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Channel: Wahhabismo – Pagina 253 – eurasia-rivista.org

Il Messico nella morsa Usa-narcos

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La crisi attuale del Messico è la fase terminale di uno Stato che ha sempre vissuto all’ombra dell’ingombrante vicino settentrionale, gli Stati Uniti d’America.

Non va mai dimenticato che le iniziali aggressioni statunitensi, prima di proiettarsi su scala globale, avvennero ai danni dei propri vicini.

Diventato indipendente dal dominio coloniale spagnolo nel 1821, subito il Messico divenne preda ambita per gli interessi statunitensi. Interessi in un primo tempo di natura prettamente territoriale. L’oggetto del contendere era il possesso del Texas, regione strategica che venne conquistata da Washington al termine della guerra combattuta dai due Paesi tra il 1846 e il 1848, conclusasi con una sconfitta drammatica per i messicani che addirittura subirono l’onta dell’occupazione della capitale, Città del Messico. Il conflitto si era sviluppato a seguito di una serie di provocazioni da parte nordamericana. Il Texas era riconosciuto dal precedente dominio spagnolo come parte integrante del Messico, ma gli Usa lo rivendicavano per una (presunta, a dir poco forzata) continuità territoriale con la Louisiana. Le rivendicazioni avevano creato problemi già alla Spagna, che aveva tentato inutilmente di dirimere la questione attraverso la strada della diplomazia, col Trattato Adams-Onìs del 1819. A questo seguì una massiccia campagna di colonizzazione di popolamento da parte statunitense: il Texas messicano, in particolare la sua zona orientale, si vide letteralmente invaso da masse di immigrati tedeschi, olandesi e anglosassoni in cerca della loro “terra promessa” (ricorda vagamente la vicenda di un piccolo lembo di terra medio-orientale…). Coloni tutt’altro che pacifici verso la legittima autorità messicana, tanto che fra il 1835 e il ’36 insorsero in armi e combatterono quella che venne definita negli Stati Uniti la “Rivoluzione Texana”, con la sconfitta dell’esercito regolare guidato dal generale Santa Anna e la proclamazione della Repubblica del Texas. A tutti gli effetti uno Stato-fantoccio che Washington annetterà unilateralmente nel 1845. Il conflitto si protrarrà fino al 1848, con la definitiva capitolazione messicana e l’umiliante cessione territoriale che ne seguì: non solo il Texas, già da anni indipendente “de facto”, ma anche quelli che oggi sono la California, il Nevada, lo Utah e parti degli odierni Colorado, Arizona, Nuovo Messico e Wyoming. Insomma, una vera e propria amputazione territoriale che ebbe conseguenze pesantissime sull’economia dello Stato, e anche (aspetto decisamente non secondario) sul carattere nazionale: con la batosta subita, il Messico precipitò in una situazione di subalternità, una sorta di complesso di inferiorità che perdura anche oggi, soprattutto nella sua classe dirigente. Da allora, la politica messicana è diventata in gran parte servile e prona ad ogni richiesta di Washington. Gli statunitensi hanno fatto capire con la forza chi comanda nel continente.

Questa introduzione di carattere storico è necessaria quindi per comprendere meglio il Messico di oggi. Con un’importante postilla economica, questa volta dei giorni nostri: il 17 dicembre 1992 (ma entrerà in vigore a partire dall’1 gennaio 1994) George Bush padre, il premier canadese Brian Mulroney e il presidente messicano Carlos Salinas firmano in pompa magna il North American Free Trade Agreement, noto ai più come Nafta. Il cappio al collo definitivo per la residua sovranità messicana e per la sua economia nazionale. Figlio della mentalità da anni ’90 (trionfo della globalizzazione e feticcio del mercato unico), il Nafta venne presentato sotto l’innocua etichetta di “accordo volto a eliminare le barriere di commercio e investimento fra Stati Uniti, Canada e Messico”. In pratica stabilì un’immensa area di libero scambio fra Centro e Nord America. Gli unici a capire il tranello furono i sindacati statunitensi e canadesi, e insieme a loro i coltivatori messicani (in un Paese in cui l’agricoltura gioca un ruolo di primo piano). I primi capirono che il risultato dell’accordo sarebbe stata una serie di delocalizzazioni in Messico da parte delle multinazionali che intendevano risparmiare sul costo del lavoro (facendo ricorso alle fabbriche-prigioni note come “maquilas” o “maquiladoras”), i secondi invece hanno visto minacciato il proprio lavoro dalla concorrenza scorretta degli Usa, in cui l’agricoltura viene sostenuta con pesanti sussidi che drogano i prezzi finali dei prodotti, abbassandoli di molto e rendendoli più appetibili sul mercato. Conseguenze? La deindustrializzazione negli Stati Uniti, con relativa perdita di posti di lavoro e macelleria sociale, e l’abbandono di un numero altissimo di fattorie messicane con un forte calo della produzione agricola nel Paese (per quanto riguarda il Canada, le ripercussioni negative si sono avute soprattutto sul piano ambientale a causa dello sfruttamento intensivo di boschi e risorse acquatiche per fini industriali).

I messicani, quindi, sono divenuti a tutti gli effetti schiavi utili al profitto del capitale statunitense, esportati come merce a basso costo (il Nafta ha tra i suoi capisaldi la libera circolazione dei lavoratori). Come se non bastasse, in seguito è proseguita una dissennata politica di liberalizzazione e privatizzazione dei settori strategici dell’economia, smantellando pezzo per pezzo la presenza dello Stato e affidando le sorti del Paese alla speculazione internazionale.

In questo quadro desolante, l’intera struttura politica e sociale del Messico ha subito sconvolgimenti drammatici. Va detto che già prima lo Stato messicano era in crisi: corruzione endemica, criminalità e un sistema partitocratrico chiuso e consociativo, basato sul dominio assoluto del Partido Revolucionario Institucional (Pri), di centrosinistra, e del Pan (Partido Acciòn Nacional), di centrodestra, con alcune formazioni minori a spartirsi le briciole. Per capire quali sono i reali interessi che muovono la politica di Città del Messico, basti sapere che Vicente Fox Quesada, presidente dal 2000 al 2006 proveniente dalle fila del Pan, ha cominciato la sua attività pubblica come… presidente della Coca-Cola Company.

Il dissenso della popolazione, largamente (e giustamente) sempre più critica nei confronti delle autorità centrali, ha avuto picchi come la rivolta zapatista in Chiapas negli anni ‘90, scatenata proprio in occasione dell’entrata in vigore del Nafta e dalle rivendicazioni dei gruppi indigeni (storicamente vessati e discriminati), e imponenti mobilitazioni dei movimenti sociali come quelle del 2006 nella regione di Oaxaca, ma non è tuttavia mai riuscito ad esprimere un’alternativa concreta all’ingessato sistema di potere messicano.

Purtroppo nel frattempo di contropotere ne è sorto un altro, di ben altra natura e decisamente pericoloso: quello dei narcos. Per evidenti ragioni geografiche, il Messico è stato per decenni un punto di snodo e di passaggio per la droga in tutto il continente americano. Tuttavia le organizzazioni criminali locali non erano al livello di quelle colombiane dei cartelli di Cali e Medellin (il cui referente messicano era Miguel Angel Felix Gallardo), che hanno detenuto il monopolio del mercato della cocaina dagli anni ‘70 fino ai ’90. Una volta che i colombiani avevano accumulato troppo potere ed erano diventati troppo ingombranti anche per i loro protettori politici, la Dea (Drug Enforcement Administration) statunitense e il governo di Bogotà si decisero a toglierli di mezzo. Nel 1993 l’uccisione di Pablo Escobar pose di fatto la parola fine all’organizzazione di Medellin, mentre il gruppo di Cali venne decapitato da una serie di arresti eccellenti fra giugno e luglio del 1995.

A quel punto, il traffico degli stupefacenti in America era rimasto senza un padrone, ed è qui che cominciano ad affacciarsi sulla scena i gruppi messicani. Diversamente dai colombiani, sin da subito la galassia messicana appare molto più frastagliata e complessa. Tanti gruppi in perenne lotta fra loro, e se possibile molto più violenti dei loro predecessori in Colombia. Secondo le ricostruzioni più recenti, si possono individuare otto cartelli principali: Juarez, Tijuana, Los Zetas, Beltran-Leyva, Golfo, Sinaloa, La Familia e i Los Negros facenti capo a Edgar Valdez Villarreal. Proliferati senza alcuna opposizione sotto la presidenza Fox, nel 2006 il neo-eletto Felipe Calderon (anch’egli del Pan) dichiarò loro guerra. Lo Stato decise di muoversi quando ormai però era troppo tardi. Nel corso di questi anni, il Messico è diventato il primo produttore su scala mondiale di cannabinoidi e il principale luogo di smercio verso tutto il pianeta della cocaina proveniente dalla Colombia (che resta saldamente il primo produttore al mondo, nonostante i presunti successi sbandierati in merito da Uribe).

Radicati nel territorio, i cartelli hanno creato delle proprie enclavi autonome, degli Stati nello Stato in cui l’unica autorità riconosciuta è la loro e non quella del governo centrale. Ciascun gruppo criminale si caratterizza per avere una doppia struttura parallela: da un lato la branca dedita agli affari e ai traffici illeciti (cocaina ma non solo, anche eroina, metanfetamine e cannabinoidi), dall’altro un braccio armato, che nel corso del tempo sono cresciuti fino a diventare veri e propri eserciti privati che ogni cartello possiede. A quattro anni dall’inizio della campagna anti-droga, si può dire che il bilancio per il governo messicano sia negativo. Dal 2006 ad oggi, il numero dei morti dovuti al conflitto viene calcolato vicino alle trentamila unità, ed è in crescita continua anno dopo anno. Il potere dei cartelli non è diminuito, semmai è accresciuto. Ciò che è peggiorata tragicamente è la condizione di vita dei semplici cittadini nelle zone di conflitto, esposti alla brutalità di entrambe le parti in causa. I poteri speciali conferiti alle forze di sicurezza hanno dato origine a una lunghissima serie di soprusi su persone del tutto estranee al narcotraffico, incarcerate senza motivo e spesso vittime di torture, tanto da costringere le autorità a sciogliere un organo creato ad hoc nel 2001, l’Agencia Federal de Investigaciòn (Afi), al centro di numerosi casi di corruzione interna e di violenze sulla popolazione. Dall’inizio della guerra, i massacri motivati solo dalla volontà di infondere timore nella popolazione ormai non si contano più e raggiungono livelli elevatissimi di spietatezza e crudeltà, con tanto di mutilazioni sommarie. A parte qualche sporadico arresto di alto livello (un mese fa quello di Villarreal, detto La Barbie), il solo risultato ottenuto finora è stato spingere i cartelli, fino al 2006 in continua guerra fra loro, a stringere alleanze contro il nemico comune: si sono formate due maxi-fazioni, una composta da Tijuana, Los Zetas, Juarez e Beltran-Leyva, l’altra da Golfo, Sinaloa e La Familia. A differenza dei colombiani, i messicani non sono stati per nulla intimoriti dalle velleità repressive dello Stato nei loro confronti; anzi, sono passati a confrontarsi militarmente senza alcun timore con polizia ed esercito. Forti di uomini più motivati e il più delle volte meglio retribuiti rispetto a quelli delle forze di sicurezza, gli eserciti dei cartelli possono anche contare su arsenali di tutto rispetto, con il 90% delle armi di provenienza statunitense. Si va dall’onnipresente Ak-47 (comprese moderne versioni modificate), fino alle granate a frammentazione M61 e M67, al bazooka M203 e al sempre efficace Rpg-7. Stando alle informazioni più recenti, starebbero affluendo nel Paese anche carichi di armamenti anti-aerei per contrastare i blitz con elicotteri delle forze speciali, nonché mini-sottomarini per il trasporto via mare della droga.

A ciò si unisce anche un fattore importantissimo: la permeabilità delle strutture statali all’infiltrazione e alla corruzione. Buona parte delle truppe dei narcos sono disertori provenienti dai Gafes (Gruppo delle Forze Speciali Aviotrasportate), uomini addestrati in strategie anti-droga sul finire degli anni ’90 nel Centro per le Forze Speciali dell’esercito Usa a Fort Bragg, in Carolina del Nord. La corruzione è presente in gran quantità tra le forze di polizia (recentemente la Polizia federale ha licenziato il 10% del suo personale per connivenza coi narcos!), ma anche nelle alte sfere della magistratura, dei mass-media e della politica. Gli uomini del Beltran-Leyva hanno potuto contare sulla simpatia quasi pubblica dei governatori del Pan nell’area di Cuernavaca, loro base operativa. Si è parlato addirittura di un patto tra Sinaloa e governo centrale per eliminare tutte le altre organizzazioni (ovviamente negato con sdegno dalle autorità). Il padrino di Sinaloa è l’uomo più potente del Messico: Joaquin Guzman Loera, detto El Chapo. Già arrestato nel 1993 in Guatemala ed evaso nel ’95 dopo avere corrotto praticamente l’intero penitenziario in cui era detenuto (direttore compreso), El Chapo figura nella classifica di Forbes degli uomini più ricchi al mondo. Ex socio in affari dei fratelli Beltrand-Leyvas, Guzman ha amici molto influenti a Los Pinos (il palazzo del governo): “casualmente” la sua rocambolesca fuga avviene subito dopo l’elezione alla presidenza di Fox, e secondo diversi osservatori un accordo di pace con lui potrebbe essere la carta vincente di Calderon per farsi rieleggere nel 2012. Ormai l’influenza dei narcotrafficanti messicani li ha resi una potenza sulla scena globale del crimine: sono stare riscontrate tracce della loro attività anche in Europa (accordi strategici con la criminalità organizzata locale, in primo luogo la ‘ndrangheta), Africa occidentale e naturalmente nell’intero continente americano, Usa compresi. L’interesse di Washington per il conflitto in Messico è dovuto principalmente a tre fattori: primo, limitare l’afflusso di droga verso il mercato interno, cresciuto a livelli esponenziali (si calcola che ormai il 90% della cocaina destinata agli Stati Uniti transiti attraverso il Messico, rispetto al 50% di qualche anno fa); secondo, garantire la stabilità interna del fedele alleato meridionale; terzo, evitare che l’anarchia oltrepassi il confine e arrivi fin dentro casa propria. Diversamente da quanto avveniva coi colombiani, infatti, adesso il problema è alle porte, a pochi chilometri dalle grandi città californiane. La comunità di cittadini messicani negli Stati Uniti può contare su numeri enormi, non chiaramente quantificati, tra regolari e clandestini. Ogni giorno, frotte di disperati in fuga dalla violenza e dalla miseria oltrepassano illegalmente il confine per entrare negli Usa, dove li aspetta una vita altrettanto misera e all’insegna dello sfruttamento. Le attività dei cartelli sono arrivate ad estendersi fino al New Jersey, e l’allarme sociale ha toccato livelli altissimi negli Stati meridionali come Texas, California e Arizona, in cui il sentimento anti-messicano è da sempre un’ossessione, per le note ragioni storiche. Già dal 1990 il governo messicano è stato costretto sotto diktat di Washington a costruire una barriera di separazione nel principale punto di passaggio dei clandestini, per limitarne l’afflusso negli Usa: il Muro di Tijuana, simbolo della sottomissione dell’esecutivo di Città del Messico al vicino settentrionale, tanto da ingabbiare il suo stesso popolo in fuga dalla povertà che proprio gli Stati Uniti con le loro politiche predatorie hanno contribuito a creare (quel che si dice nemesi storica…). Il 22 ottobre 2007, poi, il Congresso Usa ha autorizzato la cosiddetta Merida Initiative (Iniziativa di Merida), un piano di finanziamenti pari a 1,6 miliardi di dollari destinati al Messico e in misura minore ad altri Paesi dell’America Centrale per sostenere la repressione militare dei gruppi criminali e la lotta sul piano economico al riciclaggio di denaro sporco derivante dal narcotraffico. Ovviamente tutto a patto di seguire ciecamente le direttive politiche impartite dalla Casa Bianca: una sorta di riproposizione su macro-scala del Plan Colombia, con il quale Washington tiene al guinzaglio l’esecutivo di Bogotà.

