiglio di Difesa Sudamericano, Banco del Sud, ecc.), le quali consentono di avere una capacità di limitazione dell’interferenza globalizzatrice nel proprio territorio. Vale la pena ricordare che il livello di resistenza significa: autodeterminazione interna e con limitata autodeterminazione esterna).
  4. Livello di dipendenza. Tutti gli altri paesi.

Queste sono le tendenze geopolitiche del 2010, il come si definirà questo modello di sistema mondo lo vedremo tra qualche anno, il grande dubbio che rimane in sospeso è se gli attuali detentori dell’egemonia militare non tenteranno d’imporre il loro modello di controllo planetario di tipo bellico, perché se così fosse, l’umanità starebbe sull’orlo dell’estinzione in un olocausto nucleare.

I grandi mutamenti sono un’enorme sfida che devono affrontare gli attori politici e sociali d’America e, in particolar modo, quelli del nostro paese che si trovano davanti a un’alternativa molto forte, perché da questi esigono un livello di cooperazione pressante per evitare il trionfo dell’irrazionalità. Evidenziando che queste nuove circostanze danno al nostro continente la possibilità, vera e concreta, di ridefinire il nostro ruolo a livello globale e di non partecipare nuovamente come invitati di pietra nel ridisegnare il mondo, giacché siamo alla presenza di un mondo che racchiuderà molti centri di potere e la logica ci dovrebbe obbligare a pensare in grande, cioè in termini di regione e di continente per uscire dallo stadio di dipendenza periferica che ci aveva assegnato il sistema di globalizzazione avviato dagli USA. Dobbiamo ricordare, come lo abbiamo più volte detto, che il mondo che abbiamo conosciuto negli ultimi duecento anni si sta modificando nelle sue strutture basiche, paradigmi e miti, tanto nazionali, regionali e continentali, e ciò ci richiede una nuova insubordinazione che getti le fondamenta in questo Bicentenario.

Testo presentato alla Conferenza del III Seminario di Geopolitica organizzato dal Settore Cultura della Provincia di Córdoba il 12 agosto 2010.

Fonti:

La Insoburdinación Fundante, del Dott. Marcelo Gullo.

Le monde Diplomatique, edición latinoamericana.

Rivista EURASIA, del Dott. Tiberio Graziani.

Pensamiento de Ruptura, del Dott. Alberto Buela.

Diccionario Latinoamericano de geopolítica y Seguridad del Dott. Miguel Barrios y Carlos Pereyra Mele.

(trad di V. Paglione)

http://licpereyramele.blogspot.com/

* Carlos Pereyra Mele, politologo argentino e membro del Centro de Estudios Estratégicos Suramericanos, collabora con la rivista “Eurasia”.

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La cooperazione internazionale e la sicurezza energetica 



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La stabilità delle relazioni e della cooperazione globale con i paesi esterni all’Unione europea è una delle priorità strategiche della politica estera russa. Tradizionalmente, la Russia si sviluppa e rafforza i legami economici, scientifici e culturali con i paesi del Sud Europa. Oggi è necessario cercare soluzioni comuni volte a superare la crisi finanziaria globale che minaccia il benessere di tutti i popoli del continente europeo. 
Secondo il FMI, nel 1980 il debito complessivo del Gruppo dei Sette era del 40% del loro PIL totale. In vent’anni, il debito è salito al 65% del PIL. Dal 2008, quando ha cominciato a mostrare segni di una crisi sistemica del sistema finanziario globale, il processo di aumento del debito pubblico è aumentato in modo significativo. Gli esperti stimano che quest’anno il debito raggiungerà il 100%, ed entro il 2014 raggiungerà il 110%. 
È chiaro il motivo principale: il segmento virtuale, speculativo del sistema finanziario globale ha raggiunto un livello tale che è diventato possibile, in termini di valori immaginari, determinare la ridistribuzione di tutti i tipi di risorse mondiali. In questo caso l’economia nazionale è intrappolata in una pericolosa servitù per debiti, e su alcuni paesi dell’Europa meridionale incombe il grave pericolo del fallimento. 
Il metodo per uscire dalla crisi consiste nel limitare le possibilità di sostituzione dell’economia reale e le sue risorse finanziarie, fornire tutti i generi di sostituti, ricerca di possibilità di utilizzo razionale e vantaggioso di risorse naturali insostituibili, partecipazione a progetti internazionali che sono il miglior modo per impegnare il potenziale intellettuale, tecnologico e industriale della comunità internazionale. Tale approccio, che è la base per la creazione di relazioni economiche eque, auspica la nascita di un vero multipolarismo geopolitico. 
Il luogo e il ruolo della Russia nell’economia globale e la sua influenza sui processi politici del mondo sono in gran parte determinati dalla sua energia e materie prime. 
La Russia cerca di creare un sistema internazionale stabile di Paesi consumatori, di Paesi produttori e di Paesi in cui vige il transito delle risorse energetiche, il che esclude la possibilità di conflitti per le fonti ed il trasporto delle risorse energetiche e il superamento della “povertà energetica”. 
Lo sviluppo di partenariati tra tutti i soggetti interessati è l’unico modo possibile per rafforzare la sicurezza globale dell’energia nel contesto di una crescente interdipendenza tra Paesi produttori, Paesi che forniscono energia di transito e Paesi consumatori. 
Nel corso di questa interazione a lungo termine ci sono non solo problemi economici che devono essere risolti. C’è il bisogno di lavorare nel campo della tutela ambientale, ad alta tecnologia, per sviluppare la cooperazione nel settore coinvolgendo l’opinione pubblica mondiale con informazioni obiettive sui problemi della sicurezza energetica. 
Oggi i bisogni energetici di base per l’economia globale sono petrolio e gas naturale. L’economia mondiale assiste a una separazione netta tra popolazione e indicatori energetici-economici, da un lato, ed i livelli di sicurezza delle risorse, dall’altro. Dal momento che gli Stati Uniti consumano circa un quarto delle risorse energetiche del mondo, con solo il 3-4% di riserve provate di petrolio e gas naturale e l’Europa occidentale detiene il 20% del consumo mondiale di energia ed ha solo il 4-7% di riserve di petrolio e gas. Tra gli Stati altamente industrializzati il Giappone è praticamente senza risorse energetiche indigene. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (AIE), il fabbisogno d’energia nel mondo entro il 2030 crescerà del 50-60%. Secondo l’AIE, nel 2020, gas e petrolio costituiranno i combustibili più importanti per i Paesi industrializzati. 
Nonostante gli sforzi per sviluppare e applicare tecnologie di risparmio energetico e nell’utilizzo di fonti alternative di energia, i combustibili idrocarburi nel prossimo futuro costituiranno ancora la base del bilancio energetico. La concorrenza per l’accesso alle riserve di energia primaria ed il loro controllo aumenterà ulteriormente. Non ridurranno il loro fabbisogno energetico gli Stati Uniti e i Paesi europei ed è in costante aumento il consumo di energia dei Paesi in pieno sviluppo dinamico economico come Cina e India. Crisi politiche e conflitti armati in varie parti del globo sono spesso le manifestazioni visibili della lotta palese e occulta per il controllo delle fonti di materie prime. 
La Russia si esprime sempre per una soluzione pacifica e per il dialogo energetico aperto e onesto con i suoi partner e, soprattutto, con i Paesi europei. 
La Russia ha riserve significative di risorse naturali, comprese quelle energetiche. Un Paese con meno del 3% della popolazione mondiale, detiene circa il 13% delle riserve accertate di petrolio del mondo, il 34% delle riserve di gas naturale, circa il 20% delle riserve accertate di carbone e il 32% delle riserve di carbone marrone e il 14% delle riserve di uranio. 
Con la sua politica energetica costante e stabile la Russia confuta i miti della “espansione energetica” e del “ricatto energetico”. Ma, naturalmente, il Paese ha una propria idea di sicurezza energetica, la propria strategia energetica. 
Una delle priorità principali della Russia è stata di garantire il fabbisogno energetico della crescente domanda interna, che nel suo complesso nel 2030 si prevede avrà un aumento superiore di 1,6 volte. L’esportazione di energia deve diventare più razionale. Entro il 2020 si prevede di stabilizzare le vendite al livello di 1000 milioni di tonnellate di carburante. Pur continuando a diversificare la composizione merceologica delle esportazioni e la direzione del suo approvvigionamento, la Russia cercherà di essere in grado di commercializzare prodotti a più alto valore aggiunto, nonché di promuovere le proprie tecnologie nel settore dell’energia, del risparmio energetico, il trasporto di energia e il trattamento degli idrocarburi. 
Il principio fondamentale della strategia energetica è stabile e prevedibile. I nostri partner tradizionali devono essere sicuri che tutti i contratti sottoscritti sono chiari e sono garantiti nell’esecuzione. 
Con il suo vasto territorio che occupa una posizione strategica in Eurasia, la Russia è consapevole della propria responsabilità per lo sviluppo e la produzione affidabile di energia e di infrastrutture di trasporto tra i consumatori e i produttori di energia. Un’altra priorità è la stabilità e prevedibilità nel mercato energetico globale. 
Per rispettare incondizionatamente i suoi obblighi internazionali, la Russia ha bisogno di risolvere coerentemente i problemi di efficienza energetica in tutti i settori dell’economia russa. Oggettivamente è complicato per il problema delle condizioni climatiche estreme. Sono indispensabili l’alta tecnologia e l’esperienza dei Paesi più sviluppati. Gli esperti stimano che l’applicazione combinata di energia organizzativa e tecnologica e misure di risparmio potrebbe ridurre il consumo energetico di 420 milioni di tonnellate di combustibile all’anno. 