Il Messico rischia dunque di diventare uno Stato fallito, e di trascinare l’intera regione in una crisi dalle conseguenze imprevedibili. Usa compresi.

Alessandro Iacobellis, laureato in Scienze della Comunicazione con una tesi in Storia Contemporanea, si occupa di politica internazionale e geopolitica

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Giochi di destabilizzazione in Turchia

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Ahmet Őzal, figlio di Turgut Őzal (Primo Ministro turco fra il 1983 e il 1989 e poi Presidente della Repubblica dal 1989 alla morte, avvenuta quattro anni dopo) ha sporto denuncia contro il generale Sabri Yirmibeşoğlu, che fu  a capo del Dipartimento operazioni speciali dell’Esercito: l’accusa è di avere organizzato, il 18 giugno 1988, un tentativo di assassinio del padre, all’epoca ritenuto dagli ambienti militari troppo “amico dei curdi”.

Il generale nega le accuse, ancora da provare, ma resta sintomatico  che lo stesso personaggio abbia ammesso le gravi responsabilità di quel dipartimento in due precedenti tragici eventi: nel 1955 in un attentato contro un museo di Salonicco dedicato ad Atatürk – attentato destinato a scatenare la rabbiosa violenza degli estremisti turchi contro i greci a Istanbul e a Izmir, con un bilancio di 16 morti e decine di feriti gravi – e nel 1974 nell’incendio doloso di una moschea a Cipro, anche qui artatamente attribuito ai greci per attizzare il fuoco tra gli stessi e i turchi.

Sabri Yirmibeşoğlu

Frammenti di una guerra sotterranea che ha causato, in decenni vissuti tra  operazioni speciali e colpi di Stato, migliaia di morti in Turchia, con il beneplacito dei potenti alleati statunitensi, padroni assoluti del Paese.

Non è un caso che una fondazione come l’ARI, istituita nel 1994 e strettamente collegata alle maggiori lobbies sioniste quali l’AIPAC e il JINSA, è ora impegnata a coprire  e minimizzare i guasti dell’”operazione Ergenekon”: significativo che un suo esponente di spicco sia Anthony Blinken, consulente sulla sicurezza nazionale USA per conto del Vicepresidente Biden, da sempre nemico giurato della Turchia.

La parola d’ordine per questi falsari è: Ergenekon non esiste, se non come pretesto creato dagli “islamisti” per imporre il loro potere assoluto; del resto contro il governo dell’AKP anche buona parte della stampa turca è mobilitata: in prima fila il magnate Aydın Doğan, proprietario del gruppo DMG, di gran lunga il maggior gruppo editoriale e mediatico della Turchia . Accusato di evasione fiscale e condannato a una supermulta di oltre un miliardo di lire turche (l’equivalente di circa mezzo miliardo di euri), Doğan è stato per ora salvato dal Consiglio di Stato, che ha  bloccato nei giorni scorsi l’imposizione dell’ammenda, in attesa di una nuova pronuncia giudiziaria.

Intanto la guerriglia terrorista del PKK rimane virulenta (nove morti ad Hakkarı nell’esplosione di un minibus), ma si tratta di un PKK sempre più infiltrato e manomesso da Mossad e servizi americani: in una recente intervista Hüseyin Yıldırım, ex numero due dell’organizzazione, ha accusato il PKK di essere ormai uno strumento manipolato dai militari turchi e dalla NATO, e i suoi attuali maggiori dirigenti (ha citato Semdin Sakık e Selim Čürükkaya) di far parte della “Gladio turca” (Ergenekon). In un’intervista di inizio anno lo stesso Őcalan aveva confessato di avere perso il controllo dell’organizzazione PKK, e sottolineato la strategia statunitense di frammentazione dell’area vicino orientale.

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Contro questi tentativi di destabilizzazione e di frammentazione – che hanno ricevuto un parziale ma non risolutivo colpo con il referendum del 12 settembre – la Turchia di Erdoğan e di Davutoğlu risponde con una politica di comunicazione e di solidarietà che trova successo e riscontro nei Paesi vicini – creando realmente una rete di incontri e di collegamenti utilissimi in prospettiva eurasiatica.

Nelle scorse settimane è nato il Consiglio per la cooperazione dei paesi turcofoni, con sede a Istanbul, mentre in questi giorni si tiene – nella stessa città – il Forum su economia ed energia dei Paesi del Mar Nero. L’esecutivo si muove  in armonia con la volontà prevalente della popolazione, attestata anche in recenti sondaggi  internazionali (gli ultimi quello del Pew Research Center Global Attitudes Survey e quello del German Marshall Fund’s Transatlantic Trends Survey): una fiducia massiccia e in crescita verso i Paesi vicini, Iran e Russia compresi, una notevole freddezza verso gli Stati Uniti d’America.

Proprio negli USA si manifesta la maggiore incomprensione per il ruolo svolto dalla Turchia, tradizionale “testa di ponte” atlantica della seconda metà del secolo scorso; di passaggio, vogliamo citare un curioso recente intervento di Stephen Kinzer apparso su Reset e ospitato sul sito di Foreign Affairs, pubblicazione del CFR (Council on Foreign Relations): in Iran, Turkey and America’s future egli propone una inedita alleanza fra i tre Paesi “per promuovere una cultura della democrazia e combattere l’estremismo” !

L’idea potrebbe essere qualificata semplicemente come bizzarra se non celasse – è un’ipotesi – una strategia di “addomesticamento” dell’Iran e della stessa Turchia con metodi da rinvenire nel vasto repertorio strumentale statunitense.

*Aldo Braccio, esperto del mondo turco nelle sue relazioni interne ed internazionali

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Guerra occulta contro la Russia?

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Il 13 settembre, tre dipendenti russi della Sukhoj Design Bureau sono morti inaspettatamente, nella base aerea indonesiana Sultan Hasanuddin della città di Macassar nella Provincia di Sud Sulawesi. Stavano lavorando in Indonesia al trasferimento dei caccia acquistati in Russia. L’ambasciata russa ritiene che la morte dei tre ingegneri russi sia un incidente. Il Capo del Dipartimento Consolare presso l’Ambasciata russa in Indonesia, Vladimir Pronin, ha osservato che la teoria dell’avvelenamento premeditato sia priva di fondamento. “Consideriamo la morte di tre cittadini russi come un incidente. La teoria dell’avvelenamento premeditato avanzata da alcuni media russi è priva di fondamento“, ha detto il diplomatico, in diretta sul canale televisivo dei notiziari Rossija 24. “L’ambasciata non ha ricevuto alcuna relazione forense ufficiale dai medici indonesiani sulle cause della morte dei tre specialisti russi. Nel frattempo, abbiamo prestato attenzione a una dichiarazione che aveva fatto il capo del servizio medico alla stampa locale, che considera l’avvelenamento da metanolo causa della morte dei cittadini russi“. L’ambasciata russa “né smentisce questa affermazione e nè può sostenerla“, perché tale documentazione forense non è stata presa in considerazione dagli specialisti russi, ha osservato Pronin.

Il Capo medico della polizia, Brigadier Generale Musaddeq Ishaq aveva riferito dei risultati dell’autopsia a Giacarta. L’avvelenamento da metanolo, che ha indotto problemi di respirazione e un attacco di cuore, potrebbe avere causato la morte degli ingegneri russi, ha osservato. Ma solo il mese precedente, il 2 agosto, moriva misteriosamente il Maggior-Generale Jurij Ivanov, vice capo dell’intelligence militare russa, il cui corpo in decomposizione è stato trovato su una spiaggia turca ad agosto, dopo che era scomparso nella vicina Siria. Il 28 agosto, 12 giorni dopo, il corpo di Ivanov è stato trovato da pescatori turchi nella provincia di Hatay, il giornale l’esercito russo, Stella Rossa, ha riferito che il Generale era morto in un “incidente di nuoto“, in prossimità del porto siriano di Tartus. Ma si specula sul fatto che il Generale sia stato ucciso, l’ultimo di una serie di omicidi politici in Medio Oriente in questi anni. Sebbene sia possibile che la morte di Ivanov sia legata al suo lavoro nell’intelligence militare russa (GRU), nell’ambito del quale, nel periodo 2000-2006, ha condotto la campagna contro i separatisti ceceni, in effetti avrebbe diretto la liquidazione di vari dirigenti, tra cui Zelimkhan Jandarbiev, eliminato in Qatar nel 2004, i media russi tuttavia hanno messo in dubbio la versione ufficiale della morte di Ivanov, notando che, come ufficiale dell’intelligence di alto livello, sarebbe sempre stato sotto la costante protezione delle guardie del corpo. Commenta Svobodnaja Pressa: “Spie di tale rango sono ben protette, come regola generale, e non muoiono per caso…”

Ivanov è stato visto l’ultima volta il 2 agosto, mentre visitava il sito in cui una base navale russa è in costruzione, presso Tartous, per la flotta del Mar Nero. Il giornale turcoVatan ha riferito, il 1 settembre, che Ivanov era scomparso dopo aver lasciato la base per un incontro con ufficiali dei servizi segreti siriani. Non è chiaro se era accompagnato da aiutanti o guardie del corpo, ma se non lo era, sarebbe stato altamente inusuale.
Intanto, aldilà dai dubbi sollevati da queste morti improvvise e oscure, gli israeliani sono preoccupati dal fatto che Mosca utilizzerà la base navale di Tartous, pronta per il 2013, insieme a una stazione di sorveglianza elettronica, che potrebbero spiare le loro comunicazioni e movimenti militari. I russi stanno costruendo la base, che potrebbe ospitare le navi da guerra di grandi dimensioni, in caso di alta tensione tra Israele e la Siria, Libano e Iran dall’altra. Gli israeliani hanno avvertito Damasco che rischia di essere colpita, se continua a fornire missili e altre armi a Hezbollah, a dispetto della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu emessa dopo la guerra di 34 giorni tra Israele ed Hezbollah, nel 2006. Inoltre, Israele si è scagliato contro la vendita alla Siria, da parte della Russia, di missili da crociera. L’attacco è venuto poco dopo il ministro della difesa russo, Anatolij Serdjukov, aveva detto ai giornalisti che Mosca potrebbe procedere col contratto del 2007 per la fornitura a Damasco di 72 missili cruise anti-nave P-800 Jakhont, del valore di 300 milioni di dollari. Dotati di una testata di 200 kg e una gittata di 300 km, i nuovi missili cruise siriani sono enormemente precisi, progettati per volare a pochi metri sopra la superficie dell’acqua, rendendo estremamente difficile intercettarli e identificarli con il radar.

Il giornale israeliano Haaretz ha riferito che la Siria ha già ricevuto i missili. “Le armi“, ha detto il giornale, “hanno raggiunto l’esercito siriano in queste ultime settimane, nonostante la forte pressione israeliana su Mosca per sabotare l’accordo.” Ha citato anonime fonti diplomatiche, e indica anche che contatti e iniziative diplomatiche con il Cremlino sarebbero stati fatti. Tra questi rientra anche la minaccia di recedere dal contratto con la Russia, per la fornitura dei Velivoli Senza Pilota (UAV). Difatti l’esercito russo avrebbe bisogno di 100 UAV e almeno di 10 sistemi di controllo guida e per assicurare la ricognizione efficace dei campi di battaglia, perciò Mosca ha firmato due contratti per la fornitura di UAV da Israele. Col primo contratto, firmato nell’aprile del 2009, Israele ha consegnato due sistemi Bird Eye 400 (del valore di 4 milioni di dollari), otto UAV tattici Vista MK150 (37 milioni) e due UAV multi-missione Searcher Mk II (12 milioni). Il secondo contratto riguardava l’acquisto di 36 UAV, per un valore complessivo di 100 milioni di euro, da consegnare entro la fine dell’anno. Russia e Israele stavano anche negoziando la creazione di una joint venture da 300 milioni per la produzione di UAV.
Ma alla minaccia di Tel Aviv, Mosca ha risposto puntando alla produzione di UAV in Russia e in Ucraina, la quale ultima può produrre e consegnare i motori per gli UAV russi. La Motor Sich ucraina sta discutendo la possibile fornitura dei motori ucraini per i veicoli senza pilota prodotti in Russia dalla Vega. “Siamo in ritardo su tali veicoli. Prima di tutto, vi è un deficit di motori“, ha detto Vladimir Verba, CEO della Vega, mentre il CEO della Motor Sich, Vjacheslav Boguslaev, ha confermato che le società sono in trattative. “Stiamo discutendo questioni riguardanti questo argomento“. La Motor Sich fornisce motori a 11 paesi in tutto il mondo, e Boguslaev ha aggiunto che “non abbiamo nulla contro al fatto che la Russia sia il dodicesimo paese.” Il Servizio di Sicurezza Federale (FSB) russo apprezza la qualità degli UAV russi, ha detto Verba, secondo cui gli UAV della Vega saranno in grado di competere con quelli prodotti all’estero, entro il 2013.