Al summit tra Russia e Unione europea sono stati definiti i principi di applicazione pratica di una partnership strategica nel settore energetico. La cooperazione si sta sviluppando in quattro aree fondamentali: il commercio di energia, gli investimenti, le infrastrutture energetiche e di sicurezza energetica. 
Le esportazioni di energia dalla Russia verso l’Europa aumenteranno. Nel mercato del petrolio europeo agli inizi del secolo ventunesimo, la quota della Russia si è attestata intorno al 18-20%, mentre la quota di gas russo è del 35-40%. È in atto una tendenza, da parte del gas, ad assumere una posizione dominante nel bilancio energetico. Negli ultimi 30 anni, la quota del gas naturale nel consumo complessivo di energia dell’UE è cresciuta di circa 2 volte. 
Gli esperti ritengono che entro il 2020 l’UE dovrà importare l’80% del totale degli impieghi di gas naturale. Ciò è dovuto principalmente al depauperamento delle riserve di gas nel Mare del Nord. Le previsioni degli esperti dell’Unione europea e degli Stati Uniti stimano l’inevitabile aumento del consumo di gas russo, perché la Russia possiede un terzo di tutte le riserve mondiali. 
Attualmente, il problema degli approvvigionamenti di gas dell’Unione europea sembra essere piuttosto complicato. Circa l’80% del gas russo passa attraverso l’Ucraina, che ha più volte creato complessità e situazioni di conflitto. 
Di conseguenza, al fine di ridurre i rischi e gli obblighi di partner stranieri, il governo russo e Gazprom hanno deciso di trovare un’alternativa al trasporto del gas in Europa. 
I progetti del South Stream e del Nord Stream – non sono solo un mezzo per raggiungere la sicurezza energetica, ma anche un vero e proprio strumento per l’integrazione economica eurasiatica. La diversificazione delle vie di trasporto, l’inclusione degli Stati europei contribuiranno a superare la crisi dell’economia, avranno un impatto positivo sul processo di integrazione europea, e quindi rafforzeranno lo sviluppo economico regionale. 
Forse a qualcuno questo non piace. Infatti vengono diffuse informazioni distorte sulla presunta dipendenza dall’energia russa pericolosa per gli europei. Intanto, oggi non c’è alternativa economicamente fattibile per la cooperazione russo-europea nel settore dell’energia. 
Così, l’Italia ha confermato la sua partecipazione al progetto “South Stream”. Secondo i leader italiani, “South Stream” rispetto al progetto Nabucco ha vantaggi evidenti. 
L’Italia sostiene il progetto di gasdotto “South Stream” e si oppone al progetto Nabucco, ha detto il ministro degli Affari Esteri italiano Franco Frattini nella sua intervista al quotidiano torinese La Stampa nel mese di agosto 2009. Egli ha sottolineato che nella sua decisione il paese e’ governato dai propri interessi, così come quelli di altri paesi europei. 
”Siamo contro Nabucco. Partecipiamo al gasdotto “South Stream”, che verrà dalla Turchia in Italia attraverso la Grecia, perché ha il gas, o lo avrà nel vicino futuro. Nabucco invece per poter funzionare dovrebbe avere il gaz azerbajgiano, che non ha ancora, oppure il gas iraniano, che ora è un problema”, ha sottolineato il capo del Ministero degli Affari Esteri. 
Inoltre, Frattini ha negato le accuse di crescente dipendenza dal gas russo. Questa linea è stata confermata dal Ministro dello sviluppo economico d’Italia, Claudio Scajola, interrogato a proposito della proposta di ridurre la fornitura di gas russo e di aumentare le importazioni da Algeria e Libia. 
”La dipendenza energetica d’Italia nei confronti della Russia è molto più piccola rispetto alla dipendenza di altri Paesi. Noi dipendiamo al 30% dalla Russia e il resto lo otteniamo da Libia, Algeria e dal Golfo. Siamo tra i Paesi europei, quello con le importazioni più diversificate, molto più di Germania e Polonia”, ha detto il ministro. Tuttavia, nonostante tali dichiarazioni ottimistiche, la situazione attorno al “South Stream” al momento non è univoca. Il buon andamento del progetto richiederà un grande sforzo da parte di tutti coloro che sono interessati alla sua attuazione. Ovviamente, la partecipazione al progetto permetterà all’Italia e ad altri Paesi europei non solo di accedere alle fonti energetiche, ma si prevedono più commesse per gli imprenditori italiani, l’espansione della cooperazione reciprocamente vantaggiosa con la Russia, non solo nell’energia, ma anche nelle industrie collegate.

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Aumenta la presenza statunitense in America Latina: è il turno del Costa Rica

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Lo scorso 1 luglio il Parlamento del Costa Rica ha rinnovato l’accordo con gli Stati Uniti, come ogni anno ormai dal 2000, per la lotta contro il narcotraffico e per la realizzazione di operazioni militari e azioni umanitarie nella regione, per il periodo compreso tra il 1 luglio e il 31 dicembre 2010. L’accordo, approvato con 31 voti a favore e 8 contrari, è inserito nel capitolo Sicurezza del Trattato di Libero Commercio (TLC) firmato tra gli Stati Uniti e il piccolo Paese centroamericano.

La definizione dell’accordo ha sollevato non poche perplessità soprattutto in considerazione del fatto che, come è stabilito nella Costituzione costaricana, il Paese non possiede un esercito e vieta la presenza di forze armate straniere nel proprio territorio, proclamando la nazione una zona di pace. Di fatto, a seguito dell’entrata in vigore dell’accordo, la sproporzionata e massiccia presenza militare statunitense dispiegata nel Paese centroamericano sembra essere una parte di un piano di espansione militare degli Stati Uniti nel tentativo di aumentare la propria egemonia e controllo nella regione latinoamericana.

L’accordo è stato fortemente criticato in ragione delle differenze rispetto a quelli siglati in precedenza. È stato, infatti, previsto un aumento dell’equipaggiamento militare fissando la possibilità di ingresso di 7.000 marines statunitensi con immunità diplomatica, 46 navi da guerra, 200 elicotteri, 10 aerei da combattimento Harrier e una portaerei. In secondo luogo, il Presidente costaricano Laura Chinchilla ha annunciato la sua intenzione di rivedere gli accordi anti-droga sottoscritti con Washington per ampliarli alla vigilanza marittima, oltre che aerea.

La notizia del rinnovo dell’intesa, diffusa nello Stato costaricano con ritardo rispetto all’approvazione dello stesso, ha provocato numerose polemiche sia all’interno del Paese, che nel 1948 per opera dell’allora presidente Jose Pepe Figueres è stato abolito l’esercito e sono stati proclamati la neutralità e il disarmo come valori fondamentali della cultura costaricana, sia nella regione latinoamericana, che da sempre ha visto con sospetto qualsiasi dispiegamento del potere militare statunitense.

Una prima riflessione può esser fatta in merito alle caratteristiche dei mezzi che verranno dispiegati nel territorio. Secondo quanto riportato dalla stampa locale, la maggior parte delle navi da guerra sono lunghe circa 135 metri, capaci di trasportare 2 elicotteri artigliati SH-60 o HH-60B Blackhawk. Sono inclusi anche navi e una portaerei (lunga circa 258 metri), come l’USS Making Island, che oltre ad essere in grado di trasportare 102 ufficiali e 1500 marines, sono preparati per un eventuale combattimento intensivo. Infine, è stato autorizzato l’ingresso di sottomarini e veicoli da combattimento, con capacità operativa via terra e via mare, e navi USS Freedom, in grado di combattere contro dei sottomarini.

Alla decisione del governo si sono opposti l’opinione pubblica e i partiti di opposizione che hanno definito la misura come “un’occupazione militare”, illegale e violante la sovranità della nazione, convertendo il territorio in un obiettivo militare. L’opposizione politica, e in particolare Luis Fishman, deputato del Partito Unità Sociale Cristiana (PUSC, centro destra) ed ex ministro della Sicurezza, ha presentato ricorso presso la Corte Costituzionale contro l’autorizzazione presa dal Parlamento perché il timore ultimo è che in virtù di questa sarà possibile trasformare il Paese nella più grande base navale statunitense al mondo.

Le critiche provenienti dagli altri Paesi della regione latinoamericana, prime fra tutte quelle del presidente venezuelano Hugo Chávez, hanno puntato l’accento sul fatto che il permesso concesso dall’Assemblea Legislativa costaricana comporterà l’installazione di vere e proprie basi militari. L’obiettivo annunciato è combattere il narcotraffico, ma in realtà ci sono buone ragioni per credere che si tratti di azioni volte a destabilizzare la regione.

L’intesa costaricana-nordamericana è stata oggetto di critiche non solo in ragione della natura neutrale del Paese, ma soprattutto perché il Costa Rica non ha un volume di produzione di droga paragonabile a quello del Perù e della Colombia, e quindi se questo non è definibile una minaccia regionale, per quale motivo è stato necessario dispiegare un quantitativo di armi e soldati di tale entità?
Il susseguirsi degli eventi verificatesi dall’anno scorso a oggi permette di arrivare alla conclusione che la strategia degli Stati Uniti, basata sulla stipulazione di accordi per la lotta contro il narcotraffico, è un modo sia per riacquisire la propria egemonia nella regione latinoamericana sia per accerchiare militarmente il Venezuela, principale nemico della regione.

Alla fine del 2008 è stata riattivata la IV Flotta per rinforzare il Comando Sud degli Stati Uniti che supervisiona l’America Latina in caso di crisi. Nell’ottobre del 2009 gli Stati Uniti firmano un accordo militare con la Colombia, che permette a Washington di usare sette basi militari colombiane, oltre qualsiasi altra installazione militare necessaria per il raggiungimento delle operazioni e missioni statunitensi in Sudamerica. La questione sin da subito divise i Paesi della regione soprattutto in ragione della scoperta di un documento ufficiale dell’Aereonautica statunitense, datato maggio 2009, in cui si sostiene che la presenza nordamericana in Colombia è necessaria per eseguire operazioni militari di ampio raggio in tutto il continente. In aggiunta, il documento riportava che dalla Colombia le forze statunitensi combatteranno la costante minaccia proveniente dai governi anti statunitensi nella regione, facendo riferimento implicito ai vicini di Bogotà quali il Venezuela, l’Ecuador e la Bolivia considerati come avversari.
Negli ultimi quattro anni, inoltre, Washington ha aumentato la presenza militare nelle isole di Aruba e Curazao, che si trovano a meno di 70 chilometri della costa venezuelana, nelle quali dal 1999 mantiene delle piccole basi come Posti per Operazioni Avanzate (Puestos de Operaciones Avanzadas, FOL). E ancora: a Panama alla fine del 2009 è stata approvata l’installazione di 4 basi militari e, infine, dopo il terremoto di Haiti in gennaio, 20.000 sono i marines statunitensi inviati, quantità definita sproporzionata nel piccolo Paese caraibico, il quale in questo modo è stato convertito in un grande piattaforma militare.

Da ciò si evince che la relazione di egemonia o di dominazione instaurata dagli Stati Uniti in America Latina, in ultima istanza, è mantenuta con la forza militare, anche se solo in maniera potenziale.