Intanto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto, in una riunione dei ministri del Likud, che la vendita di armi alla Siria di Mosca è “problematica“. “Abbiamo saputo di questo affare per un po’ e abbiamo tenuto riunioni con i Russi ad ogni livello. Purtroppo la vendita è andato avanti” ha detto. “Stiamo vivendo sotto la minaccia di nuovi tipi di missili e razzi, e dobbiamo avere una risposta militare a essi“. Netanyahu ha citato l’avanzato jet da combattimento Lockheed-Martin F-35 Lightning II, come parte di questa risposta militare. RIA-Novosti ha riferito che Israele e gli Stati Uniti hanno chiesto alla Russia di por termine alla vendita. Mosca, però, ha rifiutato, sostenendo che le armi non “cadranno nelle mani dei terroristi“. In effetti il ministro della Difesa russo Anatolij Serdjukov dichiarava, il 17 settembre, che Mosca andrà avanti nella vendita dei missili Jakhont alla Siria. Tale dichiarazione sottolinea il fallimento degli israelo-statunitensi nell’ostacolare l’accordo tra Mosca e Damasco. ”La questione della vendita di missili alla Siria e’ stata sollevata nel corso dei colloqui con il segretario alla difesa Usa Robert Gates. – spiegava Serdjukov – Senza dubbio il contratto soddisfa la parte russa”.

Le vendite di armi russe a Damasco, hanno provocato l’ira di Israele già a maggio, dopo che Mosca aveva fornito alla Siria jet da combattimento MiG-29, sistemi di difesa aerea a corto raggio Pantsir e dei veicoli blindati. Haaretz, citando un anonimo diplomatico, ha detto che Damasco continua “a proclamare il suo desiderio di pace con Israele, ma nello stesso tempo sta approfondendo i suoi legami con l’asse radicale regionale Iran-Hezbollah- Hamas“. Inoltre, una raffica di articoli israeliani ha riferito che le organizzazioni radicali in Siria e in Libano, sempre più ricevono sostegno anche dall’Egitto.
L’ipotesi che i servizi segreti esteri di Israele, il Mossad, possano essere dietro la morte di Ivanov sembrerebbe improbabile. Nel mondo dell’intelligence, le agenzie dello spionaggio raramente uccidono i responsabili dei servizi rivali. Inoltre, il 6 settembre Israele ha firmato uno storico accordo di cooperazione militare con la Russia. Uno dei punti salienti del nuovo patto militare da 100 milioni di dollari, è la fornitura Israeliana a Mosca di velivoli senza equipaggio high-tech, per la sorveglianza aerea della Georgia, con cui la Russia ha combattuto una breve guerra nell’agosto 2008. Sarebbe improbabile che Israele organizzasse l’assassinio di alto dirigente dei servizi segreti russi, a un mese dall’accordo.
Certamente, la morte di Ivanov ricorda l’assassinio a Tartous del Brigadier Generale Mohammed Suleiman, un confidente del presidente siriano Bashar al-Assad e presunto principale collegamento di Damasco con Hezbollah. Fu colpito da un cecchino, che apparentemente avrebbe sparato da una barca in mare aperto, mentre prendeva il sole in una località costiera della Siria. Alcuni report hanno identificato il tiratore nel capitano del commando d’elite della marina israeliana ‘Flottiglia 13‘.

Ovviamente in tale quadro s’inserisce lo scontro ai vertici politici della Federazione Russa. Il gruppo del Presidente Medvedev ha deciso di puntare tutte le sue carte su un’allenza con le maggiori potenze occidentali, soprattutto l’asse Washington e Parigi, mentre il Primo Ministro Valdimir Putin e il minsitro degli esteri Sergej Lavrov, espressione del partito dell’Energia, (come Medvedev) ma sostenuti dagli apparati d’intelligence, punta a una cooperazione maggiore con Berlino, Roma e Ankara, motivo per cui hanno sostenuto le sanzioni contro Tehran, egualmente a Medvedev. Vi sarebbero poi altre tendenze, dei gruppi geopolitici, collegati con l’industria bellica e nucleare della Federazione Russa. I cui esponenti sono Rogozin, ambasciatore russo presso la NATO, il ministro della difesa, Anatolij Serdjukov, e importanti figure delle opposizioni patriottiche, come Gennadij Zjuganov, del Partito Comunista della Federazione Russa o il Generale Leonid Ivashov, collegato all’organizzazione Pamjat, la cui critica aspra all’operato di Medvedev è motivata anche dallo scontro all’interno dei vertici delle forze armate russe. Scontro che riguarda la riforma militare promossa da Medvedev e dal Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate, Generale Makarov, cui si oppone buona parte dei vertici militari post-sovietici, di cui Ivashov si fa portavoce. Cosa che ha portato quest’ultimo a lanciare un allarme dai toni estremi, riguardante una imminente totale cedimento di posizioni di Mosca a vantaggio della NATO, sulla questione del nucleare Iraniano. Allarme ingiustificatamente esagerato, alla luce del riposizionamento dei missili da difesa aerea strategica S-300 in Abkhazia, avvicinando l’ombrello antiaereo russo alla regione mediorientale.

E’ certo che in questa fase, dovuto all’apparente politica di conciliazione intrapresa dall’amministrazione statunitense di Obama, si sia voluto giocare, da parte di alcune forza politiche di Mosca, una carta spregiudicata, puntando a un sostegno di Beijing che controllasse le retrovie (Pakistan, Turkestan e Iran), mentre una Mosca ‘medvedizzante’ punterebbe a una massima apertura da parte dell’occidente atlantico, in concorrenza con il gruppo putiniano, maggiormente propenso a un’intesa con la parte continentale dell’Europa occidentale. Difficile, al momento, prevedere gli sviluppi immediati; di certo, l’integrità degli interessi moscoviti, in Iran soprattutto, non mostrano di essere in pericolo immediato.
01/10/2010

*Alessandro Lattanzio, redattore di Eurasia, è esperto di questioni militari. È autore di Terrorismo sintetico (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2007), Potere globale. Il ritorno della Russia sulla scena internazionale (Fuoco Edizioni, Roma 2008) e Atomo Rosso. Storia della forza strategica sovietica (Fuoco Edizioni, Roma 2009)

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Danilo Zolo, Terrorismo umanitario

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Danilo Zolo

Terrorismo umanitario

Dalla guerra del Golfo alla strage di Gaza

Edizioni Diabasis, Reggio Emilia 2009

Il libro

Il volume raccoglie una serie di saggi sul tema delle guerre “umanitarie” e delle guerre preventive, scatenate nell’ultimo ventennio dalle potenze occidentali, in palese violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale. L’accento è posto sul processo di “normalizzazione” della guerra di aggressione, sulle strategie militari della “lotta al terrorismo” e sui nuovi apparati di comunicazione di massa usati per giustificare moralmente e giuridicamente le stragi di persone innocenti.

Sullo sfondo Danilo Zolo propone una nozione profondamente diversa di “terrorismo” rispetto alle formule opportunistiche varate dagli Stati Uniti e servilmente accolte dalla grande maggioranza dei paesi europei e dei loro giuristi accademici. La guerra di aggressione non come strumento principe della tutela dei diritti dell’uomo, ma conflitto fortemente asimmetrico, in cui gli strumenti di distruzione di massa da parte delle grandi potenze sono stati consapevolmente usati per fare strage
di civili inermi e diffondere il terrore.

Il fatto che in Occidente ci sia ancora chi, come gli esponenti dell’attuale governo italiano, continua a definire queste guerre “umanitarie” e persino “democratiche” – sostiene Zolo – chiarisce perché quello che gli Stati Uniti e l’Europa chiamano global terrorism, anziché essere sconfitto, si diffonde sempre più in tutto il mondo sino a diventare la sola risposta – tragica, impotente e nichilista – dei popoli oppressi dallo strapotere terroristico delle grandi potenze.

Danilo Zolo

L’autore

Danilo Zolo (Rijeka, 1936), già professore di Filosofia del diritto e di Filosofia del diritto internazionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze, è stato Visiting Fellow nelle università di Cambridge, Pittsburgh, Harvard e Princeton. Nel 1993 gli è stata assegnata la Jemolo Fellowship presso il Nuffield College di Oxford.
Ha tenuto corsi di lezioni presso università dell’Argentina, del Brasile, della Colombia e del Messico. Coordina il sito web Jura Gentium, Center for Philosophy of International Law and Global Politics.
Fra i suoi scritti: Reflexive Epistemology, 1989; Il principato democratico, 1992); Cosmopolis, 1995 ; I signori della pace, 1998; Invoking Humanity: War, Law and Global Order, 2002; Globalizzazione. Una mappa dei
problemi, 2003; La giustizia dei vincitori, 2006.

Edizioni Diabasis via Emilia S. Stefano, 54 Reggio Emilia – Italia • tel. 0522 432727 • fax 0522 434047 • info@diabasis.it • www.diabasis.it

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Un primo successo per Kan

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A soli tre mesi dall’inizio del mandato, Naoto Kan è stato riconfermato primo ministro nelle elezioni partitiche, battendo il suo rivale Ichiro Ozawa con 412 voti contro 400. Risultato tutt’altro che scontato per via della crisi di popolarità che l’esecutivo giapponese ed il Partito Democratico al governo stanno attraversando. Tra i Grandi elettori, Ozawa ha raccolto 491 voti, mentre Kan ha totalizzato 721 preferenze interne al Partito. “Ringrazio moltissimo tutti: gli iscritti, i consiglieri, i parlamentari e soprattutto il popolo giapponese”, ha detto il premier subito dopo la proclamazione del risultato. Ha poi aggiunto: ”Ora il Giappone si trova in un momento molto difficile e dobbiamo lavorare tutti insieme al massimo”. Il primo ministro in quest’ultima dichiarazione ha fatto riferimento alla questione ancora aperta della base di Okinawa, ma anche ad altri problemi endemici che il paese affronta: la crisi economica, l’invecchiamento della popolazione, l’alto tasso di suicidi e di individui depressi, i difficili rapporti con la Cina dopo l’ultimo incidente diplomatico avvenuto nelle Isole Senkaku (a causa di un peschereccio cinese che avrebbe speronato due motovedette giapponesi) lo scorso 8 settembre. La popolarità del primo ministro, tuttavia, starebbe attraversando un periodo non florido già dai primi giorni di luglio, poco prima delle elezioni della Camera Alta del Parlamento nipponico.

L’elezione del presidente del Partito è strutturata attraverso un sistema che prevede un totale di 1222 punti nell’elezione annuale. Nel Parlamento sono presenti 411 parlamentari del Partito Democratico (DPJ), ognuno dei quali ha a disposizione 2 punti. Il totale di 400 punti risulta dai voti provenienti dai membri dell’assemblea locale (100), e dai sostenitori del partito (300).

In base ai sondaggi del quotidiano Yomiuri, i sostenitori di Ozawa ritenevano che egli sarebbe stato l’uomo nuovo, adatto per le sue capacità di guida e per le sue conoscenze in ambito economico alla nuova reggenza dell’esecutivo. Entrambi i candidati nella loro campagna elettorale hanno cercato in maniera anche piuttosto aggressiva di conquistare la benevolenza dei votanti più indecisi, che ammontavano a 72, mentre i sostenitori di Kan sarebbero stati 168 e quelli di Ozawa 171. Entrambi hanno promesso elevata autonomia finanziaria ai governi locali e un accordo con la Dieta per il decentramento da concludere nel più breve tempo possibile.

La vittoria di Kan ha consentito allo yen di risalire la china e di superare, dopo quindici anni, il valore il dollaro. La mossa interna al Partito Democratico Giapponese, e la sconfitta di Ozawa, sarebbe apparso alla comunità internazionale come di buon auspicio dal punto di vista economico. Anche le Borse asiatiche, a causa di una fluttuazione che dura da diversi giorni, hanno fatto un sospiro di sollievo. Il dollaro è infatti giunto a costare 83,36 yen il 14 settembre, in netto calo rispetto al giorno precedente durante il quale ammontava a 83,71 yen. Alcune ore prima la valutazione aveva toccato il picco di 83,25 yen per dollaro, il punto più favorevole dal maggio del 1995. L’index MSCI dell’Asia Pacifico avrebbe guadagnato 0,3 punti percentuali, toccando quota 124,15. Secondo gli analisti, ciò è accaduto poiché si sono abbassate le possibilità di una svendita di yen in borsa, manovra promessa dal candidato Ozawa. Kazuya Yashiro, analista alla Himawari Securities Inc., spiega: “Kan dimostra un atteggiamento meno aggressivo del rivale nella questione valutaria. La sua vittoria ha dato una possibilità in più di crescita per lo yen”. Nonostante ciò, l’indice Nikkei è sceso dello 0,24% a 9,299,31 punti, mentre il Topix dello 0,33% a 834,87. Ciò proprio a causa della crescita improvvisa della moneta giapponese.

Il Giappone e il vuoto di potere

L’elezione del primo ministro in Giappone costituisce un elemento distintivo della salute dell’emisfero politico del paese, e da qualche anno risulta addirittura ripetitivo, sicuramente in controtendenza con la tradizione del Sol Levante: il vuoto di potere che attanaglia il governo da quattro anni, dall’addio di Koizumi, ha portato all’elezione di ben 6 primi ministri, includendo in questo calcolo l’ultimo ballottaggio che ha visto contrapporsi Ozawa e Kan. Inoltre, da quando Hatoyama ha interrotto la lunga egemonia del Partito Liberal-Democratico (LDP) vincendo le elezioni nell’agosto del 2009, quest’ultima è la terza elezione a verificarsi.

L’opinione pubblica è determinante nell’elezione del primo ministro e per il supporto al governo in carica. Koizumi rimase in carica per un periodo di tempo abbastanza lungo proprio perché era il supporto popolare a far sì che egli mantenesse il potere. Così come il suo successore dell’LDP rassegnò le dimissioni per un calo di popolarità, cosa che accadde anche ad Hatoyama, nonostante la sua dirigenza fosse abbastanza solida nella Camera Bassa. Un professore universitario di Tokyo ha teorizzato due soglie percentuali che dovrebbero rappresentare dei campanelli d’allarme per la popolarità del primo ministro: il 30% come prima spia, e il 20% come ultimo gradino, al di sotto del quale si apre la crisi di rappresentanza. Negli ultimi anni, raggiungere queste soglie per i Primi Ministri si è rivelato abbastanza semplice, a causa di una coscienza civica che viene a mancare sempre più tra le fila delle nuove generazioni, ma anche in dipendenza delle misure economiche sempre più restrittive adottate dai governi in carica.

Attualmente il governo giapponese non ha basi solide, né tantomeno tradizione di continuità legislativa e procedurale, a causa delle dimissioni di Hatoyama presentate in un tempo troppo rapido e dall’atteggiamento molto irruento di Kan. È anche vero che cambiare la cultura politica radicata all’interno del paese non è affatto semplice, specie alla luce di alcuni interessi che persistono e alla breve permanenza sugli scranni del governo del DPJ.