A fronte di questo aumento della presenza statunitense nella regione si registrano due tendenze: da un lato, si è assistito a una maggiore dinamicità di alcuni Paesi (il Brasile ad esempio), che si è tradotta in un incremento delle relazioni economiche con l’Europa, la Russia, la Cina e con altri Paesi che sono visti con ostilità dalla Casa Bianca, prima fra tutti l’Iran (si ricordi l’accordo sul nucleare, firmato il 17 maggio scorso fra Brasile, Turchia e Iran); dall’altro, si è riscontrato un rafforzamento dei meccanismi di integrazione politica ed economica regionale, tra questi in particolare l’ALBA e l’UNASUR, che minacciano l’egemonia nordamericana, così come era già stato segnalato espressamente nel documento dell’Aereonautica del 2009.

Quale l’obiettivo statunitense? La risposta può essere trovata nel documento dell’Aereonautica poc’anzi menzionato: lo scopo della presenza militare è migliorare la capacità degli Stati Uniti di rispondere più rapidamente a un’eventuale crisi e, allo stesso tempo, assicurare il facile accesso alla regione a un costo minimo.

Accanto a questi processi, bisogna tenere in considerazione una serie di avvenimenti, sempre legati all’aumento dell’egemonia statunitense nella regione, che non hanno richiesto la loro diretta partecipazione. Innanzitutto, il colpo di Stato verificatosi in Honduras nel giugno del 2009 che depose il Presidente Manuel Zelaya, in cui si è assistito a un atteggiamento variabile nordamericano: da espressioni di disapprovazione poco convincenti per l’accaduto, alla parodia della negoziazione, per finire all’appoggio al governo ad interim di Micheletti impostosi con il Colpo di Stato. A prescindere dalle voci che furono diffuse circa una possibile partecipazione nordamericana al Golpe, quest’ultimo ha avuto in ogni caso l’effetto desiderato: non solo disfarsi Zelaya, alleato del Presidente venezuelano Hugo Chávez, ma anche inviare un messaggio alla regione con cui si sottolineava la partecipazione statunitense alle vicende latinoamericane. Attraverso il Golpe, il Centro America, che sembrava stesse cominciando ad allinearsi verso i processi di integrazione regionale, è tornato ad schierarsi con Washington. Sia il Presidente Funes in El Salvador sia il Presidente Colom in Guatemala, che mesi fa avevano manifestano la loro intenzione di avvicinarsi all’ALBA, hanno preso le distanze, forse al fine di evitare una sorte simile a quella di Zelaya.
Altro fatto da tenere in considerazione riguarda l’Accordo di Sicurezza tra la Colombia e l’Honduras entrato in vigore lo scorso febbraio, che ha come obiettivo la lotta contro il terrorismo e il narcotraffico, in termini per nulla differenti rispetto a quelli proclamati da Washington. A questo quadro, se si aggiunge il rafforzamento del Plan Merida, iniziativa avviata per la “Guerra contro le droghe” in Centro America e Messico, si ottiene il panorama completo dell’aumento della presenza politica e militare degli Stati Uniti nella regione latinoamericana.

Concludendo, è possibile affermare che il rinnovo dell’accordo tra il Costa Rica e gli Stati Uniti è parte integrante della strategia nordamericana volta ad acquisire importanza in un regione come quella latinoamericana in cui i meccanismi di integrazione regionale stanno dando i loro risultati. Si assiste, infatti, da un lato a una maggiore indipendenza e autonomia delle nazioni latinoamericane, e dall’altro alla presenza di Paesi, primi fra tutti il Brasile e il Venezuela, che sono in lotta per il raggiungimento di una leadership regionale.

* Valeria Risuglia è laureata in relazioni iinternazionali presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma

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La visita in India del primo ministro britannico Cameron – Molto rumore per nulla

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Gli ultimi successori della Compagnia delle Indie Orientali a Londra, dopo aver colonizzato e saccheggiato la nazione indiana non hanno nascosto il loro obiettivo “chiedere soldi all’India”. Il premier britannico David Cameron non ha fatto mistero di cio’. “ Il potere economico si sta spostando – in particolare verso l’Asia – cosi la Gran Bretagna deve faticare il doppio di prima per guadagnarsi da vivere nel mondo. Non mi vergogno di dire che questa e’ una delle ragioni per le quali mi trovo in India”. Questo forse e’ cio’ che disse la Compagnia delle Indie Orientali nel Mogul e in altre corti imperiali nel 17esimo secolo. Primo Ministro di un’economia di veloce ridimensionamento, Cameron ha portato in India la piu’ grande delegazione ufficiale dopo l’indipendenza. Ma in seguito, Washington ha sostituito Londra nelle priorita’ e nell’affetto. La visita di Hilary Clinton, Segretario di Stato USA, per esempio, ha avuto un clamore mediatico per tutti e cinque i giorni della sua visita, mentre la visita di Cameron non ha avuto grande pubblicita’, neanche da parte dei soliti sospetti.
Era piu’ di un decennio che un membro del partito conservatore non visitava l’India. Le relazioni durante gli anni dei Laburisti non sono state di grande rilievo, eccetto il fatto che i ministri degli Esteri laburisti e altri leaders, avendo gli elettori Pakistani e Mirpuri da accontentare, hanno ferito troppo spesso i sentimenti indiani, soprattutto per quanto riguarda i problemi Indo – Pakistani e la complessa questione del Kashmir. Il ministro degli Esteri Robin Cook e’ divenuto particolarmente impopolare per le sue frequenti dichiarazioni sul Kashmir. Solo lo scorso anno un maldestro e non diplomatico, allora Ministro degli Esteri, David Miliband, sperando di diventare il prossimo leader laburista, ha avuto il coraggio di suggerire, in terra indiana, che per fermare le attivita’ terroristiche pakistane l’India avrebbe prima dovuto risolvere il problema del Kashmir ( creato inizialmente dalla perfida Albione ). Egli sarebbe dovuto essere stato boicottato e portato fuori dall’India per le orecchie.
Washington e Londra trovano un Primo Ministro indiano molto ricettivo in Manmohan Singh, che ha studiato ad Oxford con una borsa di studio ed e’ rimasto sempre molto grato per questo ( quando e’ stato insignito di un dottorato d’onore nel 2005, MM Singh ha elogiato l’era coloniale britannica come un bene per l’India, provocando, giustamente, la rabbia del partito all’opposizione Bhartiya Janta e altri ). Plaudendo alla “ illustre carriera politica” e al “forte impegno personale” di Cameron, per aver portato la relazione tra India e Regno Unito a un maggiore livello di comprensione, MM Singh ha dichiarato che l’India condivide la stessa visione di una nuova e piu’ forte relazione tra i due paesi. Singh continua: “Noi abbiamo convenuto su iniziative specifiche nell’area economica e del commercio, e sulla tecnologia, energia, educazione, difesa, cultura e contatti tra le persone.”. Le due parti hanno deciso di istituire un CEO forum India – Regno Unito e un Gruppo per le infrastrutture India – Regno Unito.
“ Noi puntiamo a raddoppiare i rapporti commerciali entro i prossimi cinque anni. Consolidando le esperienze passate, ci siamo anche accordati sull’avvio di una nuova fase dell’educazione e dell’inizitiva sulla ricerca tra Regno Unito e India,” ha aggiunto Singh. Durante il suo soggiorno in India Cameron ha ripetuto la sua promessa per l’elezione al partito Conservatore, di un “rapporto speciale” ( termine usato per la relazione con i capi a Washington ), invece nel discorso di apertura in Maggio al parlamento britannico la regina Elisabetta ha semplicemente usato le parole “partenariato rafforzato”. Infatti, in una recente intervista, il suo ministro degli Esteri William Hague, del partito di coalizione dei Liberal Democratici si e’ astenuto dall’utilizzare quell’espressione. E cosi anche Vince Cable, anch’egli dei Liberal Democratici – partner junior nell’attuale coalizione amministrativa nel Regno Unito- e influente ministro per il business, l’innovazione e capacita’. Egli ha preferito mettere da parte il termine “speciale”. “Noi vogliamo trattare su questo, ma vogliamo affrontare il tutto in maniera realistica e professionale”.
Nessun membro della famiglia Gandhi e’ stato schedulato nel programma ufficiale. Ma per il successo di ogni relazione con l’India l’equazione con Gandhi e’ necessaria.
Il successo piu’ concreto nelle relazioni Indo-Britanniche, e’ stato l’accordo per 700 milioni di pound per l’acquisto di altri 57 erei da addestramento avanzato Hawk dal British Aerospace Systems (BAE) cui Cameron ha assistito a Bangalore. Questa e’ la seconda tranche dell’acquisto da parte dell’India dal 2004 quando si finalizzo’ un accordo per acquistare 66 Hawks dopo 18 anni di negoziati. Cameron si e’ detto entusiasta di assistere alla firma dell’accordo a Bangalore una volta arrivato. “ Questo e’ un esempio imminente del partenariato per la difesa e l’industria tra India e Regno Unito
L’accordo portera’ significanti vantaggi economici ad entrambi. E’ un esempio della nostra nuova politica commerciale estera in atto “, ha aggiunto.