A luglio, in assenza del supporto di Ozawa, il DPJ ha perso diversi consensi all’interno della Camera Alta, tanto che è venuta a crearsi una situazione meglio conosciuta come nejire kokkai, ossia un governo diviso in cui il partito al governo perde la maggioranza nella Camera Alta, rendendo così difficile la procedura legislativa. Ciò ha scatenato diverse critiche tra le forze anti-Kan e tra i sostenitori di Ozawa, e ha messo alla berlina Kan per la pessima performance elettorale del partito.

Tra i due, Kan simbolizza il nuovo stile di fare politica: fedele ad un approccio popolare e alla ricerca della rappresentanza da parte degli elettori, è il contraltare di Ozawa, legato invece al vecchio modo di fare politica e di legiferare, spesso influenzato dai forti poteri economici. Ciò che accomuna i due candidati è la dura opposizione allo stile burocratico dell’LDP, e la ricerca di politici responsabili per la messa in atto delle decisioni politiche.

Prima del voto, Ozawa era sfavorito a causa del suo coinvolgimento in alcune beghe finanziarie e per la violazione di alcune leggi riguardanti l’utilizzo dei fondi del governo, che potrebbero condurre ad un processo se le prove presentate venissero dichiarate attendibili. Kan d’altro canto gode, dinanzi all’opinione pubblica, della reputazione di uomo politico pulito, non corrotto ed impegnato per la difesa dei diritti civili, sociali e politici dei cittadini.

Il Giappone ad oggi

Kan deve tuttavia conquistare ancora la fiducia del centinaio di deputati che hanno votato a favore di Ozawa. Ulteriore punto all’ordine del giorno per Kan sarà risolvere definitivamente l’incidente diplomatico verificatosi l’8 settembre al largo delle isole Senkaku, giorno in cui un peschereccio cinese aveva speronato due motovedette della marina nipponica e il suo capitano Zhan Qixiong era stato incarcerato. La scarcerazione è avvenuta 16 giorni dopo, in seguito alle pressioni provenienti in particolare dalla Cina, che avrebbe costretto Tokyo a rilasciare il capitano dopo l’incarcerazione di quattro cittadini nipponici incriminati di spionaggio all’interno dei confini cinesi, ma in particolare dopo che la Cina ha cessato la fornitura di gas stringendo il paese del Sol Levante nella morsa energetica. E ancora: la decisione cinese di non vendere più a Tokyo minerali utili alla produzione di auto elettriche, settore fondamentale per l’economia nipponica, avrebbero influenzato molto la scelta del governo giapponese. Le critiche nei confronti della decisione di liberare il capitano del peschereccio sono state molto dure, provenienti in particolare da alcuni leader politici conservatori e dal governatore di Tokyo, Shintaro Ishihara, il quale ha dichiarato che “il governo non ne esce bene” e che “ ci sono interessi in gioco, scambi economici e turismo. Ma esiste un’altra valuta che è il bene del Paese”.

La situazione interna al Giappone presenta decisamente delle falle non trascurabili che colpiscono anche la popolazione ed il contesto sociale in cui versa. Accanto all’invecchiamento della popolazione, l’Istituto nazionale giapponese per la ricerca e la sicurezza sociale ha pubblicato i nuovi dati riguardanti l’aumento dei suicidi e della depressione. Un dato già scioccante di per sé, che ha rivelato che i costi necessari per arginare o curare il fenomeno ammonterebbero a 2.680 miliardi di yen nel 2009, pari a 25 miliardi di euro. Il ministro della Salute, Akira Nagatsuma, si mostra preoccupata, impegnandosi ad attivare nuove misure per arginare il fenomeno.

Kan dovrà confrontarsi con il suo gabinetto anche per quanto riguarda la legislazione vigente nel paese riguardante la pena di morte. Il 28 luglio scorso, infatti, sono state eseguite le prime condanne a morte dal settembre 2009. Il ministro della Giustizia, Keiko Chiba, da sempre attivista contro la pena di morte, ha dichiarato di aver presenziato all’esecuzione dei due condannati, Kazuo Shinozawa e Hidenori Ogata, accusati di omicidio plurimo. Chiba ha poi affermato di voler coinvolgere i mezzi d’informazione per visitare la camera della morte del carcere di Tokyo e per promuovere una campagna di sensibilizzazione in grado di far riflettere la popolazione sull’uso di questa pratica sanzionatoria. È infatti di primaria importanza per il ministro e per tutto il governo che sia la popolazione a pronunciarsi in merito e, nel caso, a dare il via ad un referendum.

* Alessia Chiriatti è dottoressa in Sistemi di comunicazione delle relazioni internazionali (Università per stranieri di Perugia)



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Arabia Saudita: Un perfetto controesempio negli annali della geo-strategia globale

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Fonte: René Naba

Ancora una volta recidiva nella diversione, l’Arabia Saudita incoraggiò Saddam Hussein ad andare in guerra con l’Iran per contenere la minaccia del fondamentalismo sciita, deviando la potenza irachena dal campo di battaglia arabo-israeliano. In un nuovo tentativo di destabilizzare la Siria, il principale alleato arabo dell’Iran, Arabia favorì una rivolta dei Fratelli Musulmani repressa brutalmente dai siriani, ad Hama, nel febbraio 1982, a quattro mesi dall’invasione israeliana del Libano, fomentata da un tandem composto da primo ministro israeliano Menachem Begin e da Bashir Gemayel, il leader della milizia cristiana libanese.

L’Arabia Saudita, il nemico più intransigente di Israele, in teoria, aveva effettuato la più grande diversione della lotta araba, sostenendo l’Iraq contro l’Iran nella guerra convenzionale più lunga della storia moderna (1979 – 1988), deviando il colpo dal campo di battaglia principale, la Palestina, dirottando i giovani musulmani e arabi dal campo di battaglia della Palestina all’Afghanistan. A colpi di dollari e di Mujahidin, spesso ex detenuti nel loro paese, combatterà non contro Israele, ma a migliaia di chilometri di distanza, a Kabul, dove migliaia di giovani arabi e musulmani si batteranno per un decennio contro le forze atee comuniste, voltando le spalle, al tempo stesso, di nuovo alla Palestina, con l’incoraggiamento degli intellettuali occidentali, troppo contenti per questa opportunità. Cinquantamila arabi e musulmani si arruolarono sotto la bandiera dell’Islam, sotto la guida di Usama bin Ladin, ufficiale di collegamento dei sauditi e degli statunitensi, combatterono in Afghanistan l’ateismo sovietico in una guerra finanziata, in parte dalle petromonarchie del Golfo, con fino a venti miliardi di dollari, una somma equivalente al bilancio annuale di un quarto dei paesi membri dell’organizzazione panaraba. In confronto, i combattenti di /Hezbollah/ libanese, con un numero di molto inferiore, stimato in duemila combattenti, e con un budget ridotto rispetto a quello impegnato a finanziare gli arabi afghani, ha causato sconvolgimenti psicologici e militare più consistenti della legione islamica, nel rapporto tra le potenze regionali (6).

L’Afghanistan ha avuto una funzione trascinante sulla gioventù saudita, e i diplomatici statunitensi non cercarono di nascondere questo aspetto del conflitto. Rispondendo alla rivoluzione islamica iraniana, che minacciava la leadership saudita, la guerra in Afghanistan ha permesso all’Arabia Saudita di deviare il malcontento dei giovani dal problema palestinese, a quello anti-comunista (7), ammise, in seguito, senza mezzi termini l’ambasciatore USA a Riad, Chass Freeman. I finanziamenti per la jihad anti-sovietica sarebbero, di per sé, andati a carico del bilancio saudita, con un importo sostanzialmente pari al finanziamento concesso dall’Arabia Saudita ai “/paesi del campo di battaglia/”, Egitto, Siria e OLP (8), come contributo allo sforzo di guerra arabo.

L’Islam wahhabita, che aggregava i leader arabi sunniti in una alleanza filo-statunitense (i principati del Golfo, la Giordania, Egitto, Marocco, Tunisia), indicati dal termine popolare colla definizione sprezzante di “Arabi d’America” (A/rab Amérika/) -l’asse della moderazione per gli occidentali- si lascerà così soppiantare sul proprio terreno, l’islam combattente, dai nazionalisti islamici, il libanese Hezbollah, Hamas e la Jihad palestinesi. Feconda, l’alleanza Arabia-USA nella guerra contro l’Unione Sovietica in Afghanistan (1980-1989), ha certamente accelerato l’implosione del blocco comunista, ma col loro allineamento incondizionato con gli Stati Uniti, sostenendo il miglior alleato strategico del loro nemico principale, Israele, (nonostante l’aggiunta del disprezzo che gli statunitensi hanno mostrato verso le loro aspirazioni, i fautori dell’Islam politico, principalmente l’Arabia Saudita, l’Iran imperiale della dinastia Pahlavi, il Marocco e l’Egitto di Sadat) hanno devastato l’area, evidenziandone la sua dipendenza e il suo ritardo tecnologico. Peggio ancora, la presa statunitense in Iraq, che l’Arabia ha incoraggiato, ha promosso la nascita del potere sciita nella ex capitale dell’impero abasside, facendo planare sull’Arabia Saudita, attraverso la sua affiliazione con l’Iran di Khomeini, il rischio di cadere in una trappola sciita.

L’alleanza esclusiva dell’Islam sunnita con gli USA, che ha assicurato la pace del trono wahabita durante un mezzo secolo tumultuoso, finora non ha garantito la sua sopravvivenza futura. L’Arabia Saudita sarebbe riuscita nell’impresa di ottenere il rispetto del mondo musulmano, senza sparare un colpo verso Israele, senza ottenere alcuna concessione da parte degli statunitensi sul problema palestinese, mentre si applicano metodicamente a distruggere le vestigia del nazionalismo arabo.

Ma il regno, che aveva lanciato due piani di pace per risolvere il conflitto arabo-israeliano (Piano Fahd, nel 1982, Piano Abdullah, 2002), senza la minima eco sia statunitense, che israeliana, non deviò mai dalla sua linea, nonostante questo rifiuto, probabilmente dovuto al fatto che, a livello subliminale, la dinastia wahhabita è stata la principale beneficiaria del sabotaggio operato per 30 anni dagli statunitensi e dagli israeliani, per ridurre la resistenza del nocciolo duro del mondo arabo-islamico: la neutralizzazione dell’Egitto da parte del trattato di pace con Israele (1979), la distruzione dell’Iraq (2003), lo strangolamento della Siria (2004), la ‘/caramellizzazione/’ della Libia (2005), l’isolamento dell’Iran (2006), al punto che Israele è, in definitiva il migliore alleato oggettivo dei wahhabiti, la rara combinazione di due regimi teocratici in tutto il mondo, no essendo lo Stato ebraico democratico che per la frazione ebraica della sua popolazione. In questo contesto, l’organizzazione clandestina al-Qaida di Usama bin Ladin e la rete transnazionale araba /Al-Jazeera/, appaiono, in retrospettiva, come delle escrescenze ribelli all’egemonia saudita sull’ordine interno Arabo, sia in politica che nei media.

L’arma del petrolio che ha brandito durante la guerra di ottobre del 1973, se ha portato un notevole prestigio nel mondo arabo musulmano e ripristinato un equo prezzo del carburante, in cambio ha indebolito le economie in particolare dell’Europa e del Giappone, alleati naturali nel mondo arabo. Il proselitismo religioso che ha schierato in Asia centrale, nelle ex repubbliche sovietiche musulmane, ha tagliato la strada per un’alleanza con la Russia, facendo spazio all’egemonia USA. Un camuffamento supplementare che riflette gli errori della strategia saudita e il suo impatto negativo sullo spazio arabo, il wahhabismo che ha lottato instancabilmente contro l’Unione Sovietica, ridiventata l’eterna Russia, vede profilare, con il pretesto della lotta contro il terrorismo, un pericoloso movimento a tenaglia, che può chiudersi con la tacita alleanza tra la Russia, Israele e gli Stati Uniti, per gli attentati commessi dai seguaci dell’Arabia Saudita, dagli islamisti di Al-Qaida in Occidente e dai separatisti ceceni in Russia e Ossezia. Colmo del cinismo che rivela comunque una grande paura: l’apertura della prima conferenza mondiale sul terrorismo, il 5 e 6 febbraio 2005, a Riad. Che una tale conferenza si tenesse in casa della Jihad Islamica, dove i finanziatori principali a livello mondiale dei movimenti islamici, quattro anni dopo il raid anti-Usa del settembre 2001, hanno ottenuto la cauzione dell’Occidente per una tale operazione di riabilitazione, da la misura della confusione dei leader wahhabiti e dei loro sponsor statunitensi.

L’Arabia Saudita è prigioniera e vittima delle sue scelte.

Umiliazione suprema è il fatto che il presidente USA George W. Bush, ex dipendente delle società Saudite, è stato il più fermo sostegno del Primo Ministro di Israele più aggressivo, in nome proprio del fondamentalismo religioso, avallando anche il confinamento di Yasser Arafat, il leader legittimo del popolo palestinese, e riconoscendo il diritto di Ariel Sharon di modificare unilateralmente il tracciato dei confini internazionali, in spregio della legalità internazionale. La risposta più lancinante a questa cecità potrebbe essere, simbolicamente, la scelta obbligata di dover rassegnarsi a denominare il proprio nuovo canale televisivo pan-arabo “Al Arabia”, un termine che aveva bandito dal suo lessico diplomatico per mezzo secolo, riprendendolo adesso a malincuore, nella speranza di essere ascoltato di fronte alla concorrenza, con tono meno sottomesso all’ordine statunitense. Questo paese che ha consacrato la maggior parte dei suoi sforzi a combattere, più di ogni altro paese, il nazionalismo arabo, fino a stabilire l’Organizzazione della Conferenza Islamica (OIC), una struttura diplomatica parallela e concorrente alla Lega Araba, che evolse, stranamente, a campione dell’arabismo a seguito della sconfitta militare israeliano in Libano, nell’estate del 2006, con grande stupore di quasi tutti gli osservatori internazionali. L’apostolo della fratellanza islamica per mezzo secolo, il paese la cui bandiera mostra il credo cardinale dell’Islam, accusò , senza vergogna, la Siria di aver fatto un patto con l’Iran, l’antica Persia, un paese musulmano ma non arabo, lasciando planare la minaccia di una nuova guerra di religione tra sunniti e sciiti, arabi e musulmani non-arabi, un comportamento che assomiglia a una mistificazione, illustrazione patetico della confusione del Regno.