Ripetere gli accordi commerciali della Tata di acquisto di Land Rover, Jaguar e Corus in Regno Unito gli investimenti da record della Vodafone in India per acquistare Hutchison Essar ( operatore di telefonia indiano ) sara’ piu’ difficile che la beffa sul cricket e le differenze sulla creazione della piu’ popolare T-20 League.

Ha scritto Sunanda K Datta-Ray nel Business Standard,: “ Cio’ che Cameron vuole – soprattutto dopo il drammatico calo delle importazioni in India dalla Gran Bretagna – e’ il nostro mercato in pieno sviluppo. Egli e’ sta anche tentando di far si che l’India investa nella difesa e nelle infrastrutture acquistando dalla Gran Bretagna ( gli Hawks sono stati un buon inizio ).
Da qui questo parlare di una “relazione speciale” con la Gran Bretagna il “junior partner”. Ma Cameron non vuole coloni. Egli vuole espatriati. Non come la Caparo di Paul Swraj ma come la Corus di |Tata e la Mittal di Arcelor. Egli desidera che il processo della Compagnia Inglese delle Indie Orientali sia capovolto. Ma sarebbe Cameron in grado di spiegare agli indiani come l’espansione delle compagnie indiane in Gran Bretagna o in ogni altro paese straniero potrebbe aiutare l’economia indiana?

Per il commercio, Cameron ritiene che l’India potrebbe alleggerire alcune restrizioni che scoraggiano gli investimenti. Compagnie come Vodafone, che hanno fatto grandi investimenti in India, soffrono a causa di un regime fiscale distorto che scoraggia gli investitori britannici. La delegazione ha anche fatto un passo in avanti nell’apertura del settore al dettaglio.

Per quanto riguarda il clima, il Primo Ministro Britannico vorrebbe che l’India prendesse impegni maggiori sul controllo delle emissioni. E’ stato criticato il fatto che quando fu sottoscritto il protocollo di Kyoto, alcuni paesi avevano ancora un’economia arretrata. Ora questi paesi sono cresciuti e quindi responsabili per una buona parte delle emissioni globali.

Nonostante gli sotrici legami tra India e Regno Unito per oltre 300 anni, i due paesi hanno firmato il primo memorandum d’intesa per la cultura. Vi sono molti dipinti della Compagnia delle Indie Orientali in Gran Bretagna che gli inglesi vorrebbero digitalizzare per un accesso universale. Entrambi i paesi vogliono riempire gli spazi vuoti nelle loro collezioni Persiane e di libri. Ugualmente, gli India Office Records, 1857 carte, diari di leaders nazionalisti e vicere potrebbero finalmente essere condivisi. Verrebbe istituito un’adeguato finanziamento per gli studenti ricercatori Indiani.

Ma Regno Unito non ha bisogno e non vuole gli Indiani semi analfabeti che si incontrano ad Heathrow a lavorare nelle imprese di pulizie, ma neanche Indiani qualificati, che operano come dottori nel settore Chirurgico inglese. Inghilterra ed Europa ora possono ottenere immigranti che lavorano per poco dal povero Est Europa o dai Balcani. Questo ha reso la migrazione storica di poveri e anche di personale qualificato dalle colonie formali in Asia e Africa molto piu’ difficile.
Quindi non c’e’ da aspettarsi nessuna apertura sull’immigrazione degli Indiani, ancor piu’ da quando le economie europee che seguono il modello economico neo liberale USA-Regno Unito sono nei guai.

In accordo con i grandi scambi che Cameron desidera nell’ambito di un nuovo partenariato economico e culturale con l’India, per ordine del suo governo, gli Indiani che viaggiano regolarmente in Regno Unito per business e motivi culturali, devono sborsare una tassa di 610 Sterline, per un visto di 10 anni, con un importo finale generalmente superiore con altre tasse.
In confronto solo una tassa di all’incirca 90 Sterline e’ richiesta per un visto di 10 anni negli USA e circa 50 Sterline sono richieste per un visto per piu’ anni che copre la maggior parte dei paesi Europei. Questa tassa sproporzionata richiesta da Regno Unito dovrebbe scoraggiare esattamente questi visitatori regolari che vorrebbero consoliodare ogni “partenariato economico e culturale”.

Economicamente, Regno Unito deve ora competere per una fetta del mercato Indiano con gli Americani, gli Europei e persino i Cinesi e i Giapponesi. I Britannici sperano di sfruttare l’influenza della potente comunita’ dei due milioni di Indo – Britannici, nei ghetti come South Hall, alcuni dei quali hanno avuto successo, e anche il fatto che un buon numero di importanti compagnie Indiani operino ora in Regno Unito. Ogni anno gli studenti Indiani spendano all’incirca 300 milioni di sterline in tasse d’iscrizione a colleges e universita’ britanniche, visto che molti non riescono ad ottenere l’ammissione in istituti di prestigio in India, ed essendo altri istituti di qualita’ scadente e gestiti dalla corrotta elite politica Indiana.
Una qualsiasi laurea britannica o straniera ancora impressiona gli Indiani nativi. Poi vi sono i British Councils e altre tentazioni per promuovere la soft diplomazia britannica.