*Tra la dinastia wahhabita e Bin Ladin, la battaglia nell’ordine simbolico di un conflitto di legittimità*

Il coinvolgimento di un membro della cerchia familiare del principe Bandar bin Sultan, figlio del ministro della Difesa e presidente del Consiglio nazionale di sicurezza, nella riattivazione dei simpatizzanti di Al-Qaida in Siria e nel Libano del Nord, nella regione del campo palestinese di Nahr el-Bared, ha dimostrato il grado di infiltrazione dei circoli pan-islamisti nella cerchia dei governanti sauditi, mentre mina il Regno nei confronti dei suoi interlocutori sia arabi che statunitensi. Sheikh Maher Hammoud, un muftì sunnita della moschea “/Al Quds/” di Saida (sud del Libano), ha apertamente accusato il principe Bandar, dalla rete /Jazeera/, sabato 26 giugno 2010, di finanziare i disordini in Libano, in particolare contro le aree cristiane, portando gli USA a dichiarare “/persona non grata/” Bandar, l’ex beniamino degli Stati Uniti, il “/Grande Gatsby/” dall’establishment statunitense.

Circostanza aggravante, la disgrazia di Bandar sarebbe correlata a informazioni che affermano che egli ha l’intenzione di impegnarsi in un colpo di stato contro l’establishment saudita, per infrangere la legge della primogenitura che disciplina le regole alla successione dinastica in Arabia. Ciò prevede l’accesso al potere del decano della generazione più anziana. Il gruppo dirigente saudita conta molti gerontocrati, compresi alcuni in posizioni chiave, che soffrono di malattie debilitanti: il principe ereditario Sultan, ministro della Difesa, il ministro degli esteri, principe Saud al Faisal e il Governatore di Riyadh, principe Salman, mentre novecento nipoti scalpitano con impazienza per saltare nei posti di responsabilità, in un clima di intensa concorrenza. La congiura, concepita con l’aiuto di alti ufficiali della base aerea di Riyadh, sarebbe stata alimentata dai servizi segreti russi. L’operazione doveva avvenire a fine 2008, durante la guerra di Gaza, durante la transizione di poteri tra George Bush jr e il democratico Barack Obama. Con il sostegno di neo-conservatori statunitensi, di cui il principe saudita era un amico stretto, la transizione doveva, nello spirito dei suoi promotori, ridurre il divario generazionale del paese, in cui il 75 per cento della popolazione ha meno di 25 anni anni, mentre la classe dirigente ha un numero significativo di ottantenni. Il fatto che gli Stati Uniti, che controllano il regno con una rete di circa 36 posizioni dell’FBI e della CIA, non avesse avvisato il potere, da la misura della cautela statunitense.

Yemen e Iraq, due paesi confinanti con l’Arabia Saudita, avrebbero costituito i due baluardi della difesa strategica del Regno, il primo nel sud, il secondo a nord dell’Arabia Saudita. E’ in questi due paesi che l’Arabia Saudita ha cominciato la lotta per garantire la continuità della dinastia, in due occasioni negli ultimi decenni, Lo Yemen che è servito da campo dello scontro tra repubblicani e monarchici arabi, al tempo della rivalità Faisal-Nasser negli anni ’60, e l’Iraq, teatro dello scontro tra sciiti rivoluzionari e sunniti conservatori, al tempo della rivalità Saddam Hussein- Khomeini negli anni ’80. Questi due paesi costituiscono, ormai, una fonte di pericolo, con l’eliminazione della leadership sunnita in Iraq, e con la reintroduzione di al-Qaida, nello Yemen, nel gioco regionale. L’inserimento di al-Qaida nella penisola arabica dallo Yemen, in questo contesto è una sfida di grande importanza. L’ancoraggio di una organizzazione principalmente sunnita, l’escrescenza del rigorismo wahhabita, sul fianco meridionale dell’Arabia Saudita, porta il segno di una sfida personale di bin Ladin agli ex padroni, poiché porta sul posto stesso della loro antica alleanza, la lite sulla legittimità tra la monarchia e il suo ex agente. Potrebbe avere un effetto destabilizzante sul regno, dove vive quasi un milione di lavoratori yemeniti. L’allarme è stato ritenuto abbastanza serio da condurre il re Abdullah ad impegnare le sue forze nei combattimenti in Yemen, nell’autunno del 2009, accanto alle forze governative, e ad attenuare la disputa con la Siria, incitando il suo uomo ligio in Libano, il nuovo primo ministro libanese Saad Hariri, a riprendere il cammino per Damasco.

In tutti gli aspetti, la strategia saudita, sia nei confronti del mondo musulmano che dell’Iraq è un caso esemplare di suicidio politico. La partecipazione di quindici sauditi su 19 all’incursione di al-Qaida contro gli Stati Uniti, l’11 settembre 2001, come negli attacchi mortali che hanno colpito Riyadh il 12 maggio 2003, un mese dopo la caduta di Baghdad, uccidendo 20 morti, tra cui 10 statunitensi, hanno suonato un campanello d’allarme come forma di avvertimento. Adulato all’eccesso, il regno è ora oggetto di sospetti quasi universale da parte dell’opinione pubblica occidentale, e la sua strategia è criticata in tutta l’arabo.

*Il re dell’Arabia Saudita, un pompiere incendiario *

Sponsor originale dei taliban in Afghanistan, l’Arabia Saudita si dice sia stata la finanziatrice principale del programma nucleare pakistano, in cambio dell’assistenza fornita dal Pakistan nella supervisione della forza aerea saudita, che ha fornito per 20 anni l’addestramento ai suoi piloti e la protezione del suo spazio aereo. Un buon affare, simbolicamente materializzato dal nome della terza città di Faisalabad, in Pakistan, l’ex Lyallpur, in omaggio al contributo di Re Faisal di Arabia nella composizione delle controversie tra il Pakistan, secondo più grande paese musulmano dopo l’Indonesia, e il Bangladesh, durante la secessione della sua ex provincia, sotto la guida dello sceicco Mujibur Rahman, leader della /Lega Awami/ (10). Nonostante queste forti analogie, in particolare il patrocinio congiunto del regno saudita al miliardario saudita libanese e al Pakistan, come i loro posizionamenti simili in termini di geopolitica degli Stati Uniti; Rafik Hariri avrà diritto ad un tribunale internazionale speciale, per giudicare i suoi presunti assassini, ma non Benazir Bhutto, di cui è stata decimata tutta la dinastia. In questa prospettiva, il destino di Benazir Bhutto è stranamente simile a quello dell’ex primo ministro libanese Rafik Hariri e a quello dell’ex presidente egiziano Anwar Sadat, assassinato nel 1981, e all’effimero presidente del Libano Bashir Gemayel, leader delle milizie cristiane, assassinato nel 1982. I leader più utili alla diplomazia israeliano-statunitensi, più da morti che da vivi.

Al culmine della diplomazia saudita, in seguito all’invasione dell’Iraq nel 2003, i due leader arabi, Hariri (Libano) e Ghazi al Yaour (Iraq) che si sono trovati contemporaneamente al potere nei rispettivi paesi, erano titolari della nazionalità saudita. In questo contesto, non è irrilevante notare che Rafik Hariri è stato assassinato nei quindici giorni che seguirono l’elezione di un curdo, Jalal Talabani, a capo dell’Iraq, e l’attribuzione a un sciita della presidenza del Consiglio dei Ministri, scartando un sunnita dal governo della ex capitale abasside, su cui sventolava, d’altronde, all’epoca, il nuovo emblema iracheno disegnato dal proconsole Paul Bremer, dai colori curdo-israeliani (blu-bianco e giallo-bianco). Cosa che, inoltre, innescò un’ondata senza precedenti di attacchi contro i simboli dell’invasione statunitense dell’Iraq e dei suoi alleati regionali.

Pompiere piromane, il monarca ottuagenario (86 anni), al potere da quindici anni, si trova all’epicentro di un conflitto che ha continuato ad alimentare, e con cui potè avallare l’invasione statunitense dell’Iraq, con ripercussione l’eliminazione dei sunniti del potere centrale, con il ruolo pioniere del falso testimone siriano presso gli investigatori internazionali, Zuhair Siddiq, un factotum del generale Rifa’at al-Assad, zio e rivale del presidente siriano Bashar al_Assad, e soprattutto cognato del re dell’Arabia Saudita, per destabilizzare il presidente libanese Emile Lahoud e sostituirlo con il secondo cognato del re, il deputato libanese Nassib Lahoud.

Sfidato sul fianco meridionale, nello Yemen, dalla principale organizzazione fondamentalista sunnita del mondo musulmano, dalle dimensioni planetarie, al-Qaida, escrescenza ribelle del modello wahabita, il re Abdullah è contestato dall’equazione rappresentata dalla gloriosa storia militare di /Hezbollah/, la principale organizzazione paramilitare del Terzo Mondo, di osservanza sciita. Abdullah appare come l’apprendista stregone di una questione che lo trascende, il demiurgo di questioni che lo sovrastano sia in Iraq che in Libano, prima che in Afghanistan. In questa prospettiva, l’affare del secolo concluso nel settembre 2010 tra Arabia Saudita e Stati Uniti, di circa 90 miliardi di dollari in armi, tra cui quasi trecento aerei e missili, mira ufficialmente a rafforzare il Regno nei confronti dell’Iran, non d’Israele, potenza nucleare che occupa Gerusalemme, il 3° luogo santo dell’Islam, ma anche e soprattutto a consolidare la dinastia nel suo ruolo di gendarme regionale, mentre i due paesi baluardo dell’Arabia (Yemen e Iraq) sono destabilizzati e l’arco dell’Islam, che va dalla Somalia all’Indonesia attraverso l’Asia Centrale e il Golfo, diviene il nuovo centro di gravità strategico del pianeta, con l’emergere di Cina e India e il loro accerchiamento dell’Occidente dall’Africa.

Indice complementare del suo vassallaggio, il nuovo contratto militare da 90 miliardi di dollari, firmato tra Stati Uniti e Arabia Saudita.

Il più grande affare d’armi nella storia mira a “rafforzare la capacità combattiva del Regno contro l’Iran”, senza porre rischi su Israele. Gli aerei sauditi saranno privati delle armi a lungo raggio, per garantire lo spazio aereo israeliano e le loro prestazioni, sia in termini di attrezzature come di maneggevolezza, saranno in ogni caso, meno potenti del nuovo velivolo che gli Stati Uniti prevedono di vendere a Israele, i 20 caccia-bombardieri F-35 /Lightning II/ (JSF-35), il super-bombardiere da superiorità tecnologica, il cui enorme costo unitario ammonta a 113.000.000 di dollari ciascuno.

Così, con un sotterfugio che gli scienziati politici statunitensi definiscono nella voce “Politica della paura”, la politica dell’intimidazione, che consiste nel presentare l’Iran come uno spauracchio, per cui l’Arabia Saudita è costretta a creare, non una difesa a tutto tondo, ma una posizione di difesa contro l’Iran, che rafforzi il regno “/contro l’Iran/”, potenza sulla soglia nucleare, e non Israele, una potenza nucleare completa e, inoltre, potenza occupante di Gerusalemme, il terzo luogo santo dell’Islam. In totale, l’ammontare degli accordi militari tra le monarchie petrolifere del Golfo e gli Stati Uniti, nel 2010-2011, sarà pari a 123 miliardi di dollari. Il resto sarà diviso tra Emirati Arabi Uniti, Kuwait e il sultanato di Oman, che sbloccheranno, nei quattro, una somma colossale per ridurre la disoccupazione negli Stati Uniti, mantenere un bacino di lavoro di 75.000 posti in cinque anni e giustificare, sotto l’apparenza di un falso equilibrio, una transazione qualitativamente superiore tra gli Stati Uniti e Israele.

Settantotto anni dopo l’indipendenza, la triade su cui è stato stabilito il regno (Islam, Petrolio e wahabismo) sembra assumere una nuova configurazione. Se l’Islam, la sua rendita di posizione, è assicurata per sempre, il petrolio è destinato a prosciugare o degradare a causa delle energie alternative, come anche la dinastia wahhabita, a meno di una sfida della sua visione monolitica dell’Islam e del mondo, dalla sua concezione dello Stato e dei suoi rapporti con i cittadini, del suo rapporto con la realtà col mondo arabo, non composto solo da musulmani, o da soli sunniti, o da soli arabi (curdi e cabili), ma anche dagli arabi sciiti spesso patrioti, e da patrioti non sempre musulmani (arabi cristiani), non sempre necessariamente in permanente stato di prostrazione davanti gli Stati Uniti d’America, e ai suoi benefici e danni.

La famiglia reale saudita ha seguito un percorso curioso per rimanere al potere, il perfetto contro-esempio negli annali della geopolitica mondiale.* *Avendo troppo manipolato i suoi alleati islamici, si è indebolita, dando loro la possibilità di rivoltarsi contro il loro ex mentore. Strumentalizzando le sue formazioni pan-islamiche in operazioni diversive (Afghanistan) o di destabilizzazione (Siria, Egitto e Algeria), senza mai rinnegarle o controllarle, l’Arabia Saudita si troverà caricata dal peso negativo della distruzione islamista dei Buddha di Bamiyan da parte dei Taliban, degli attacchi anti-USA dell’11 settembre 2001, sottoposta al sospetto dell’opinione pubblica occidentale e alla vendetta dei suoi ex protetti islamisti.

Come spiegare un simile comportamento? Che i leader abbiano potuto, in un periodo così lungo, confinarsi nel ruolo di subappaltatori, accettando di correre alla cieca in un combattimento contro dei nemici, assegnatili dai loro tutori, senza accennare a un momento di esitazione, a un lampo di orgoglio nazionale? Amputarsi consapevolmente di alleati naturali, senza sollevare la questione della compatibilità con l’interesse nazionale? Condannare l’avanguardia rivoluzionaria araba, sacrificarla per la soddisfazione degli interessi stranieri, senza entrare nel merito della fondatezza di una tale politica? A quale logica risponde un tale comportamento singolare. Follia o megalomania? Machiavellismo o cinismo servile? Incoscienza o aberrazione mentale? Postura o impostura? Quasi quaranta anni dopo i fatti, la rilevanza di una tale politica non è stata provata, ma si è rivelato un dato di fatto che “/ci sia qualcuno peggio del boia: il suo servo/”(9). Una frase su cui riflettere mentre il Regno, banca centrale del petrolio, pianifica per la prima volta nella sua storia, di mettere fine alla ricerca di idrocarburi nel suo sottosuolo, al fine di salvare la sua ricchezza, in modo da trasmetterla “/alle generazioni future/”(10), mentre la sua ricchezza rischia di prosciugarsi, e di conseguenza la sua impunità, proprio mentre la Cina è pronta a sfidare la leadership globale degli USA.

*Riferimenti *

7 – Precisazioni di Chass Freeman, ex ambasciatore statunitense in Arabia Saudita (1989-1993) basato sulla funzione deviante della guerra in Afghanistan verso la gioventù saudita dal problema palestinese, al centro del documentario di Jihane Tahri

8 – “/Una Guerra Empia. La CIA e l’estremismo islamico (1950-2001)/” di John Cooley, un ex corrispondente dal Medio Oriente per il quotidiano di Boston Christian Science Monitor e ABC News. Edizioni Eleuthera, 2001.

9 – Definzione del conte Honoré Gabriel de Mirabeau (1749-1791), uno degli oratori più brillanti della Rivoluzione francese, autore di «/Essai sur les lettres de cachet et les prisons d’état/».

10– Cfr. Le Monde 7 luglio 2010 «/Le roi Abdallah annonce l’arrêt de l’exploration pétrolière en Arabie Saoudite/». Un freno in più (e notevole) per rallentare il declino della produzione mondiale.

L’Arabia Saudita, primo produttore mondiale di petrolio, avrebbe messo fine alla esplorazione sul suo suolo, al fine di salvare la sua ricchezza e trasmetterla alle generazioni future, secondo una dichiarazione da re Abdullah in data 1° luglio. L’annuncio è stato dato a Washington davanti a degli studenti sauditi, dice l’agenzia di stampa ufficiale saudita. Pronunciato due giorni dopo un incontro tra il re saudita e il presidente Barack Obama, suona come un avvertimento. L’arresto dello sviluppo di nuovi campi petroliferi in Arabia Saudita, rischia di complicare ulteriormente il futuro della produzione mondiale di petrolio, di fronte all’aumento della domanda. Infatti, l’Arabia Saudita da sola detiene il 20% delle riserve mondiali di oro nero. Temperando il disagio innescato dal bando, un ufficiale del ministero saudita del Petrolio ha detto all’agenzia /Dow Jone/s, che la dichiarazione dell’organismo non significa una decisione definitiva, “/ma in realtà voleva dire che le esplorazioni future dovrebbero essere condotte con saggezza/”, dice il Financial Times. Il quotidiano economico londinese ha detto che la compagnia petrolifera nazionale saudita Aramco, dovrebbe compiere oggi delle prospezioni nel Mar Rosso e nel Golfo Persico.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Danilo Zolo, Tramonto globale

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Danilo Zolo
Tramonto globale. La fame, il patibolo, la guerra

Firenze University Press, Firenze 2010
€ 17,9 240 pp.
ISBN: 978-88-6453-076-5

Il libro
Tramonto globale è, secondo Danilo Zolo, l’orizzonte delle moderne democrazie. In un mondo in cui l’ideologia dell’arricchimento e della «guerra umanitaria» guida le scelte politiche occidentali, emergono i limiti della dottrina dei diritti umani e il clamoroso fallimento delle istituzioni internazionali che dovrebbero garantire la pace. Un protagonista del dibattito politico e filosofico contemporaneo affronta, in questa raccolta di saggi, fenomeni come la povertà, la fame, le malattie letali di centinaia di milioni di persone, il terrorismo, le migrazioni, l’esplosione penitenziaria, la telecrazia, lo smantellamento del Welfare state, la «paura globale». Rifuggendo l’ottimismo vile, il suo sguardo è coraggiosamente pessimista: trascorsa la notte possono splendere i primi raggi dell’aurora, ma per riuscire a vederli occorre «superare l’opacità dei luoghi comuni planetari, smascherare la sopraffazione, la falsità e l’ipocrisia del sistema politico ed economico-finanziario che oggi tenta di dominare il mondo e sta compromettendo le basi stesse della sussistenza dell’uomo».

Leggi l’introduzione:
http://www.fupress.com/Archivio/pdf%5C4298.pdf

L’autore
Danilo Zolo ha insegnato Filosofia del diritto e di Filosofia del diritto internazionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze. Visiting Fellow nelle università di Cambridge, Boston, Pittsburgh, Harvard e Princeton, nel 1993 gli è stata assegnata la Jemolo Fellowship presso il Nuffield College di Oxford. Ha tenuto corsi di lezioni presso università dell’Argentina, del Brasile e del Messico e condotto ricerche in Corea del Nord, Afghanistan, Palestina e Colombia. Coordina il sito web Jura Gentium http://www.juragentium.unifi.it/ , Center for Philosophy of International Law and Global Politics. Fra i suoi scritti: Reflexive Epistemology (Kluwer, 1989); Democracy and Complexity (Polity Press, 1992); Cosmopolis (Feltrinelli, 1995) Invoking Humanity (Continuum, 2002); Globalizzazione. Una mappa dei problemi (Laterza, 2003); La giustizia dei vincitori (Laterza, 2006). Le sue opere sono apparse in numerose edizioni straniere.

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Chávez avanza

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Mentre a Quito è stato appena sventato un presunto colpo di Stato ai danni del Presidente Rafael Correa, da pochi giorni in Venezuela si sono concluse le ultime elezioni parlamentari.
Secondo i dati ufficiali forniti dal “Consejo Nacional Electoral” (CNE), dei 165 seggi disponibili dell’Assemblea Nazionale, 98 sono andati al “Partido Socialista Unido de Venezuela” (PSUV), 65 all’opposizione, riunita per l’occasione nella “Mesa de Unidad Democrática” (MUD), e i restanti due seggi al partito “Patria Para Todos” (PPT), ex sostenitore dell’attuale Governo.
Altri tre seggi sono invece riservati ai rappresentanti indigeni.
Per quanto riguarda il “Parlatino” (Parlamento Latinoamericano), dei 12 posti disponibili, 6 sono andati al Governo e 5 all’opposizione, l’ultimo posto è stato assegnato anche in questo caso alla rappresentanza indigena.
Nonostante, dunque, le numerose dichiarazioni riportate dalla maggior parte delle testate giornalistiche “occidentali”, il Governo venezuelano non è caduto in nessun baratro senza possibilità di risalita; la maggioranza è stata raggiunta e Chávez porta a casa l’ennesima vittoria.A differenza dell’ultima legislatura, il PSUV non ha però raggiunto la maggioranza assoluta o meglio la maggioranza qualificata, che consiste nei 2/3 o i 3/5 dell’Assemblea Nazionale, che ricordiamo rappresenta uno degli organi fondamentali del sistema democratico venezuelano, da cui dipende: la selezione e la designazione dei magistrati del “Tribunal Supremo de Justicia” (TSJ), dei rettori del CNE e dei membri del “Poder Ciudadano”, oltre ad essere uno degli organismi controllori del potere esecutivo.
Tuttavia, in un momento di crisi globale, come quello cui il Governo di Chávez si trova ad affrontare, le elezioni dello scorso 26 settembre possono essere considerate come una vittoria vera e propria, dato anche l’elevato numero di seggi ottenuti che gli consentono di stare comunque al riparo da possibili impedimenti.
Vittoria che tutto sommato può dirsi tale anche per i partiti dell’opposizione che in questo caso ritornano a ricoprire un ruolo significativo all’interno dell’Assemblea Nazionale, causa anche il totale boicottaggio delle elezioni parlamentari del 2005, a ben vedere infatti, più che una vittoria può essere considerata una riappropriazione degli spazi lasciati alle ultime elezioni.
Tuttavia, un calo di preferenze fra l’elettorato del PSUV è innegabile, lo stesso Chávez ha affermato come si sperava di raggiungere la maggioranza dei 2/3 (anche l’opposizione vede comunque diminuire i seggi rispetto all’ultima elezione non boicottata).
Secondo Julio Fermín, membro del “Equipo de Formación, Información y Publicaciones” (EFIP) di Caracas, le ragioni chiave che spiegano tale tendenza sono due.
Innanzitutto, la dispersione dei partiti legati al PSUV (PPT in primis), in contrasto alla convergenza, decisiva, ottenuta dal MUD; in secondo luogo, la continua competizione e le conseguenti divisioni all’interno del PSUV stesso, causa di mancata efficienza ed efficacia nella gestione pubblica, di alcuni casi (pochi ma significativi) di corruzione amministrativa, e la scarsa capacità di controllo nelle politiche di sicurezza e di lotta alla criminalità.
Interessante sarà dunque capire come Chávez tenterà di incrementare la popolarità passata, in vista delle elezioni municipali del 2011 e soprattutto delle elezioni presidenziali del 2012.
Di certo però se l’opposizione non smetterà di essere un’accozzaglia di partiti moderati di sinistra e partiti di destra, difficilmente riuscirà ad avere la meglio sul Presidente venezuelano. Ciò che manca è, infatti, proprio una figura leader che faccia da reale antagonista di Chávez e al suo PSUV, i risultati non mancano, ma fra elezioni parlamentari ed elezioni presidenziali c’è una bella differenza, in quanto a popolarità del leader.Da un punto di vista che va oltre i confini del Venezuela, la vittoria dell’attuale Governo di Caracas, ben si pone nei confronti delle vicinissime elezioni presidenziali in Brasile e delle future elezioni presidenziali in Argentina, consolidando quindi il ruolo di quella che si potrebbe definire sinistra latinoamericana che fatta eccezione di Lula e del suo Governo, non gode in questo periodo di ottima salute, sottoposta com’è alle strette della crisi e ai pericoli golpisti che minacciano il bolivarismo, ossia l’integrazione sovrana.

*Stefano Pistore (Università dell’Aquila, Contribuisce frequentemente al sito di “Eurasia”)

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Le tappe degli aiuti al Kirghizistan da parte della Presidenza kazaka dell’OSCE

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Molti osservatori sono sempre più concordi nel ritenere che il fulcro geoeconomico e conseguentemente geopolitico del mondo si stia spostando verso Oriente e che la centralità della supremazia anglofona, che ebbe il suo apogeo durante il secolo scorso, vacilli e stia sgretolandosi per cedere il passo ad un multipolarismo già consolidatosi in nuove entità emergenti, come Cina, India e Russia.

Una realtà cui, di fatto, stiamo assistendo è la creazione di nuove entità eurasiatiche come il Kazakistan, un Paese che già possiede un suo prestigio sullo scacchiere internazionale, riuscendo ad influenzarne le sorti attraverso l’esercizio di quel soft power, d’appannaggio fino ieri esclusivamente occidentale ed al momento obnubilato dalla deriva verso l’eterogeneità dei fini e verso la logica dei due pesi e delle due misure.

Un passo fondamentale in questa direzione compiuto dal Kazakistan è quello di aver assunto, dal primo giorno dell’anno corrente, la presidenza di turno dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), nata nel 1973.
Un traguardo importante ed ambizioso, un passo in avanti la cui emblematicità non è di poco conto per questo Paese rappresentativo dell’intera compagine turcofona ed eurasiatica, nonché crocevia nevralgico fra l’Est e l’Ovest del mondo.
Un altro primato conseguito dal Kazakistan, attraverso l’attribuzione di questa presidenza, è quello di essere la prima fra le ex repubbliche sovietiche ad assumere questo ruolo di guida alla testa delle 56 nazioni rappresentate dall’OSCE, nonché la prima fra le nazioni in cui la fede dominante è quella islamica.

Una scelta, pertanto, altamente simbolica e sintomatica – con cui anche l’Italia si era a suo tempo schierata – che premia i risultati raggiunti, da questa nazione contraddistinta da un multiculturalismo plurietnico, nella direzione fortemente voluta dal suo governo, nella fattispecie dal suo Presidente Nursultan Nazarbayev, verso il dialogo interculturale e interreligioso.

Questa Presidenza è una sfida importante per il Kazakistan, ma nel contempo una chance che gli fornirà gli strumenti per imprimere il proprio contrassegno su questo organismo internazionale.
Nursultan Nazarbayev, nel discorso tenuto in aprile a Vienna in occasione della seduta di inaugurazione del Consiglio Permanente dell’OSCE, fra le altre cose, ha voluto rimarcare l’importanza del ruolo dell’OSCE per il mantenimento dell’architettura della sicurezza globale. Tuttavia, ha altresì voluto precisare che una delle questioni urgenti, incombenti sul futuro dell’organizzazione riguarda la sua disponibilità a rappresentare equamente le diversità del mondo attuale, altrimenti il suo immobilismo potrebbe accrescere la suddivisione in blocchi della stessa, unitamente ad una “linea di demarcazione” fra l’Occidente e lo spazio che procede da “Vienna verso Oriente”. Quindi più recentemente dal seggio della presidenza dell’OCSE ha richiesto una visone meno parcellizzata della realtà, invocando la capacità di pensare per grandi spazi. Ricordiamo che l’Organizzazione gioca, ha giocato e continua a giocare un ruolo importante nel mantenimento dell’architettura della sicurezza in un’area che va da Vancouver a Vladivostok.
Da ciò consegue che la sicurezza dell’Europa “atlantica” dipenda strettamente dalla stabilità dell’Asia Centrale. Una stabilità che però è messa in discussione sia da crisi interne all’area – ultimo esempio quella del Kirghizistan, con pesanti riflessi sul limitrofo Uzbekistan – sia, soprattutto, dal confinare meridionale con l’area di crisi più sensibile di questi ultimi anni: l’Afghanistan, e, in senso più lato, la vicina area del Golfo Persico.

Riguardo ai fatti del Kirghizistan, il Presidente della Repubblica kazaka, Nursultan Nazarbayev ha, innanzitutto, espresso il suo rammarico per il sangue versato dalla popolazione civile, condannando le violenze ed i saccheggi che hanno avuto luogo nella vicina Repubblica, dichiarando:

“La Repubblica del Kirghizistan è nostra vicina. Sono oltremodo dispiaciuto di fare da spettatore a quest’evento e rammaricato dell’abisso di prostrazione in cui è sprofondato il popolo kirghiso, nostro prossimo e fratello.
Allorché tutti i politici affermavano di essere preoccupati per la gente, già il secondo giorno, erano iniziati i saccheggi. I negozi sono stati distrutti e bruciati mentre le banche sono state chiuse e gli investimenti abbandonato il Paese.
Senza stabilità, nulla può essere. Non è né con la politica né con le barricate che si dovrebbe affrontare il problema, bensì facendo in modo di fornire, innanzitutto, i mezzi di sussistenza al popolo, garantendogli un lavoro.