Regno Unito ha anche nominato baroni Gujarati come Meghnad Desais, un economista con un buffo taglio di capelli stile Afro, che invita i media Indiani ad istruirci sulle politiche di Nehru e Indira Gandhi. Egli non ha alcuna nozione storica e dovrebbe consigliare i Britannici su come risollevare la rovinosa economia del suo paese d’adozione. L’India e’ piena di questi non residenti indiani e jolly di origine indiana in Regno Unito e USA che usano l’India per guadagni personali.

Cameron su Pakistan e Kashmir
Ogni volta che leader Britannici o Americani vengono con l’intenzione di vendere qualcosa od ottenere qualche concessione dall’India, usano il Kashmir quale strumento di persuasione. Recentemente quando il comandante militare americano, l’ammiraglio Mullen ha visitato l’India ha addirittura dichiarato che gli USA avrebbero sostenuto l’India in caso di ostilita’ con la Cina. ( Nel 1962 dopo l’invasione cinese, gli USA hanno voluto una soluzione per il problema del Kashmir che in primo luogo andasse bene al loro alleato Pakistan). Quindi ovviamente Cameron ha ammonito il Pakistan dall’esportare il terrorismo in India, Afghanistan o in ogni altra parte del mondo. “Noi vogliamo vedere un Pakistan forte, stabile e democratico, ma non possiamo in nessun modo tollerare l’esportazione del terrorismo, che sia in India, Afghanistan o in ogni altro luogo nel mondo”ha dichiarato in una societa’ Infotech a Bangalore dove si e’ recato prima di andare nella capitale Nuova Delhi per colloqui. Egli ha anche espresso preoccupazione per la perdita riportata di fondi di diversi miliardi di dollari in aiuti militari che Gran Bretagna e USA hanno dato al Pakistan dopo l’11 Settembre per combattere i militanti nel proprio territorio.
“Informero’ della questione il Primo Ministro Indiano Manmohan Singh giovedi in Nuova Dehli di quanto discusso con il Presidente USA Barak Obama durante la mia recente visita a Washington , perche’ quando si tratta di proteggere persone innocenti, non possiamo non guardare a quanto accade in Aghanistan e Pakistan.” ha aggiunto Cameron. Egli ha continuato dicendo che si dovrebbe impedire a gruppi come i Talebani, la rete Haqqani o Lashkar – e – Taiba di lanciare attacchi a cittadini Indiani o Britannici in India o Gran Bretagna.
“I vostri rapporti con questi paesi ( Afghanistan e Pakistan ) sono una questione che riguarda solo voi ( India ). Ma come voi, noi siamo determinati a non consentire che gruppi terroristici attacchino il nostro popolo, che siano soldati o civili di entrambi i paesi che stanno lavorando in Afghanistan,” ha asserito Cameron.
C’e’ stata una breve risposta dal Pakistan e da Regno Unito dall’opposizione, dall’aspirante leader del partito laburista, il distorto Milliband. Il Pakistan ha schierato il suo Alto Commissario a Londra, Wajid Shamsul Hasan. Scrivendo sul Guardian egli ha detto: “ Si sarebbe auspicato che il Primo Ministro avesse tenuto in considerazione il grosso ruolo coperto dal Pakistan nella guerra del terrore e i sacrifici che ha fatto fino all’11 Settembre. Ci sembra che si faccia piu’ affidamento su fughe di notizie di intelligence che mancano di credibilita’ di prove. Una visita bilaterale con lo scopo di guadagnare business si sarebbe potuta svolgere senza danneggiare le prospettive di pace nella regione”. Piu’ tardi Hasan ha dichiarato alla BBC di sperare che i commenti di Mr Cameron siano stati un “lapsus” e non “voluti da lui”. “ Egli e’ nuovo al governo, magari imparera’ presto e sapra’ come gestire le situazioni”, ha detto l’Alto Commissario. “Io spero che faccia ammenda e metta pace sul popolo del Pakistan e sul suo governo, perche’ il suo discorso qui e’ stato preso assai male, le persone sono molto ferite dalle sue parole”. Il portavoce del ministero degli Esteri Abdul Basit ha respinto le affermazioni di Cameron come “rozze, egoistiche e non verificabili” dicendo che Cameron non dovrebbe usare il Pakistan come base per le sue analisi della situazione, e aggiungendo “ non c’e’ modo di guardare al Pakistan in modo diverso”. Il senatore pakistano Khurshid Ahmad, vice presidente del partito islamico Jamaat-e-Islami, ha avvisato in un’intervista con la BBC Radio 4 , The World at One, che le osservazioni di Cameron rischiano di creare tra la gente un sentimento anti – Americano e anti-occidentale. E il ministro degli esteri ombra Miliband ( egli senza dubbio getta una lunga ombra maligna sulle relazioni India – Regno Unito ) ha dichiarato che il Primo Ministro “avrebbe dovuto pensare attentamente a cio’ da dire”in tali occasioni. Mentre la Gran Bretagna deve parlare con “ certezza” su argomenti importanti, egli ha dichiarato che Mr Cameron ha detto solo “la meta’ della storia” e “non ha riconosciuto” che il Pakistan ha perso migliaia di cittadini, tra cui il leader Benazir Bhutto, negli attacchi terroristici. “C’e’ una linea sottile tra chi parla in modo diretto e uno spaccone”, ha detto alla BBC. Neanche i marines crederanno che USA/Regno Unito e Pakistan non siano responsabili per le basi e i mali del terrorismo nel Sud Est Asiatico e nel Medio Oriente dal 1970, che sta ora accerchiando il Pakistan con danni collaterali in India perpetrati dall’ISI del Pakistan ( Inter- Services Intelligence ) come politica di stato. Il capo dell’intelligence del Regno Unito, durante il governo di Tony Blair ha detto che l’inchiesta Chilcot, un altro dramma britannico senza senso, che dopo l’invasione illegale in Iraq, le attivita’ terroristiche tra i Britannici Mussulmani sono aumentate e il governo ha raddoppiato il budget per contrastarle. Blair continua a negare cio’. Allora qual’e’ il valore o il peso, se vi e’, delle esternazioni di Cameron! Le sordide bugie dell’Occidente e del Pakistan sono state svelate da Wikileaks. Cameron e’ arrivato in India dalla Turchia dove aveva promesso di aiutare Ankara ad entrare nell’EU. Regno Unito rinnova di tanto in tanto il suo aiuto ad Ankara, sapendo che l’entrata della Turchia nell’EU e’ molto improbabile, vista la ferma opposizione di Grecia, Francia e Germania, con il Partito al partito al potere in Turchia che usa tutto cio’ per tenere fuori i militari dall’apparato decisionale. I turchi non sono piu’ cosi desiderosi di diventare membri EU e guardano verso Est, a relazioni piu’ strette con le ex province Ottomane. L’ultima volta che Cameron ha visitato l’India e’ stato nel 2006, nel suo primo anni come leader dell’opposizione.