Il risultato di tale andazzo è che oggi, più della metà della popolazione del Kirghizistan, vive al di sotto della soglia della povertà, con un tasso di disoccupazione molto alto. Il PIL pro capite del Kirghizistan è di 8.00 dollari a fronte degli 8.000 del Kazakistan.
In Kazakhstan, infatti, in tutti questi anni, la gente ha potuto condurre una vita serena, tranquilla, lavorando e crescendo i bambini. Il Paese è stabile e, nonostante il contesto multietnico, il rispetto e la tolleranza verso il prossimo sono molto alti. E ciò ci offre l’opportunità di crescere, la possibilità di attrarre gli investimenti. Tutto questo suggerisce che la stabilità e la convivenza pacifica del popolo sono le cose più importanti da salvaguardare”.

I fatti salienti che, nel corso dell’anno, fino a giugno, hanno caratterizzato ufficialmente l’attività del Kazakistan, nella sua veste di rappresentante dell’OSCE sono stati i seguenti:

L’8 aprile durante una conversazione telefonica da parte del Presidente dell’OSCE, il Ministro degli Affari Esteri della Repubblica del Kazakistan Saudabayev, con il Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon è stata espressa una forte preoccupazione per la situazione in Kirghizistan, cordoglio per la perdita di molte vite umane e la volontà di cooperare per risolvere la situazione.
Ban Ki-moon decideva così di inviare il suo Rappresentante Speciale, il Vice Segretario Generale esecutivo della Commissione economica per l’Europa, Jan Kubis, che già nel 2005 aveva partecipato a risolvere la situazione in Kirghizistan.

Saudabayev prendeva la decisione di inviare in Kirghizistan il suo Rappresentante Speciale, Janybek Karibzhanova, Vice Presidente della Mazhilis, capo del gruppo kazako-kirghizo inter-parlamentare, con il rango di Ambasciatore Straordinario nonché di Ambasciatore Plenipotenziario del Kazakhstan. Ed ancora inviava in loco Herbert Salber, direttore del Centro per la prevenzione dei conflitti dell’OSCE.
Il Presidente dell’OSCE intratteneva, inoltre, conversazioni telefoniche con i suoi omologhi, i capi dei ministeri degli Esteri della Russia: Sergey Lavrov, del Regno di Spagna (Presidenza UE): Miguel Moratinos, della Repubblica di Lituania: Azubalis Audronius, oltre che con Jan Kubis.

Sempre l’8 aprile, su iniziativa del Kazakistan, a Vienna si è tenuta una riunione speciale del Consiglio permanente dell’OSCE sulla situazione nella Repubblica del Kirghizistan.
Il 27 aprile Saudabayev si è sentito con il Ministro degli Affari Esteri italiano, Franco Frattini, il quale ha elogiato il lavoro della Presidenza Kazaka dell’OSCE a risolvere la crisi nella Repubblica del Kirghizistan, in particolare la guida del Presidente Nursultan Nazarbayev. Nazarbayev, attraverso un apposito decreto governativo, aveva devoluto al Kirghizistan 3.000 tonnellate di gasolio in aiuti umanitari.
L’11 maggio, per Decreto del Presidete Nuesultan Nazarbayev, è stato nominato Utmuratov Bulat Zhamitovich quale rappresentante speciale del Presidente della Repubblica Kazaka in materia di cooperazione con la repubblica del Kirghizistan.
Quindi dal Fondo della riserva dell’OSCE ha assegnato 200.000 euro per il mantenimento dell’ordine pubblico e della sicurezza e per il rafforzamento dello stato di diritto e di democrazia in Kirghizistan.
Il 15 maggio Utemuratov, incontratosi con il Presidente del governo provvisorio del Kirghizistan Roza Otunbayeva e con il Vice Presidente del Governo Provvisorio Tekebayev, ha discusso circa la possibilità di istituire dei meccanismi per regolarizzare il flusso di lavoratori migranti provenienti dal Kirghizistan, così come la promozione delle relazioni economiche attraverso l’apertura della frontiera kirghizo-kazaka.
Il 19 maggio Saudabayev ha espresso profonda preoccupazione per i tragici avvenimenti nella regione meridionale kirghiza di Jalal-Abad, facendo la seguente dichiarazione:

“Esorto tutte le parti ad astenersi dalla violenza e di fare tutto il possibile per evitare ulteriori scontri e di risolvere i problemi, appellandosi alla tolleranza ed al compromesso. Particolarmente inaccettabili sono i conflitti su base etnica. Una questione urgente che può creare le condizioni per far uscire in Kirghizistan dalla crisi, è quella di assicurare lo stato di diritto e di legalità, in accordo con la stabilità sociale”.

Il 12 giugno, Saudabayev in una conversazione telefonica con il capo del governo provvisorio della Repubblica del Kirghizistan Roza Otunbayeva, si è rammaricato per la morte e il ferimento di molte persone durante gli scontri di Osh ed ha espresso grave preoccupazione per il perpetrarsi di continue violenze.
Lo stesso giorno, Saudabayev in occasione di colloqui telefonici con il Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon, con l’Alto Rappresentante della UE per gli affari esteri K. Ashton nonché con i ministri degli Esteri della Presidenza di turno della UE, lo spagnolo M. Moratinos, il russo Sergey Lavrov e il turco Ahmet Davutoglu, ha informato gli interlocutori della sua decisione di inviare in Kirghizistan il suo rappresentante speciale, Zhanybek Karibzhanova unitamente ai dirigenti del Centro di prevenzione dei conflitti dell’OSCE.
Il 14 giugno su iniziativa del Kazakhstan si è tenuta a Vienna una riunione speciale del Consiglio permanente dell’OSCE sulla situazione nella Repubblica del Kirghizistan. Nel corso della riunione, Knut Vollebek è stato prescelto come Alto Commissario dell’OSCE per le Minoranze Nazionali.
In seguito Saudabayev ha parlato con il Segretario di Stato statunitense, Hillary Clinton, scambiando opinioni sulla situazione in Kirghizistan. La Clinton ha elogiato gli sforzi del Presidente Nursultan Nazarbayev sia come leader di uno Stato vicino che come Presidente dell’OSCE.
Il 15 giugno a Bishkek la sessione del Meeting di coordinamento, presieduto da J. Karibzhanov con la partecipazione del rappresentante speciale del Segretario generale dell’ONU, M. Jenca, del segretario del Consiglio di sicurezza della Repubblica del Kirghizistan, A. Orozov, dei capi delle missioni diplomatiche e delle organizzazioni internazionali, ha affrontato i temi di una rapida stabilizzazione della situazione politica in Kirghizistan attraverso l’assistenza dell’OSCE, dell’ONU e delle altre organizzazioni.
Il 21 giugno il Presidente kazako Nursultan Nazarbayev ha rilasciato la seguente dichiarazione:

“Il Kazakhstan vuole la stabilità del Kirghizistan. In qualità di Capo di uno Stato che presiede l’OSCE, faccio tutto quello che è in mio potere per consolidare la fornitura di assistenza umanitaria ed altri aiuti. Già con l’appoggio della CSTO (l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva), Russia, Kazakhstan e Uzbekistan stanno offrendo la loro assistenza al Kirghizistan e credo che questo abbia costituito, per l’Uzbekistan, una sfida. Dobbiamo pertanto ringraziare il Presidente Islam Karimov e l’Uzbekistan che hanno assunto su di sé l’onere di far entrare quasi 100 mila persone al giorno, accogliendole e fornendo loro il vitto e le cure necessarie. Posso immaginare quanto sia stato difficile per questo Paese, quali problemi abbia dovuto affrontare.
Noi dei Paesi limitrofi – Kazakhstan, Uzbekistan e Russia – cooperiamo offrendo la nostra assistenza per la risoluzione di problemi rilevanti. Ma fra le altre cose, voglio menzionare quell’opinione diffusa che fa apparire il Kirghizistan come un Paese povero, uno Stato privo di risorse.
Io non la penso così. Al contrario, il sottosuolo del Kirghizistan è ricco di oro, di ferro, di argento, di rame ed altro ancora. Inoltre, possiede un enorme potenziale di risorse idriche così come di attrattive turistiche. Ma tutto questo dovrebbe essere implementato. Nessuna forma di assistenzialismo, ancorché umanitario, potrà mai sollevare questo Paese. La prima questione è quella se lo Stato può risollevare l’economia offrendo alla gente un lavoro che permetta di sfamare la popolazione. E questo è possibile solo qualora vi sia stabilità. Pertanto è necessario attivare un programma di risanamento economico del Kirghizistan ed il Kazakhstan è pronto a contribuire alla sua realizzazione. Il mio auspicio per il Kirghizistan è quello che riesca ad attuare una propria strategia di rilancio e di recupero dell’economia”.

Il 22 giugno, tra le delegazioni degli Stati membri dell’OSCE è stato fatto circolare un progetto finalizzato a rafforzare le attività in corso dell’OSCE in risposta alla situazione nel sud del Kirghizistan. La proposta comprende:

1. Il rafforzamento delle capacità del Centro OSCE di Bishkek;
2. Il collocamento di gruppi della polizia operativa dell’OSCE in Kirghizistan. L’obiettivo primario della polizia operativa dell’OSCE consiste nel rafforzamento del potenziale del Centro OSCE di Bishkek e nel sostegno verso le autorità del Kirghizistan onde ripristinare l’ordine pubblico attraverso il consolidamento delle autorità locali e la riduzione delle tensioni etniche, contribuendo in tal modo ad alleviare la crisi umanitaria e creare le condizioni sul terreno per favorire una continuità delle politiche del dialogo volte a raggiungere una soluzione duratura della crisi.

Il 27 giugno in Kirghizistan è stato effettuato un referendum per la nuova costituzione. Nonostante abbia votato il 90,7% della popolazione, il capo della Commissione elettorale centrale per le Elezioni e Referendum del Kirghizistan, R. Sariyev, ha detto che i risultati del referendum verranno annunciati a tempo debito.
Il 28 giugno, il Presidente del Consiglio permanente dell’OSCE Kairat Abdrakhmanov ha lodato il referendum congratulandosi con Roza Otunbayeva dichiarando che l’affluenza alle urne è stata sufficientemente elevata.
Sempre il 28, Roza Otunbayeva ha espresso gratitudine al Presidente del Kazakhstan, Nursultan Nazarbayev, sia a livello bilaterale che in qualità di Presidente dell’OSCE, per il costante sostegno offerto al Kirghizistan fin dai primi giorni della crisi. Il 29 giugno, in una conversazione telefonica fra Kanat Saudabayev ed il Segretario di Stato statunitense, Hillary Clinton, quest’ultima ha espresso la propria gratitudine e il proprio sostegno agli sforzi profusi dal Presidente Nursultan Nazarbayev e dalla Presidenza dell’OSCE, tenuta dal Kazakistan, per riportare la pace e la sicurezza nel Paese vicino e nella regione dell’Asia centrale.

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La difficile riconciliazione nazionale in Sri Lanka

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Quando, il 19 maggio 2009, il presidente della Repubblica Mahinda Rajapaksa proclamò la conclusione delle ostilità contro lo sconfitto LTTE (Liberation Tigers of Tamil Eelam), ebbe finalmente fine una lunga e sanguinosa guerra civile durata ventisei anni, che aveva tolto la vita a circa 80,000 persone e che aveva diviso il Paese secondo spaccature etniche e religiose.

Tuttavia, la riunificazione dell’isola, il termine della guerra civile e l’eliminazione di un’organizzazione a stampo terroristico, non deve far pensare che la questione nazionale, a sua volta derivante dalla “questione Tamil” debba considerarsi risolta. Anzi, il futuro del Paese richiede una strategia che attiri il consenso non solo della maggioranza cingalese (che annovera il 75% della popolazione), ma anche delle minoranze tamil e musulmane. Tale consenso passa necessariamente attraverso un’approfondita analisi non solo delle cause che hanno scatenato il conflitto, ma anche, in ragione della lunga durata dello stesso, il fatto che le conseguenze della guerra abbiano creato dei problemi che esulano dalle cause originarie del conflitto. Tali aspetti riguardano le esperienze di autogoverno di regioni fino allo scorso anno completamente autonomo dal potere centrale, il ritorno dei profughi, la ricostruzione delle infrastrutture e dell’economia, il problema della rappresentanza etnica nei partiti nazionali.

Figura : territorio Tamil secondo l’LTTE

A tali aspetti se ne aggiunge uno di pari importanza, legato alle gravi sofferenze patite dalla popolazione civile nel corso della guerra e, in particolar modo, dalle gravi perdite che hanno caratterizzato gli ultimi mesi della guerra civile.

Crimini di guerra. La guerra civile in Sri Lanka scoppiò nel 1983, vedendo contrapposti le forze governative e l’LTTE, a causa della questione concernente i diritti politici e civili della minoranza tamil nell’isola. Dopo una tregua durata quattro anni, tra il 2002 ed il 2006, interrotta da sporadiche violazioni dall’una e dall’altra parte, il conflitto riprese su larga scala nel 2006, dopo l’avvento del presidente Rajapaksa, forte del sostegno popolare ad una politica nazionalista volta a spegnere in modo definitivo l’insorgenza tamil. Nel 2006 il governo fu capace di riguadagnare il controllo delle regioni costiere orientali, mentre l’offensiva contro le roccaforti del nord iniziò nel 2008, per concludersi con il trionfo delle forze governative nel corso della prima metà del 2009.

Le ultime fasi dello scontro furono particolarmente cruente, coinvolgendo la popolazione civile. Secondo stime prudenziali rilasciate dalle Nazioni Unite, il bilancio delle perdite civili tra il gennaio e l’aprile 2009 ammonterebbe a 7,500 decessi e 15,000 feritii.

A causa dell’avanzare delle forze governative, infatti, l’LTTE obbligò la popolazione civile delle aree controllate a insediarsi in piccoli fazzoletti di terra, utilizzandola, di fatto, come un enorme scudo umano, che contava centinaia di migliaia di persone. Al fine di evitare che i civili potessero riversarsi verso zone controllate dal governo, o comunque esterne rispetto alla zona del conflitto, l’LTTE iniziò la pratica sistematica di sparare a vista a chi cercava di fuggire. Inoltre, a causa delle crescenti carenze logistiche e di organico, molti civili furono costretti ad arruolarsi o ad eseguire corvée. Appare dunque insensato avere rimpianti per l’eliminazione di una organizzazione che manifestò tutta la propria crudeltà nelle fasi terminali del conflitto.

Tuttavia, dal canto suo, il governo non fece nulla per lenire le sofferenze civili, ma utilizzò, anzi, strategie criminali che deliberatamente portarono ad un aggravarsi della situazione. Una stima delle perdite procurate direttamente dall’azione del governo risulta impossibile, poiché fu proibito ogni tentativo delle organizzazioni umanitarie, governative e non, di portare soccorso alle popolazioni che si trovavano nel turbine del conflitto, anzi disturbandone ed intimidendone l’operato tramite il bombardamento deliberato di ospedali da campo e punti di distribuzione di aiuti umanitari.