Reinventare il Raj
Scrivendo in un articolo di apertura dell’asservito Indian Express, C. Raja Mohan, un ex di sinistra venduto al neo liberalismo, perora la causa di un’emergente India che ha tutto da guadagnare nell’approfondire le sue relazioni britanniche e angosassoni, con Cameron quale perfetto interlocutore per l’India. Questa visione di sicurezza deve avere due elementi. L’enfasi deve essere data nel riportare India e Gran Bretagna alla tradizione del Raj nel mantenere i beni comuni sicuri e aperti a tutti. Cio’ significherebbe che India e Gran Bretagna mettano in comune le loro risorse per mantenere aperte le linee di comunicazione nell’Oceano Indiano e oltre. Visto che la Gran Bretagna sta tagliando le sue spese militari, diminuendo le sue forze armate e limitando i suoi obiettivi politici alle necessita’ del paese, L’India dovrebbe cogliere l’opportunita’ per proporre un partenariato inclusivo tra le industrie della difesa dei due paesi. L’India d’altro canto ha bisogno di partners che le rendano piu’ agevole il cammino verso un ruolo piu’ ampio a livello internazionale. Le persone, le risorse e le istituzioni della Gran Bretagna sono un benvenuto per moltiplicare le forze. Dehli e Londra, poi, avranno tutto l’interesse a condividere le risorse, in altre parole a reinventare il Raj, con reciproco vantaggio.
Raja Mohan, che ha sempre una poltrona disponibile negli USA, e’ un esempio perfetto di Indiani o altri pronti in cambio di denaro a promuovere la causa occidentale.
La reazione cinese
La reazione cinese e’ stata estrema. Un articolo nella versione on line del Quotidiano del Popolo, il portavoce del partito comunista della Cina, in un pezzo intitolato “Gran Bretagna, anche l’India per fare speciali legami bilaterali” afferma “per la Gran Bretagna, questo tipo di relazione generalmente si riferisce ai legami di alleanza tra Gran Bretagna e USA, quindi le implicazioni delle affermazioni di Cameron sono abbastanza profonde”.
Prendendo le osservazioni del ministro del commercio britannico Vince Cable sul fatto che il governo britannico permettera’ l’esportazione di energia nucleare verso l’India per uso civile, il Quotidiano del Popolo ha commentato: “L’India fino ad ora non ha sottoscritto il Trattato di Non proliferazione nucleare e il governo britannico e’ stato per lungo tempo contrario all’esportare il suo equipaggiamento e tecnologia nucleare in India,”cio’ senza riferirsi all’accordo nucleare Indo – USA. ( Suona strano da Pechino, uno dei piu’ grandi proliferatori di tecnologia in bombe atomiche e missili ).
“Tuttavia, il governo britannico ritiene necessario ora differenziare le strutture nucleari civili e quelle militari, e quindi e’ molto probabile che rilascera’ un permesso di esportazione nucleare all’India il piu’ presto possibile”.
“Inoltre, ha ammesso con franchezza che l’India ha un mercato di energia nucleare civile per piu’ di 100 miliardi di dollari USA e, una volta tolto il divieto, il mercato britannico certamente sara’ sommerso di ordinazioni”, dichiara il quotidiano cinese.
Sul partenariato con il Regno Unito – India per la difesa dice” L’India e’ conosciuta per il fatto di fare affidamento all’estero, in particolare sulle attrezzature militari e tecnologiche russe per modernizzare le sue risorse militari. Ma recentemente, l’India sta cercando di difersificare i suoi fornitori di armi per i quali il potenziale di mercato e’ immenso”. E ancora “La Gran Bretagna ha un certo fascino a tal riguardo. |Cosi il Primo Ministro Cameron col suo viaggio in India ha aperto le porte per i produttori di armi britannici per espandere le proprie esportazioni verso l’India”

Regno Unito come partner
Solo ignoranti Indiani di lingua inglese vedono Regno Unito e USA come alleati affidabili nonostante i loro trascorsi e le loro propensioni. Mentre rilasciavano dichiarazioni adulatorie sia Washigton che il suo cagnolino Londra hanno ignorato gli interessi vitali dell’India. La BBC ancora si riferisce ai terroristi addestrati dell’ISI che hanno violentato la metropoli culturale ed economica dell’India Mumbai come a uomini armati. Essa consente alle cosidette organizzazioni libere di incidere negativamente sulla sicurezza dell’India e di altri paesi nel Sud e nel Centro Asia. Persino Wikileaks che ha fornito dettagli sulla perfidia americana non ha persuaso i politici indiani a non esternalizzare la sicurezza Indiana a Washington e ad intraprendere una linea indipendente per salvaguardare gli interessi nazionali indiani. L’India ha inutilmente offeso la Cina per compiacere Washington, ha fatto infuriare l’Iran schierandosi con gli USA nello sforzo di intimidire Tehran sulla questione nucleare su cui Tehran e’ del tutto giustificata. L’ambasciatore di Washington a Nuova Delhi e’ persino riusciuto a far licenziare il ministro del Petrolio Mani Shankar Aiyar per i suoi tentativi di garantire la sicurezza energetica. Il suo successore, un candidato di una ricca corporazione a Mumbai ha fatto molto poco in tal direzione. Le relazioni dell’India con la Russia ne hanno anche risentito. Le relazioni tra India e USA sono divenute ostaggio di imprese di corporazione indiane e americane di origine indiana che guardano ai propri interessi e a quelli USA a differenza degli ebrei e dei cinesi. Gli indiani hanno poco sentimento nazionalista, la loro identita’ si basa su casta, religione, lingua e regione. Il leader del partito conservatore Cameron guida una coalizione con i liberaldemocratici, dopo che individui come Tony Blair con le sue bugie e mezze verita’ hanno portato il Regno Unito, quale servitore degli USA e insieme con loro, all’illegale invasione dell’Iraq. Cio’ fu cosi impopolare che la gente ha votato contro il New Labour sotto Gordon Brown che prese il potere dopo Blair fu quasi costretto a dimettersi. In precedenza la disastrosa politica impopolare di Maggie Thatcher aveva distrutto la popolarita’ del partito tra le masse.
La morte agonizzante del modello deregolamentato di Finanza della Thatcher

Ha scritto F. William Engdahl nel Gennaio 2009 “ Tra la fine del 1970 fino al 1980 il Primo Ministro conservatore Margaret Thatcher e gli interessi finanziari di Londra che l’hanno sostenuta, ha introdotto misure di privatizzazione in blocco, tagli nel budget pubblico, mosse contro il lavoro e la deregolamentazione dei mercati finanziari. Le misure prese erano in parallelo con simili mosse negli USA, avviate dai consiglieri attorno al Presidente Ronald Reagan. La ragione addotta fu che una medicina amara era da adottare per frenare l’inflazione e che l’eccessiva burocrazia inglese era il problema centrale. Per almeno tre decadi le facolta’ di economia delle Universita’ Anglo-Americani hanno guardato alla deregolamentazione thatcheriana dei mercati finanziari come al “modo piu’ efficiente” nel processo di annullare gli sforzi fatti per conquistare la sicurezza personale sociale, la sanita’ pubblica e la sicurezza pensionistica della popolazione. Ora il figlio dell’economia della rivoluzione della Thatcher, la Gran Bretagna, sta affondando come il proverbiale Titanic, una testimonianza dell’incompetenza che generalmente e’ chiamata Neo – Liberalismo o ideologia del libero mercato.

Kohinoor

La proposta per il ritorno del leggendario diamente indiano Kohinoor, ora parte dei gioielli della corona britannica, e’ stato sollevato dal parlamentare britannico di origine indiana Keith Vaz, poco prima della visita. Cameron ha minimizzato la cosa, dicendo che se tali richieste fossero accontentate, i musei britannici avrebbero molte stanze vuote.
Ma c’e’ di piu’ di pezzi preziosi nei musei britannici, come i bassorilievi dello Stupa buddista di Amravati o il Sultanganj Buddha, anche conosciuto come il Buddha di Birmingham, che era stato rubato nel 1861.

Sfruttamento coloniale e bottino

“La conquista della terra, il che vuole dire il portare via qualcosa da coloro che hanno carnagione diversa e il naso leggermente piu’ piatto del nostro, non e’ una bella cosa quando la si considera troppo”. Conrad Marlow in Heart of Darkness

L’India non deve dimenticare che prima dell’arrivo della Compagnia delle Indie Orientali alla fine del 18esimo secolo, le quote del subcontinente nella produzione mondiale erano del 24.5% nel 1750 ( 32.8% per la Cina ). Ma quando gli Inglesi finirono di spremere l’India, le quote del subcontinete scesero all’1.7% ( nel 1900 ), e quelle degli Inglesi aumentarono dal 1.9% ( nel 1750 ) al 22.9% ( nel 1880 ) – Rise and fall of Big Powers del Professor Paul Kennedy -.
In questi dati e’ da collegare le decine di milioni di morti per carestia, molto spesso perche’ il grano veniva esportato per il profitto e non distribuito quando necessario, ed in tempo. Le ricchezze saccheggiate dall’India e l’esportazione di prodotti industriali in cambio delle materie prime dell’India hanno innescato la rivoluzione industriale inglese, l’espansione e il mantenimento del vasto impero britannico dove il sole non tramonta mai.

Dieci milioni di morti dopo la rivoluzione del 1857

Nel suo libro “Guerra di civilta': India AD 1857” lo scrittore/giornalista Shri Amaresh Misra afferma che la rivolta del 1857 fu una rivoluzione che falli’ perche’ non sufficientemente ben organizzata. Aveva basi molto piu’ ampie di quanto si potesse immaginare e duro’ molto oltre il 1857, fino al 20esimo secolo. E’ stata una guerra di civilta’. “ La visione convenzionale che gli Indiani persero militarmente o politicamente deve essere rivisitata…Nonostante tutto, gli Indiani avrebbero ancora potuto ottenere una vittoria convenzionale – solo un tradimento interno forse impedi’ tale possibilita’. “ ( tradimenti interni si possono vedere ovunque e ogni giorno ).
Il numero di Indiani uccisi per vendetta dopo il 1857 e’ stato stimato sui 10 milioni ( il 7% della popolazione ) solo in Uttar Pradesh, Haryana e Bihar basandosi sulle fonti primarie negli archivi nazionali di Nuova Dehlie negli archivi di Stato a Lucknow, Patna, Bhopal, Bombay, e Ahmadabad, a parte dalla Raza Library in Rampur, Shibli Numani Library in Azamgarh, Khuda Baksh Library in Patna, e la Deoband Library.
Le fonti originarie sono in Urdu, Persiano e Arabo.
Gli inglesi hanno distrutto tutti i documenti sul genocidio ma hanno conservato la storia delle battaglie perche’ dovevano riferirle ai loro superiori. I numeri del genocidio sono stati tabulati da inchieste documenti sulla terra, le ferrovie e il lavoro. Da Lahore e Bangladesh Misra ha ottenuto le gazzette dei distretti di Punjab, Sind, e NWFP di Dhaka, Chittagong, e Fareed Pur.
Ha scritto Soutik Biswas, il corrispondente online per BBC News nel suo blog “ La maggior parte dell’esperienza coloniale in India e’ stata estremamente sgradevole. Gli esperti sottolineano la tendenza delle regole britanniche a coltivare le elites locali, dando potere ad alcune di loro e dividendo le masse ( Lord Macaulay, che ha favorito la fondazione del sistema educativo indiano, ha suggerito che avrebbe creato dei nativi che sarebbero stati “Indiani per colore e per sangue, ma Inglesi per gusti, opinioni, morale e intelletto”.) Sfortunatamente gli Indiani ancora non hanno sviluppato un modello Indiano di base.

Contro un’elite di colore che parla inglese, a cui e’ stato fatto il lavaggio del cervello dai britannici e ora dallo stile di vita americano, si trovano le leadership dalle radici indigene in India, dove molti si oppongono all’Inglese, ora quasi linguaggio internazionale e anche ai computers per uso politico.
Ma i computers sono una necessita’ e anche mandare i propri figli in scuole e college inglesi.
“La collaborazione con elites radicate ha rafforzato il feudalesimo in quella che era’ gia’ una profonda societa’ gerarchica. Reddito, urbanizzazione, educazione e sanita’ non progredivano. In media la crescita economica nella prima meta’ del secolo sotto gli Inglesi fu dell’1%. Il commercio coloniale fu estrattivo e di sfruttamento, lasciando l’India piu’ povera. Ma dubbiosa era la comprensione coloniale di questa complessa nazione, per esempio Winston Churchill previse che se gli Inglesi avessero lasciato l’India, il paese “sarebbe caduto rapidamente indietro ai secoli della barbarie e delle privazioni del Medio Evo”.

Ma a differenza del 17esimo secolo, c’e’ ora il grande ragazzo Washington insediato a Nuova Delhi dal collasso dell’impero britannico seguito dalla non sostenibile spesa per la difesa durante la Seconda Guerra Mondiale e dal disfacimento dell’Unione Sovietica. E’ un’altra questione che come Londra e Mosca anche Washington ha ecceduto nelle spese con 700 miliardi per la difesa,(tanto quanto il resto del mondo assieme spenderebbe). E’ anche un’altra questione il fatto che il deficit nel bilancio di 600 miliardi sia finanziato da Pechino ed altri che investono in cio’ che presto saranno titoli senza valore, e il fatto che Washington sia bloccato nel pantano in Iraq e stia realizzando che la guerra in Afghanistan non si puo’ vincere e che si sia arrivati allo stesso epilogo del suo barboncino, il Regno Unito.

K. Gajendra Singh, ambasciatore indiano ( in pensione ) e’ stato ambasciatore in Turchia e Azerbaijan dall’Agosto 1992 all’Aprile 1996. In precedenza ha operato in Giordania, Romania e Senegal. Egli e’ attualmente presidente della fondazione degli studi Indo – Turchi. Collabora con Eurasia.

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