Parimenti, il governo sottostimò in modo importante il numero di civili tenuti sotto ostaggio dall’LTTE, non consentendo il passaggio di aiuti umanitari adeguati al numero dei civili nelle aree in questione. Possibilmente ancora più grave è stato il bombardamento deliberato di aree che il governo aveva unilateralmente dichiarato No-Fire-Zones.

Immagine 2: Immagini UNOSAT che dimostrano il bombardamento delle no-fire-zones da parte del governo.

Nel complesso, la tattica utilizzata dal governo per venire a capo della guerra civile e distruggere l’LTTE ha richiesto una certa erosione del principio di distinzione tra popolazione civile e combattenti. Il pretesto di utilizzare la lotta al terrorismo, all’insorgenza, per giustificare la sistematica violazione dei più basilari diritti umanitari appare particolarmente grave, e potrebbe creare effetti di emulazione in altre aree del mondo con problematiche simili a quelle dello Sri Lankaii.

Al termine del conflitto, il governo si trovò inoltre a gestire la situazione dei profughi, per un numero che nel maggio 2009, arrivava a contare le 300,000 persone, un decimo della popolazione tamil complessiva.

Anche in questo caso, il comportamento del governo può essere etichettato di negligenza, quando non di volontaria e deliberata violazione dei diritti umani. I rifugiati furono infatti confinati in campi profughi, ribattezzati in modo piuttosto eufemistico come “welfare centers”, in situazioni pressoché di prigionia. Ai profughi fu infatti impedito il diritto alla libertà di movimento, sebbene molti tra di essi potessero contare su nuclei familiari o parenti disposti ad ospitarli nelle vicinanze. Inoltre, in violazione delle osservazioni proposte dalle Nazioni Unite, i campi furono affetti da gravi problemi di sovrappopolamento, che a loro volta sottolinearono difficoltà logistiche e sanitarie. Ancora, le autorità negarono sistematicamente di passare informazioni ai profughi circa le motivazioni della detenzione, il tempo necessario perché fosse autorizzato il rientro, la possibilità di conoscere la collocazione dei parenti. Inoltre, al fine di evitare critiche circa il proprio operato, il governo interdette l’accesso ai campi tanto alle organizzazioni delle Nazioni Unite, quanto all’ICRC, quanto ai media.

La motivazione addotta dalle autorità per giustificare le condizioni di semi-prigionia cui erano sottoposti i profughi era rappresentata dalla necessità di identificare i combattenti dell’LTTE e distinguerli dai civili. Nel corso del 2009 le autorità trattennero in detenzione circa 11,000 persone, tra cui oltre 550 minori, sospettate di affiliazione all’LTTE. Pur garantendo una amnistia per la maggior parte di costoro, desta preoccupazione il fatto che un numero così consistente di persone sia trattenuto in custodia senza poter essere a conoscenza delle esatte ragioni della detenzione, senza assistenza legale, come neppure di avere la possibilità di ricorrere di fronte ad autorità giudiziarie per contestare la propria detenzione o, semplicemente, di informare le proprie famiglie delle proprie condizioni. Per queste persone, il governo prevede il rilascio dopo un periodo passato presso un centro di “riabilitazione”. Anche in questo caso l’accesso a tali centri è proibito agli osservatori indipendenti ed alle agenzie umanitarie.

Giustizia? No, grazie. Sebbene la riunificazione del Paese e la sconfitta di un gruppo terroristico e crudele abbia strappato il plauso da parte delle dirigenze politiche di tutto il mondo, man mano che le notizie circa i crimini di guerra perpetuati dalle parti iniziarono ad emergere, la richiesta, da parte dei governi occidentali, di una indagine che verificasse i crimini commessi ed assicurasse alla giustizia gli eventuali colpevoli.

Tuttavia, mentre la leadership dell’LTTE è stata sterminata nel corso degli ultimi giorni della campagna militare, restano ancora oggi aperte e spinose le questioni circa chi debba giudicare le violazioni commesse da parte dei militari cingalesi e di chi abbia trasmesso loro direttive che violavano apertamente i diritti della popolazione civile in area di guerra.

Nonostante le pressioni dei paesi occidentali, volte all’istituzione di una inchiesta internazionale, in osservanza della Convenzione di Ginevra, secondo la quale i crimini di guerra non possono essere considerati una “questione interna”, il governo Rajapaksa ha costantemente rifiutato ogni ipotesi di inchiesta internazionale, affermando che sarebbe una violazione della sovranità nazionale.

Nel consesso internazionale, il supporto alle istanze cingalesi da parte dei paesi del sud del mondo, tradizionalmente legati al concetto di “sovranità nazionale”, ha reso lo Sri Lanka immune da possibili censure da parte degli organi delle Nazioni Unite. Ne è un esempio la bocciatura di una proposta di inchiesta circa possibili crimini di guerra, formulata nel maggio 2009 in seno al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, che, al contrario, adottò una risoluzione che elogiava il governo cingalese. Inoltre, in quanto Paese non ratificante della Corte Criminale Internazionale, tale Corte non può agire senza un mandato da parte del Consiglio di Sicurezza, presso il quale lo Sri Lanka può contare sul determinante appoggio di Pechino.

Le pressioni internazionali si sono dunque tradotte solamente nella creazione di una commissione di inchiesta internaiii, denominata “Lessons Learnt and Reconciliation Commission” avente l’obiettivo di ricercare possibili violazioni del diritto umanitario internazionale, le circostanze in cui le violazioni sarebbero avvenute e l’identificazione delle persone colpevoli, senza però determinare qualora tali persone possano essere sottoposte a giudizio secondo la legge cingalese o se ci saranno azioni giuridiche da intraprendere nei loro confronti. Come denuncia lo Human Right Watch e rileva un recente report del Dipartimento di Stato statunitense, i risultati raccolti dalle dieci commissioni di inchiesta, stabilite dall’indipendenza ad oggi sono scarsi. Nulla lascia pensare che questa commissione, circa la quale sono insorti dubbi circa la professionalità dei commissari, possa ottenere dei risultati positivi.

La creazione di tale organo, ad ogni modo, risulta dalle ulteriori pressioni portate dai Paesi occidentali e dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, tramite l’istituzione di un panel, formato da tre esperti nominati da Ban-Ki-Moon allo scopo di indagare circa i crimini di guerra. Il governo insulare ha rifiutato l’accesso nel Paese al panel, ribattezzando la creazione del comitato come un atto “non richiesto” ed “ingiustificato”.

Le questioni di lungo termine per una riconciliazione nazionale. Appare fondamentale comprendere come la fine del conflitto non significa che la riconciliazione nazionale debba considerarsi acquisita. Anzi, è proprio nella fase della ricostruzione (economica, infrastrutturale e politica) delle aree settentrionali ed orientali del Paese quella in cui si deve risolvere la “questione tamil” per raggiungere infine la riconciliazione nazionale.

Anche con riguardo a questo aspetto, tuttavia, l’approccio del governo appare in qualche modo aumentare, anziché diminuire, i timori della minoranza tamil. Lo sviluppo e la ricostruzione del nord e dell’est del Paese pone infatti diversi ostacoli potenziali al raggiungimento della pace sociale nella regione. Le necessità umanitarie, infrastrutturali ed economiche di tali aree sono enormi, e il governo Rajapaksa, pur riconoscendo l’importanza di affrontare tale questione, appare presentare una visione della “questione tamil” come provocata da motivazioni di sottosviluppo economico dell’area, negando gli aspetti politici ed etnici della stessa.

Presentando una tale visione del problema, appare possibile che lo sviluppo economico dell’area possa presentare aspetti problematici che abbiano il potenziale di acuire l’astio tamil nei confronti della maggioranza cingalese. Come sottolinea l’International Crisis Group (gennaio 2010), i piani del governo rimangono poco chiari, e sarebbero caratterizzati da una marginalizzazione dell’importanza delle comunità locali e dei partiti politici tamil, la militarizzazione del territorio, restrizioni sulle attività delle ONG locali e internazionali, il rischio di conflitti circa la proprietà della terra, la possibilità che cambiamenti demografici possano diluire il carattere prevalentemente tamil nella regione.

Nel complesso, dunque, la ricostruzione, pur portando a un miglioramento delle condizioni economiche della popolazione, sarebbe caratterizzata da una marginalizzazione politica ed economica dei tamil. In un tale contesto appare impossibile comprendere come il processo di sviluppo possa evitare di produrre discriminazioni etniche, creando invece fondati timori verso una possibile colonizzazione economica da parte dei cingalesi delle aree precedentemente sotto il controllo dell’LTTE.

A tutto ciò si aggiunge il vivo risentimento contro il governo dell’isola da parte della consistente diaspora tamil, ancora oggi strettamente legata a concetti di indipendenza e di lotta armata, anche alla luce dei crimini di guerra perpetuati dalle forze governative e della mancanza di una chiara volontà di fare giustizia.

Anche la situazione dei profughi appare tutt’altro che risolta. Sebbene i campi profughi si siano progressivamente svuotati, consentendo al governo cingalese di evitare ulteriori critiche a livello internazionale, il rientro è stato caotico e mal preparato, creando timori riguardo alle condizioni dei “ritornati”. È necessario notare come molti profughi apparentemente rientrati presso le loro località di origine siano ancora stazionati in “centri di transito” nel proprio distretto, che il processo di ricostruzione delle abitazioni (peraltro saccheggiate di ogni bene di valore economico) e di sminamento proceda molto lentamente, che a molti di essi non sia stata fornita una assistenza finanziaria, fondamentale al fine di ricostruire una attività economica, e che tutta la fase del “ritorno” non sia stata monitorata da organizzazioni indipendenti.

Conclusioni. La riconciliazione nazionale in Sri Lanka richiede una revisione delle politiche governative da adottarsi nel territorio precedentemente sotto il controllo dell’LTTE, così come di una imparziale ed attenta indagine circa le responsabilità delle forze governative con riguardo ai massacri di popolazione civile che hanno caratterizzato le ultime fasi della guerra civile.

Parimenti, le organizzazioni internazionali, ed in particolare le organizzazioni che concentrano le proprie attività sullo sviluppo e la ricostruzione, da un lato, e sull’assistenza umanitaria dall’altro, dovrebbero subordinare il proprio intervento all’adozione da parte del governo cingalese di misure atte a creare un ambiente di stabile e duratura pace etnica e sociale.

Purtroppo, in entrambi i casi, si è teso sinora ad ignorare tali aspetti. In tal senso, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale dovrebbero rivedere l’accesso ai fondi stanziati per la ricostruzione, al fine di garantire una maggiore equità e trasparenza nella loro allocazione, subordinandone l’accesso a misure che cerchino di risolvere in modo equo la “questione tamil”. Sarebbe inoltre auspicabile, alla luce dell’indebolimento dell’influenza dei paesi occidentali in Sri Lanka, che gli sforzi economici da parte delle potenze asiatiche, in primis Cina, India e Giappone, comprendano l’importanza della questione, e agiscano in modo da facilitare una risoluzione delle fratture interne del Paese che non comporti la marginalizzazione della minoranza tamil e la colonizzazione economica cingalese nelle aree interessate.

Bibliografia:

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Human Rights Watch, “Sri Lanka: US Report Shows No Progress on Accountability”, 11 agosto 2010.

The Guardian, “Sri Lanka is Still Denying Civilian Deaths”, 5 settembre 2010.

India Times, “Rajapaksa using Sino-Indian rivalry in SL”, 16 settembre 2010.

Human Rights Watch, “Sri Lanka’s War: Time for Accountability”, 28 aprile 2010.

Asian Tribune, “The United States has lost clout in Sri Lanka”, 9 settembre 2010.

Asian Tribune, “Sri Lanka shuns West, finds solace in East”, 10 settembre 2010.

Internal Displacement Monitoring Centre, “Continuing humanitarian concerns and obstacles to durable solutions for recent and longer-term IDPs”, dicembre 2009.

Human Rights Watch, “Sri Lanka events of 2009”, gennaio 2010.

The Huffington Post, “Seeking Justice after Sri Lanka’s Elections”, 27 gennaio 2010.

Digital Journal, “Sri Lanka commission begins civil war inquiry amid skepticism”, 11 agosto 2010.

Daily Mirror, “Can Mahinda Rajapaksa vanquish the UN?”, 15 settembre 2010.

International Crisis Group, “War Crimes in Sri Lanka: Executive Summary and Reccomendations”, Asia Report n°191, 17 maggio 2010.

Human Rights Watch, “Legal Limbo: the Uncertain Fate of Detained LTTE Suspects in Sri Lanka”, febbraio 2010.

International Crisis Group, “The Sri Lankan Tamil Diaspora after the LTTE”, Asia Report n°186, 23 febbraio 2010.

Asian Tribune, “What is Happening to the Ex-LTTE Cadre Surrenders?”, 30 luglio 2010.

International Crisis Group, “Sri Lanka: a Bitter Peace”, Asia Briefing n°99, 11 gennaio 2010.

iA tale numero bisogna comunque aggiungere le persone decedute nelle ultime fasi del conflitto, durante il corso delle prime settimane di maggio 2009, stimabili in alcune migliaia. Alcune organizzazioni non governative, come International Crisis Group e Human Right Watch, ritengono verosimile un numero di decessi, nel corso del 2009, stimabile tra le 20,000 e le 30,000 persone.

iiCome riporta l’International Crisis Group (maggio 2010), discussioni circa la possibilità di utilizzare la “Sri Lanka Option” sarebbero iniziate ad emergere in Myanmar e nelle Filippine.

iiiCome riconosce il Comitato del Senato statunitense per le Relazioni Estere, in un report rilasciato nel dicembre 2009, la generalizzata inefficacia delle pressioni americane (ma si può leggere “occidentali”) nei confronti del governo Rajapaksa si iscrive in un contesto generale in cui l’influenza statunitense nell’area si sta indebolendo, sostituita dagli investimenti cinesi, meno inclini a esprimere atti di censura nei confronti della violazione dei diritti umani. Circa i rapporti tra India e Sri Lanka, e la relativa influenza del primo nei confronti del secondo, c’è da notare come l’India si trovi nella complessa situazione di dover bilanciare, da un lato, l’interesse per la situazione umanitaria dei tamil, numerosi nel sud del paese, e le necessità di fronteggiare la penetrazione cinese in Sri Lanka, dando quindi al presidente Rajapaksa la possibilità di utilizzare con abilità le contraddizioni nella politica estera indiana.

* Davide Ambrosio è dottore in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università degli Studi di Trieste)


Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore, e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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